È sempre tempo di scelte. La vita è un viaggio in mare aperto sotto il firmamento. Lo sguardo si appunta agli astri per scegliere la rotta. Quale luce ci guiderà? È una delle domande della vita.
“Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo”.
Dal cielo di Venere Dante guarda il mondo “fuor di strada” mentre dialoga con uno degli spiriti amanti, Carlo Martello, figlio di Carlo d'Angiò, sugli errori compiuti dagli uomini nello scegliere i governanti. Carlo gli ha appena mostrato che la politica tributaria, avida ed esosa, di suo fratello Roberto è stata la causa della rivolta dei “vespri siciliani” e della conseguente cacciata degli Angioini dal regno di Sicilia. L'accusa di Carlo verso Roberto muove da una osservazione sulla “natura” degli uomini: “La sua natura, che di larga parca / discese, avria mestier di tal milizia / che non curasse di mettere in arca”. Con tali parole il principe angioino afferma che l'indole di suo fratello, pur essendo nata da una natura generosa, quella di suo padre Carlo I d'Angiò, si è formata “parca”, ossia incline all'egoismo e all'avarizia, e che, pertanto, avrebbe avuto bisogno di consiglieri dotati del senso della giustizia e dell'equità nell'amministrazione economica dello Stato. Roberto invece si era circondato dell' “avara povertà di catalogna”, ovvero di ministri catalani che avevano angustiato il popolo con tributi esosi ed iniqui.
In questo punto dell'ottavo canto del Paradiso, Dante è ispirato da quella passione politica che guidò il viaggio di tutta la sua vita. Ma l'ispirazione poetica brucia una materia infinita ed è alimentata dal dubbio e dalla “curiositas”. “Com' esser può, di dolce seme, amaro?” Come è possibile, cioè, che la natura sbagli e che, quindi, da un padre generoso nasca un figliolo avaro? Carlo Martello, da questo momento, disegna l'idea di un universo coerente ed armonioso, articolando un'argomentazione deduttiva, secondo la logica formale della Scolastica. La provvidenza del bene si dispiega nella natura “per che quantunque quest' arco saetta / disposto cade a proveduto fine, / sì come cosa in suo segno diretta”. Indiscutibilmente, quindi, ogni creatura dell'universo è naturalmente dotata di un senso e di un'inclinazione al bene nell'ordine cosmico. E, conformemente alla sua natura, l'uomo è “civis”, cittadino, ricorda Carlo Martello a Dante appellandosi ad Aristotele. Il discorso di Carlo si anima ora della passione civile del poeta pellegrino, e diventa metapolitico. La polis si forma e si regge con l' aiuto scambievole di tutti i cittadini i quali, necessariamente, devono svolgere ruoli differenti. Accade così “ch'un nasce Solone e altro Serse, / altro Melchisedèch e altro quello / che, volando per l'aere, il figlio perse”. Ogni uomo nasce, pertanto, con un' indole ed una vocazione diversa. Nei versi appena citati, le antonomasie richiamano alcuni ruoli dei cittadini nella polis: Solone è il legislatore, Serse il re, Melchisedèch il sacerdote, Dedalo (quello che, volando per l'aere, il figlio perse) l'architetto-inventore.
Ed eccoci al momento cruciale dell'argomentazione. La natura, nel distribuire i suoi doni, non distingue una casa dall'altra, altrimenti i padri sarebbero identici ai figli. Pertanto, nella provvidenziale natura delle cose è iscritta la diversità e l'assoluta assenza di caste familiari, di classi, o di civiltà superiori, tant'è vero che Romolo nacque da un padre così umile che per nobilitarlo lo si immaginò figlio di Marte. Ma, “Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com'ogne altra semente / fuor di sua regïon, fa mala prova”, ovvero, se le inclinazioni naturali non sono riconosciute in virtù dell'umano discernimento, si diffonde il male e l'infelicità, perché quella natura individuale non si è pienamente realizzata.
Ogni volta che rileggo questo canto io mi commuovo per l'evidenza della verità che esso racchiude, e ne colgo tanti simboli attuali.
Oggi, il discorso di Carlo Martello mi fa pensare alla scuola, alle scelte che si dovranno compiere per il futuro imminente. È certo che una scuola asservita alle leggi del mercato produce effetti dannosi per la Polis. I giovani costretti a “torcere” la loro natura, schiavi del mercato, sono privati del bene più prezioso: la speranza nella realizzazione piena della personalità individuale.
