Il professore di storia dell'arte del liceo in cui ho studiato era un uomo buono. Amava la sua materia e si addolorava di avere così poco tempo per insegnarcela.
Come vorrei dirgli che seppe rendere prezioso quel tempo per lui tanto esiguo!
Ora rivedo quel volto chiaro, l'alta fronte che sembrava non finire mai a causa della calvizie della parte anteriore del capo, al centro del quale spuntava, invece, folta ed ispida, una candida chioma a mo' di pennello. Per questo, quasi non ci si rammentava più del suo vero nome, lo si nominava il “professor Pennellone”. E, del resto, questo nomignolo, che lui fingeva di ignorare, al professore di Storia dell'arte stava proprio “a pennello”.
Alto e dinoccolato, indossava sempre lo stesso abito grigio, lindo quanto liso. Conosceva a menadito tutti i miti classici e quelli biblici, e gli piaceva raccontarceli, mentre ci insegnava a “saper vedere” le opere d'arte raffigurate sul nostro manuale, quello di Carlo Argan.
In una parte della mia memoria si è così conservata una galleria di immagini. Alcune, nel tempo, sono andata a cercarle nell'originale.
Ho viaggiato fino alla dorata Micene per attraversare la Porta dei Leoni! Mi sembrava di sentire ancora il rotolio dei carri e lo scalpitio dei cavalli dell'esercito di Agamennone in marcia verso Troia.
In una torrida estate ateniese ho scandito la sequenza dell'ordine dorico, abbacinata dalla luce splendente sul marmo pario del Partenone.
A Firenze, in un dolce settembre della mia giovinezza, nella cappella Brancacci della chiesa del Carmine, il "professor Pennellone" pareva raccontarmi la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre di Masaccio.
Caro professore! ti sono ancora riconoscente!
Ti devo anche il ricordo di una basilica benedettina, una chiesina, in realtà, un po' bizantina e un po' romanica, Sant'Angelo in Formis, nell'omonimo borgo, su un lieve pendio, non lontano da Capua.
Negli anni, più volte mi ci sono recata. Ma, fatalmente, ogni volta ho trovato l'ingresso sbarrato per motivi diversi. Finché, quando ci sono andata l'anno scorso, in una domenica d'agosto, finalmente, il cancello d'accesso all'abbazia era aperto. L'ho varcato, trattenendo il respiro.
Risuonano i miei passi sul basolato antico mentre attraverso una viuzza incassata tra antiche costruzioni tufacee raccordate da un arco.
Alzo la testa. Con gli occhi inseguo la verticale del sobrio e solido parallelepipedo dell'indipendente campanile che si leva alla mia destra ad annunciare la chiesa, che intravedo di sfuggita. Mi volto a sinistra. Il cuore comincia a sorridere. Davanti alla chiesa una piazzetta rettangolare, lastricata di pietruzze irregolari e bordata su due lati di cipressi svettanti nell'azzurro cinerino del cielo, mi accoglie in una dimensione sospesa. Volto le spalle alla chiesa senza guardarla e, lentamente, mi avvio in fondo alla minuscola piazza sopraelevata che termina in un muricciolo. Davanti a me si stende la piana di Capua. All'orizzonte gli occhi si immergono in una distesa celeste circonfusa, laddove, forse, è il mare che si fonde col cielo. Ecco, ora mi volto. Gli occhi scorrono la doppia fuga dei cipressi verso la chiesa e la inquadrano sullo sfondo, poi si riposano sul pronao ombroso e, rintracciando le ogive musicali dell'intercolumnio, si levano insù, sereni, fino al triangolo del timpano, che fa somigliare la basilica ad una capanna. Salgo i gradini davanti al pronao. Passo sotto il più elevato arco centrale ed entro nel tempio.
Il silenzio pacato della luce si tinge di azzurro e di rosa nella ieratica e ingenua immagine del Cristo Pantocratore affrescata nell'abside.
Il tempo del sacro si racconta continuo, dalle colonne e dal pavimento di epoca romana fino alle narrazioni bibliche bizantineggianti dipinte lungo le pareti in colori ridenti qua e là sbiaditi o cancellati dal tempo della storia. Non mi interesso dei particolari artistici.
Mi ritrovo assorta in una grandiosa semplicità.
I confini angusti del tempio e del tempo si dilatano nell'ombra luminosa.
Esco.
Riattraverso il pronao.
In fondo alla piazzetta incorniciata dai cipressi
si arrossa il celeste occidente.
Oltre la piana di Capua, tra un po',
il sole abbraccerà il mare.
