“I romanzi non sono la vita”,
perché l'imprevedibile è un falso voluto dallo sguardo illuso e
illudente del narratore. Se così non è il racconto si riduce a
cronaca, ma questa non ha la vita dell'ispirazione. Ispirazione. Che
cos'è l' ispirazione? Un soffio vitale accolto e trasformato,
una relazione tra mondo e soggetto individuale che anima di sé
l'illusione di un mondo parallelo. Comunque si collochi, interno o
esterno rispetto al racconto, o persino nascosto nella polifonia
narrativa, un autore respira tra le parole, non solo significati, ma
rivoli sonori carichi di emozioni, affreschi palpitanti, guizzi di
luce del pensiero che tenta il vero. Come quando
nell'attraversamento di un paesaggio naturale lo sguardo cattura una
fuga di alberi, l'ondeggiare variopinto di campi o il passaggio delle
nuvole nel cielo, celeste o no, o il sussurro stellato della muta
notte. Forme della materia vibrante che la parola tenta di
comprendere con la sua vibrazione. È qui la relazione. Nella parola
che prova e riprova a riformulare la realtà. Giovanni Verga soffrì
l'esperienza dello sparire nello sforzo supremo di un'imitazione
della realtà attraverso l'energia di una parola emanata dal farsi
“da sé” del mondo narrato.
L'arte allora deve essere celata,
affinché la forma viva. È questo il mistero della vita e dell'arte.
Dove si accende la scintilla non è dato sapere. L'analisi di un
testo recupera i passaggi tecnici di una creazione artistica, ma nel
fare questa operazione l'analista, alla stregua di chi esegue
un'autopsia, si ritrova tra le mani frammenti inerti di materia che
solo l'ispirazione di un soggetto vivo aveva fatto palpitare della
sua stessa vita.
Questo mistero è tentato in un romanzo
di una narratrice inglese di religione ebraica morta suicida nel 1889
a ventinove anni. Il titolo dell'opera è “La storia di una
bottega”, l'autrice, poco nota, è Amy Levy. “La storia di una
bottega” è la storia di quattro sorelle che, in seguito alla morte
del padre, per vivere sono costrette ad inventarsi un lavoro. Mettono
su uno studio fotografico, e, dopo aver superato stenti e difficoltà,
si affermano negli ambienti artistici londinesi dello scorcio finale
dell'Ottocento.
La protagonista porta un nome severo,
carico di sofferenza nei colori del suono: Gertrude. La vita di
questa creatura letteraria è segnata di austerità e audacia. Aspira
alla letteratura ma, incompresa, si dedica alla fotografia. Gertrude
è un personaggio pieno di verità nell'incarnare la dolorosa
divisione tra ruolo storico, pulsioni naturali, e spinte liberatrici
della donna e del suo genio creativo.
Ma al di là delle istanze di un
femminismo d'avanguardia, con Gertrude Amy Levy tenta il mistero
dell'arte e del suo rapporto con la vita. E il tramite è la
fotografia. Come se l'arte dell'obiettivo mediasse con l'arte vera e
propria.
L'osservazione è, pertanto, il motivo ispiratore della
scrittura di Amy Levy. L'arte narrativa è in sordina come centro di
riflessione all'interno del romanzo. Gertrude, infatti, riscuote il
successo come fotografa, mentre i suoi tentativi letterari sono
segnati dal fallimento.
Il successo della bottega di Gertrude
avviene, in principio, tramite l'invito a fotografare quadri di artisti
in voga. Viene creato così un gioco di specchi, il racconto della
riproduzione fotografica della riproduzione pittorica della realtà.
In tale gioco Gertrude si imbatte nell'antagonista: Sidney Darrell.
Nella trama quest'ultimo svolge il ruolo negativo per la vita delle
protagoniste fino ad essere coinvolto nella morte prematura di
Phyllis, la più giovane e la più bella delle sorelle Lorimer. Ma
Darrell è soprattutto l'antagonista dell'artista autentico così
come è concepito da Gertrude, ovvero da Amy.
Una mattina di Marzo Gertrude va nella
dimora “avvolta di malinconia” di Darrell. Entra in un ambiente
“arredato con tutto lo splendore confusionario che distingue lo
studio di un nuovo artista alla moda”. Tra gli arredi spiccano
oggetti veneziani, in particolare un vaso di vetro che contiene
tuberose, della cui fragranza l'aria è impregnata. È l'odore di
morte che emana dallo stesso Darrell, esteta mortifero.
Forse non a caso Oscar Wilde lodò
l'arte di Amy sulla rivista The Womans' World, nel 1990, dopo la morte della
giovanissima scrittrice.
Nel confronto tra Darrell e Gertrude
Amy mette in scena la distanza tra aisthesis ed estetismo, ossia tra
sensibilità dello sguardo che coglie la profondità del reale e
tecnica artistica raffinata, sapiente, ma priva di vita. Da questo
drammatico confronto esce sconfitto l'estetismo di fine secolo, il
dandy narcisista. Risalta al contrario la sensibilità femminile dal
cui sguardo promana un giudizio severo in cui è implicita la
tensione di Amy verso un'autentica ispirazione:
“Il suo fine intuito femminile, affilato forse dal rancore personale, aveva fatto centro sull'uomo e sulla sua natura di second'ordine. Sotto l'arroganza e la convinzione di riscuotere indubitabili successi, lei leggeva i segni di una fame quasi vile di preminenza; di un'autocoscienza morbosa; di un'insaziabile vanità. E quanto a tutte le eccellenti doti della sua abilità professionale, non riusciva a intravedere nel suo lavoro le tracce di quelle qualità che, combinate con una maestria anche minore della sua, possono fare la grandezza”.
Con questa intuizione di Gertrude Amy pone la questione
dell'ispirazione artistica che, dal suo punto di vista, non può
separarsi dall'autenticità della vita, dalla sofferenza del reale,
sofferenza che ispira l'illusione, il mondo parallelo della creazione
artistica, che da se stessa è consolatrice.
Forse, proprio
nell'inseguimento di questa illusione, Amy Levy consumò la sua vita.
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