Per non parlare poi dell'ingiustizia sociale che si aggraverà con l'immiserimento della scuola pubblica.
A causa del taglio sofferto dalle discipline umanistiche e sotto la persistente minaccia dei test di verifica, la scuola è di fatti molto più povera. L'obiettivo di queste scelte sembra consistere nella riduzione dell'uomo ad una macchina, proprio quando la complessità della globalizzazione richiederebbe progetti coraggiosi e lungimiranti. Di “teste ben piene” si può fare a meno, di “teste ben fatte” assolutamente no. Ma le “teste ben fatte” nascono dal piacere travagliato della ricerca del sé nello stare con gli altri, nello sperimentare che solo nella convivenza si realizza il senso della nostra umanità. Quest'umanità che è così preziosa nella specularità dialettica con l'altro, come è evidente nel patrimonio dei Classici, come si legge nell'ottavo canto del Paradiso!
E cosa c'è di più bello dell'accompagnare i giovani a conoscersi tornando al metodo antico di Socrate? Socrate, arguto indagatore della natura umana, ci invita ancora al dialogo con l'altro per “iniziare” il cammino della conoscenza, a quello stesso dialogo che i beati intrattengono con Dante. Ma noi sappiamo che è lo stesso poeta a drammatizzare la sua ascesa, che è in realtà una discesa penetrante nel più profondo sé, sul palcoscenico celeste in dialoghi maieutici di conoscenza. E i “maestri” beati sono le personalità pienamente realizzate che nulla più desiderano se non giovare al pellegrino della verità.
È tempo di riflettere per scegliere, quindi. Ed è il tempo di riconoscerci anche come adulti. Le circostanze ci costringono a ripensare anche alla nostra vocazione. Non è più il tempo di proroghe e di alibi. È il tempo della responsabilità personale.
Viene sempre il tempo in cui si fanno i conti con la vita. Ma nulla va cancellato. Ogni traccia configura il cammino, compresi gli smarrimenti e le cadute. E poi, chi potrà dire i termini esatti di una vocazione? Forse è proprio questa la speranza da testimoniare, oggi, anche nella scuola: saper camminare verso la meta liberi dall'ansia e dal timore di mostrare la nostra umana fragilità, l'unica verità inconfutabile, e il fondamento indispensabile per andare incontro agli altri con le mani tese.
“Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo”.
Dal cielo di Venere Dante guarda il mondo “fuor di strada” mentre dialoga con uno degli spiriti amanti, Carlo Martello, figlio di Carlo d'Angiò, sugli errori compiuti dagli uomini nello scegliere i governanti. Carlo gli ha appena mostrato che la politica tributaria, avida ed esosa, di suo fratello Roberto è stata la causa della rivolta dei “vespri siciliani” e della conseguente cacciata degli Angioini dal regno di Sicilia. L'accusa di Carlo verso Roberto muove da una osservazione sulla “natura” degli uomini: “La sua natura, che di larga parca / discese, avria mestier di tal milizia / che non curasse di mettere in arca”. Con tali parole il principe angioino afferma che l'indole di suo fratello, pur essendo nata da una natura generosa, quella di suo padre Carlo I d'Angiò, si è formata “parca”, ossia incline all'egoismo e all'avarizia, e che, pertanto, avrebbe avuto bisogno di consiglieri dotati del senso della giustizia e dell'equità nell'amministrazione economica dello Stato. Roberto invece si era circondato dell' “avara povertà di catalogna”, ovvero di ministri catalani che avevano angustiato il popolo con tributi esosi ed iniqui.
In questo punto dell'ottavo canto del Paradiso, Dante è ispirato da quella passione politica che guidò il viaggio di tutta la sua vita. Ma l'ispirazione poetica brucia una materia infinita ed è alimentata dal dubbio e dalla “curiositas”. “Com' esser può, di dolce seme, amaro?” Come è possibile, cioè, che la natura sbagli e che, quindi, da un padre generoso nasca un figliolo avaro? Carlo Martello, da questo momento, disegna l'idea di un universo coerente ed armonioso, articolando un'argomentazione deduttiva, secondo la logica formale della Scolastica. La provvidenza del bene si dispiega nella natura “per che quantunque quest' arco saetta / disposto cade a proveduto fine, / sì come cosa in suo segno diretta”. Indiscutibilmente, quindi, ogni creatura dell'universo è naturalmente dotata di un senso e di un'inclinazione al bene nell'ordine cosmico. E, conformemente alla sua natura, l'uomo è “civis”, cittadino, ricorda Carlo Martello a Dante appellandosi ad Aristotele. Il discorso di Carlo si anima ora della passione civile del poeta pellegrino, e diventa metapolitico. La polis si forma e si regge con l' aiuto scambievole di tutti i cittadini i quali, necessariamente, devono svolgere ruoli differenti. Accade così “ch'un nasce Solone e altro Serse, / altro Melchisedèch e altro quello / che, volando per l'aere, il figlio perse”. Ogni uomo nasce, pertanto, con un' indole ed una vocazione diversa. Nei versi appena citati, le antonomasie richiamano alcuni ruoli dei cittadini nella polis: Solone è il legislatore, Serse il re, Melchisedèch il sacerdote, Dedalo (quello che, volando per l'aere, il figlio perse) l'architetto-inventore.
