Vorrei provare a raccontarvi la mia
esperienza del film “Il filo nascosto” attualmente visibile nei
cinema italiani. Riguardo alla regia, al cast etc... è tutto
consultabile online. Di recensioni ne leggerete in abbondanza, se
vorrete. Io non ne ho letta manco una.
Da dove comincio? Ecco sì,
dall'attrazione esercitata su di me dalla visione casuale del trailer
qualche mese fa. Una sartoria sfarzosa, un elegante sarto, e
l'atmosfera rétro di un atelier con tante cucitrici industriose. E
rutilanti stoffe pregiate d'altri tempi. E poi quel titolo
misterioso, così carico di simboli! - lo vedrò – mi dissi. E così
è stato.
Sono arrivata in sala mentre il film
iniziava. Nel buio pesto, a tentoni, ho cercato il mio posto
avanzando con cautela per non ruzzolare giù per le scale,
indispettita, perché mi stavo perdendo la prima scena.
Eccomi finalmente seduta in un
salottino inglese al tavolo imbandito per la colazione tra chicchere
d'argento e di porcellana, davanti a un signore che rifiuta dolci
succulenti, rivolgendosi con modi sgarbati alla bella giovane donna
che glieli ha offerti, e che ora non si vergogna di mostrare i
lucciconi nei suoi occhi imbambolati sotto lo sguardo vigile e
imperturbabile di un'altra donna che assiste alla scena, la sorella
dello schizzinoso protagonista.
Velocemente la telecamera si sposta
sulla fuga verso la vecchia casa dell'infanzia e sulla sosta in un
motel ristorante in cui accade l'incontro fatale con un'altra donna: una cameriera conturbante nel suo spartano abbigliamento nonché
nella sua bellezza senza eccessi, a parte le labbra, che si schiudono
o si stropicciano, mentre appunta diligentemente tutte le pietanze
richieste dall'avventore, quasi come un invito a pregustarle,
pietanze e labbra. Ed è subito relazione. Il tramite è il cibo. E
il primo appuntamento, è fissato ad una cena nel corso della quale dita e labbra si
intingono voluttuosamente, e si tingono, in una salsa scarlatta. E poi via in una soffitta
a progettare un abito. Un canovaccio modello è indossato da Alma (questo è il suggestivo nome della protagonista), subito diventata modella ideale.
Ma dove mi trovo? Al cinema o a
sfogliare le illustrazioni di un libro di fiabe infantili?
La stanza affollata nell'ombra da vecchi bauli, i broccati e i velluti, tutto sa della scenografia per una fiaba
seicentesca. E del resto, anche l'atelier, nella realtà situato negli
anni cinquanta del novecento, ha sapore di fiaba. L'insieme delle abili
cucitrici, linde e solerti, mi ha fatto pensare alle tante aiutanti
sparse nei racconti di fate.
E per la verità l'ordito è proprio
quello di una fiaba. Nell'ordito misterioso si intrecciano mille
fili. Dove sarà quello nascosto? E chi può dirlo? A me le fiabe
piacevano e piacciono proprio per questo. Non svelano niente eppure
rivelano tutto, nell'ombra però. Infatti, appena tenti di spiegarle,
l'incanto svanisce. Esci dalla fiaba e ti imbatti nei critici, o,
peggio ancora, negli psicologi.
È divertente, invece irritarsi per il
maniacale estetismo di Reynolds, che come tutti gli esteti è un
annoiato bambino, o sentire l'ambiguità magica della protagonista,
ora donna reale e determinata, ora strega sapiente che si inoltra nel
bosco col paniere sotto braccio in cerca di piante per vivande
fiabesche, velenose ma non troppo. E la cucina – antro e il tegame
al fuoco in cui sfrigolano saporitamente nel burro gli aromi
profumati del bosco immersi e miscelati sapientemente, come gli
ingredienti nel paiolo di una strega. Come le mele di Biancaneve che
nascondono la più bella e succosa, quella mela che avvelena, ma non
è letale. E mi hanno incantata gli abiti, sontuosi fino
all'inverosimile, sostenuti da tutorial segreti, che sollevino i
fianchi o i seni delle clienti, tutte di alto lignaggio, tranne una,
che viene indecorosamente spogliata, perché una viziosa riccona è
indegna di un abito tanto bello.
Sono davvero infiniti i fili nascosti
nelle fiabe. Ma è rilevante il fatto che in tutte le storie ricorrano la fame e il cibo, l'abito cencioso e la veste regale. Come
in questa favola filmica, nella cui trama ogni spettatore saprà
riconoscere il suo filo nascosto, e soprattutto ogni spettatrice
potrà interrogarsi sull'ambiguità sempre viva degli stereotipi fata/strega, madre/matrigna. E potrà sorriderne.
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