In ritardo rispetto alla sua
pubblicazione, ho finito da poco di leggere La masseria delle
allodole di Antonia Arslan. Il libro narra il genocidio degli Armeni
e la loro diaspora nel 1915, tessendo i fili del racconto, avanti e
indietro sulla spola della memoria ereditata. Antonia, in fondo al
prologo, scrive infatti che per lei le grandi cupole della
basilica sono come navi possenti, e veleggiano maestose da Occidente
a Oriente, fino a posarsi su una piccola città della Turchia, in
quello stesso territorio dal quale Antenore, esule da Troia,
veleggiando da Oriente a Occidente, giunse in Italia e (luce
straordinaria del racconto mitologico) fondò Padova.
E proprio a Padova, tremila anni dopo,
fuggendo dalla Turchia come Antenore, era arrivato Yerwant, il nonno
dell'autrice, Antonia, che porta lo stesso nome del Santo portoghese col fiore di giglio in mano.
Sul pano estetico, di una lettura
conservo le sensazioni diventate parte di me. E così è stato anche
questa volta. A libro ormai chiuso, l'odore della morte si mescola ai
profumi esotici: le mani che sanno di cannella e di noci di
Azniv, seduta sulla panchina del bersò a sfogliare un romanzo
francese un po' audace sotto la volta profumata da cui
pendono le grandi rose rosso-sangue, che fioriscono una volta l'anno,
proprio alla fine di aprile; i colori cruenti dell'eccidio dei
maschi presso la masseria e quelli cupi della inutile fuga delle
donne cacciate ad Aleppo si confondono nella policromia scintillante
di oggetti femminili: gioielli e pietre preziose custoditi da
Shushanig, la grande madre dolorosa, icona splendida di una composta
determinazione; gli occhi brillanti e furtivi di Ismene, la prefica
greca devota e generosa, e i suoi misteriosi fazzoletti colorati,
che a volte annoda e snoda velocemente in un gioco di destrezza
mirabile.
Sul piano intellettuale, di questa
narrazione della tragedia armena mi rimane la meditazione sulla
Storia, che si ripete, attraversata dalla hỳbris, e sulla
memoria, governata dalla vendetta, che di volta in volta sposta le
accuse da un popolo all'altro, quando i genocidi accadono.
Sul piano emotivo, sono indotta a
ricordare altre storie di donne. Perciò, sollecitata dall'annuncio che nel paese in cui vivo ci sarà una mostra
sulla vita di Etty Hillesum, altri fiori si sono dischiusi nella memoria e hanno unito il loro profumo a quelli delle donne armene.
Allora da Oriente torno in Occidente, non a
Padova però, ma ad Amsterdam, dove la giovane ebrea Etty Hillesum
nel 1941, prima di essere confinata a Westerbork,
il campo nazista olandese di transito per Auschwitz,
distilla gocce di vita nel suo Diario.
Sole in questa veranda, e un vento lieve che fa fremere il gelsomino. […] Com'è esotico il gelsomino; in mezzo a quel grigio e a quello scuro color di melma è così radioso e così tenero. Non capisco niente del gelsomino. Del resto non c'è bisogno. Si può benissimo credere nei miracoli in questo ventesimo secolo. E io credo in Dio, anche se tra breve i pidocchi mi avranno divorata in Polonia.
Anche dal diario di Etty ho rubato
fiori. Tante rose. I petali sparpagliati sulla scrivania tra Rilke e
Dostoevskij. Mi sono riconosciuta nella sua imperfezione
consapevole, nello stupore, nella femminilità: la sigaretta tra le
dita, gli occhi sgranati sul mondo, l'acconciatura vezzosa, il
piacere nel gustare i dolci seduta al caffè. Mi sono intenerita per
la confessione spudorata della sua nevrosi, e per la relazione con lo
psicochirologo Julius Spier, per la consapevolezza delle proprie
disarmonie e per la franchezza con cui ne scrive. Mi sono specchiata
nella tristezza di Etty, in quel riconoscersi, anche lei,
responsabile del male nella Storia. Ho sentito la sua verità:
spesso mi viene da dire: c'è un gran marciume in quel posto. Ma
oggi, d'un tratto ho pensato: se dico sempre così quella parola,
marciume, esso finisce per propagarsi nell'atmosfera e non la rende
certo migliore.
Amare la disarmonia è infatti
difficile. Ma è l'unico percorso possibile verso l'amore che non
accusa e che, quindi, non ha niente da perdonare, né da farsi
perdonare. Amore si svuota per diventare amore.
Ho amato Etty perché sono così
scontenta e triste e irrequieta stamattina presto come non lo ero da
tempo e non si tratta in questo caso del grande dolore, ma di
piccole scontentezze personali e del mio disadattamento.
Ho amato Etty perché come lei mi sono
chiesta (e continuo a chiedermi) se
fa gran differenza se in un secolo è l'Inquisizione a far soffrire gli uomini, o la guerra e i pogrom in un altro. […] Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell'altra. Quel che conta è il modo in cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita.
Ma Etty non è un modello di vita. Se la
pensassimo così la trasformeremmo in una rappresentazione del bene,
lei che invece era uno spirito fluido e visionario, capace di intuire
nella realtà effettuale idee universali, emanazioni della vita
avidamente amata, così com'è, senza nessun orientamento fanatico.
E difatti Etty aspirava a quella vacanza per sempre di cui mi
parlò, più di dieci anni fa, un'altra donna, Luisa Muraro,
pensatrice ancora attiva, in un libro fatto di libri, Il Dio delle
donne.
Tra le pagine di Luisa incontrai per la
prima volta, indirettamente, Etty e tante altre come lei: Margherita
Porete, la beghina bruciata viva a Parigi il primo di giugno del
1310, che scrisse Lo specchio delle anime semplici; Cristina Campo, imperdonabile autrice de Gli Imperdonabili. E
tante altre ancora. Donne intente a fare e disfare il filo tessuto delle parole, non per costruire teorie che ingombrino la
mente, ma per lasciare sempre aperti i discorsi, per creare passaggi
e per aprire continuamente il varco alla relazione. Sono donne che
usano una lingua che ammette la mancanza per riuscire a dire
l'indicibile in una scrittura che diviene mediazione vivente.
Perciò, col fare e disfare, la scrittura di Luisa, di Etty, di
Antonia e di tutte le altre, priva dell'intromissione della
volontà personale, si apre alla possibilità che accada anche il
bene.
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