desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
I versi sopra trascritti compongono l’incipit del secondo canto del Paradiso. Qui Dante ci invita a dotarci di strumenti sicuri per accedere a una conoscenza superiore a quella resa possibile dalla “curiositas” della “ratio” che indusse Ulisse al “folle volo”. La barca dell’eroe greco fu travolta dalla sua ύβρις (tracotanza).
Quella del Sommo Poeta è condotta, invece, non solo dalla sapienza di Minerva e dall’arte delle Muse, ma dallo stesso Apollo, ovvero dall’Amore Divino.
Più avanti, nel medesimo canto, con un’argomentazione sublime, Beatrice prima confuta le ipotesi umane sulle macchie lunari, poi costruisce la sua tesi metafisica culminante in un passo entusiasmante:
Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.
Riguarda bene omai sì com’io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.
Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;
e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.
Per chi volesse ascoltare l’incipit cantato, riporto in fondo un link ad un brano, amatissimo da mia figlia Marta che me l’ha fatto scoprire, composto dal polacco Zbigniew Preisner per il film La doppia vita di Veronica.
Auspico, infine, che le mie riflessioni inducano coloro che vi si imbattono a leggere il secondo canto del Paradiso. “Poca favilla gran fiamma seconda”.
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