Un'ora settimanale appena!ripeteva ogni volta che entrava in classe. In verità, a quel tempo, io e i miei miei compagni ce la ridevamo, perché il professore finiva col perdere, sempre, almeno un quarto di quell'unica ora, per lamentarsi della insensibilità degli Italiani verso l'arte.
Come vorrei dirgli che seppe rendere prezioso quel tempo per lui tanto esiguo!
Ora rivedo quel volto chiaro, l'alta fronte che sembrava non finire mai a causa della calvizie della parte anteriore del capo, al centro del quale spuntava, invece, folta ed ispida, una candida chioma a mo' di pennello. Per questo, quasi non ci si rammentava più del suo vero nome, lo si nominava il “professor Pennellone”. E, del resto, questo nomignolo, che lui fingeva di ignorare, al professore di Storia dell'arte stava proprio “a pennello”.
Alto e dinoccolato, indossava sempre lo stesso abito grigio, lindo quanto liso. Conosceva a menadito tutti i miti classici e quelli biblici, e gli piaceva raccontarceli, mentre ci insegnava a “saper vedere” le opere d'arte raffigurate sul nostro manuale, quello di Carlo Argan.
In una parte della mia memoria si è così conservata una galleria di immagini. Alcune, nel tempo, sono andata a cercarle nell'originale.
Ho viaggiato fino alla dorata Micene per attraversare la Porta dei Leoni! Mi sembrava di sentire ancora il rotolio dei carri e lo scalpitio dei cavalli dell'esercito di Agamennone in marcia verso Troia.
In una torrida estate ateniese ho scandito la sequenza dell'ordine dorico, abbacinata dalla luce splendente sul marmo pario del Partenone.
A Firenze, in un dolce settembre della mia giovinezza, nella cappella Brancacci della chiesa del Carmine, il "professor Pennellone" pareva raccontarmi la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre di Masaccio.
Caro professore! ti sono ancora riconoscente!
Ti devo anche il ricordo di una basilica benedettina, una chiesina, in realtà, un po' bizantina e un po' romanica, Sant'Angelo in Formis, nell'omonimo borgo, su un lieve pendio, non lontano da Capua.
Negli anni, più volte mi ci sono recata. Ma, fatalmente, ogni volta ho trovato l'ingresso sbarrato per motivi diversi. Finché, quando ci sono andata l'anno scorso, in una domenica d'agosto, finalmente, il cancello d'accesso all'abbazia era aperto. L'ho varcato, trattenendo il respiro.
Risuonano i miei passi sul basolato antico mentre attraverso una viuzza incassata tra antiche costruzioni tufacee raccordate da un arco.
Alzo la testa. Con gli occhi inseguo la verticale del sobrio e solido parallelepipedo dell'indipendente campanile che si leva alla mia destra ad annunciare la chiesa, che intravedo di sfuggita. Mi volto a sinistra. Il cuore comincia a sorridere. Davanti alla chiesa una piazzetta rettangolare, lastricata di pietruzze irregolari e bordata su due lati di cipressi svettanti nell'azzurro cinerino del cielo, mi accoglie in una dimensione sospesa. Volto le spalle alla chiesa senza guardarla e, lentamente, mi avvio in fondo alla minuscola piazza sopraelevata che termina in un muricciolo. Davanti a me si stende la piana di Capua. All'orizzonte gli occhi si immergono in una distesa celeste circonfusa, laddove, forse, è il mare che si fonde col cielo. Ecco, ora mi volto. Gli occhi scorrono la doppia fuga dei cipressi verso la chiesa e la inquadrano sullo sfondo, poi si riposano sul pronao ombroso e, rintracciando le ogive musicali dell'intercolumnio, si levano insù, sereni, fino al triangolo del timpano, che fa somigliare la basilica ad una capanna. Salgo i gradini davanti al pronao. Passo sotto il più elevato arco centrale ed entro nel tempio.
Il silenzio pacato della luce si tinge di azzurro e di rosa nella ieratica e ingenua immagine del Cristo Pantocratore affrescata nell'abside.
Il tempo del sacro si racconta continuo, dalle colonne e dal pavimento di epoca romana fino alle narrazioni bibliche bizantineggianti dipinte lungo le pareti in colori ridenti qua e là sbiaditi o cancellati dal tempo della storia. Non mi interesso dei particolari artistici.
Mi ritrovo assorta in una grandiosa semplicità.
I confini angusti del tempio e del tempo si dilatano nell'ombra luminosa.
Esco.
Riattraverso il pronao.
In fondo alla piazzetta incorniciata dai cipressi
si arrossa il celeste occidente.
Oltre la piana di Capua, tra un po',
il sole abbraccerà il mare.
1 commento:
Il professor Pennellone!! Un altro di quelli che hanno dato tanto. (te lo invidio!)
Norma
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