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Mi scusi professoressa, potrebbe spiegarmi che cosa vuol dire
“usignolo”? Il dizionario mi traduce il
latino “luscinia” con questa parola che io non conosco -.
Lì
per lì resto attonita, quasi stranita, poi sorrido al mio
quattordicenne allievo e gli spiego che cos'è un usignolo. Subito
dopo, mentre gli alunni continuano a svolgere il loro compito,
incomincio a vagare nella memoria, chiedendomi quando ho incontrato
per la prima volta la cosa e la parola “usignolo”. Ma è inutile,
non riesco proprio a ricordarmelo. Santo cielo! Non sono per niente
certa di aver visto un usignolo reale nella mia vita! Possibile? Ma
no, devo averlo incontrato da qualche parte perché riesco or ora ad
evocarne i gorgheggi. Ma sì, confuso tra i passerotti, i merli, le
rondini e le allodole, tra i rami degli alberi della mia vita avrò
visto, perdinci, anche l'usignolo!
Eppure
no, non ne sono certa. E, per giunta, penso che non saprei neanche
dire quando ho compreso il piano simbolico della parola “usignolo”.
Continuo
a rimuginare.
Lentamente,
pensa e ripensa, trovo il bandolo della matassa.
Ma
sì, le fiabe! Ecco dove ho incontrato dapprincipio la cosa e la
parola “usignolo”!
Le
ho scoperte, insieme, negli innumerevoli boschi dei racconti per
l'infanzia!
La
fiaba è all'origine della mia esperienza della vita oltre
l'orizzonte della casa e dell'angusto spazio circostante. Nei libri
di fiabe, luoghi di iniziazione alla formazione di lettrice, prima
ancora che nei testi specialistici, ho appreso i nomi delle diverse
specie della categoria degli uccelli.
La
confidenza con le narrazioni ha generato la conoscenza del mondo e la
confidenza con le cose del mondo e con i loro nomi. Per questo
l'usignolo è diventato familiare, perché nelle narrazioni fiabesche
natura e cultura sono così avvinte nella parola mitopoietica da
generare simultaneamente la conoscenza delle cose, la competenza
linguistica che le rappresenta e, infine, la capacità interpretativa
del loro piano simbolico all'interno delle narrazioni che ispirano.
Grazie
a questa confidenza con la lettura, fin dalla più tenera età, a
scuola, di soglia in soglia, avventurandosi nei linguaggi delle
materie, si impara a educare e a raffinare, su testi di contenuto e
genere diversi e via via più complessi, le facoltà analitiche ed
ermeneutiche proprie della sensibilità e della intelligenza umana.
È
accaduto così anche a me quando, dopo aver letto la prima storia in
cui era nominato l'usignolo, ne ho conosciute tante altre. Ed è
sorprendente scoprire che l'usignolo ricorre come protagonista in
molte narrazioni della tradizione letteraria, dalla fiaba di Andersen
(L'usignolo dell'imperatore), a quella di Wilde (L'usignolo e la
rosa), dal racconto esiodeo (L'usinolo e lo sparviero), a “La
sfida tra un cantore e un usignolo”, raccontata da Mercurio nel
poema “Adone” di Giambattista Marino, fino all'invocazione lirica
dell' “Ode all'usignolo” di John Keats, e alle tante altre storie
che hanno fatto dell'uccellino - usignolo la “figura” stessa di
bellezza e fragilità, generosità ed eroismo, bellezza e verità.
Sicché,
l'usignolo sarebbe inseparabile dalla storia della mia vita anche se
non l'avessi mai visto e sentito.
E
allora, si potrebbe affermare che la cultura è conoscenza vasta e
plurale della natura. La cultura (l'origine del termine è nel verbo
latino “colere” ossia “coltivare”) è scavo profondo del
territorio della vita, dentro e fuori di noi. Il territorio della
vita è storia complessa di storie disseminate nei testi
interconnessi della tradizione culturale o, per meglio dire,
interculturale dei popoli della terra.
Penso
che si possa concordemente affermare che la scuola è il luogo della
educazione alla conoscenza e alla cultura e che, pertanto, il suo
obiettivo irrinunciabile consiste nel rendere ogni individuo
consapevole di sé e del mondo , affinché, da uomo libero inscriva
la sua storia nella Storia.
Sicché,
quando sento parlare di “certificazione” o di “valutazione”
delle competenze sulla base di un sistema ispirato dal “pensiero
unico”, non posso fare a meno di sussultare, sdegnata. E non riesco
a capacitarmi della svalutazione dei contenuti che genera un prassi
didattica indecorosa, orientata all'addestramento e non
all'educazione.
L'accettazione
indiscussa dei test proposti dall'istituto di valutazione, per il
timore di esiti negativi, ha spostato gli obiettivi dell'insegnamento
dai contenuti all'esercizio meccanico con soluzione univoca. Gli
adepti al “pensiero unico”, senza battere ciglio e con ostentata
sicurezza, ripetono immancabilmente che bisogna far esercitare i
ragazzi affinché superino le prove INVALSI e i test di accesso al
lavoro. La conoscenza dei contenuti non è importante, purché siano
addestrati a scegliere la risposta esatta.
Non
c'è scampo da questi neopositivisti della scienza dei grafici e
delle slide di “power point”.
Ma,
in quest'ebbrezza raggelata, senza storie, esaurita nella
rappresentazione statistica dei dati, dove sono gli occhi stupiti dei
giovani che scoprono, imprevedibilmente, traducendo un brano latino,
l'esistenza dell'usignolo e delle sue narrazioni? Quale spazio potrà
avere la ricerca dialogica su cui si basa l'autentico insegnamento?
Cedendo
al “pensiero unico” si rischia di venir meno alla ricerca della
verità.
I
Greci nominarono “alètheia”, ovvero “svelamento”, la verità.
Alètheia, infatti, si nasconde e, per svelarsi, ha bisogno
dell'ombra. È nell'indefinito che la si intravede. Alètheia riluce
di quando in quando, qua e là, lungo il cammino dell'umanità,
grazie al pensiero e all'arte stessa degli uomini che la cercano,
continuando a leggere nel “grande libro della natura” e in
quello della cultura, non solo con l'ausilio del pensiero logico, ma
anche di quello intuitivo e creativo del genio umano. E questo
secondo libro ha infinite pagine bianche da riempire prima della fine
della Storia. Sono le pagine riservate alle letture e riletture, alle
prove e riprove, alle analisi e alle interpretazioni di innumerevoli
cercatori di oggi e di domani.
Grazie
a questi cercatori gli usignoli torneranno per inventare nuove melodie.
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