Ed eccoci al momento cruciale dell'argomentazione. La natura, nel distribuire i suoi doni, non distingue una casa dall'altra, altrimenti i padri sarebbero identici ai figli. Pertanto, nella provvidenziale natura delle cose è iscritta la diversità e l'assoluta assenza di caste familiari, di classi, o di civiltà superiori, tant'è vero che Romolo nacque da un padre così umile che per nobilitarlo lo si immaginò figlio di Marte. Ma, “Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com'ogne altra semente / fuor di sua regïon, fa mala prova”, ovvero, se le inclinazioni naturali non sono riconosciute in virtù dell'umano discernimento, si diffonde il male e l'infelicità, perché quella natura individuale non si è pienamente realizzata.
Ogni volta che rileggo questo canto io mi commuovo per l'evidenza della verità che esso racchiude, e ne colgo tanti simboli attuali.
Oggi, il discorso di Carlo Martello mi fa pensare alla scuola, alle scelte che si dovranno compiere per il futuro imminente. È certo che una scuola asservita alle leggi del mercato produce effetti dannosi per la Polis. I giovani costretti a “torcere” la loro natura, schiavi del mercato, sono privati del bene più prezioso: la speranza nella realizzazione piena della personalità individuale.
Per non parlare poi dell'ingiustizia sociale che si aggraverà con l'immiserimento della scuola pubblica.
A causa del taglio sofferto dalle discipline umanistiche e sotto la persistente minaccia dei test di verifica, la scuola è di fatti molto più povera. L'obiettivo di queste scelte sembra consistere nella riduzione dell'uomo ad una macchina, proprio quando la complessità della globalizzazione richiederebbe progetti coraggiosi e lungimiranti. Di “teste ben piene” si può fare a meno, di “teste ben fatte” assolutamente no. Ma le “teste ben fatte” nascono dal piacere travagliato della ricerca del sé nello stare con gli altri, nello sperimentare che solo nella convivenza si realizza il senso della nostra umanità. Quest'umanità che è così preziosa nella specularità dialettica con l'altro, come è evidente nel patrimonio dei Classici, come si legge nell'ottavo canto del Paradiso!
E cosa c'è di più bello dell'accompagnare i giovani a conoscersi tornando al metodo antico di Socrate? Socrate, arguto indagatore della natura umana, ci invita ancora al dialogo con l'altro per “iniziare” il cammino della conoscenza, a quello stesso dialogo che i beati intrattengono con Dante. Ma noi sappiamo che è lo stesso poeta a drammatizzare la sua ascesa, che è in realtà una discesa penetrante nel più profondo sé, sul palcoscenico celeste in dialoghi maieutici di conoscenza. E i “maestri” beati sono le personalità pienamente realizzate che nulla più desiderano se non giovare al pellegrino della verità.
È tempo di riflettere per scegliere, quindi. Ed è il tempo di riconoscerci anche come adulti. Le circostanze ci costringono a ripensare anche alla nostra vocazione. Non è più il tempo di proroghe e di alibi. È il tempo della responsabilità personale.
Viene sempre il tempo in cui si fanno i conti con la vita. Ma nulla va cancellato. Ogni traccia configura il cammino, compresi gli smarrimenti e le cadute. E poi, chi potrà dire i termini esatti di una vocazione? Forse è proprio questa la speranza da testimoniare, oggi, anche nella scuola: saper camminare verso la meta liberi dall'ansia e dal timore di mostrare la nostra umana fragilità, l'unica verità inconfutabile, e il fondamento indispensabile per andare incontro agli altri con le mani tese.
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