Forse perché l'ho amato fin da bambina
il poeta della primavera, quando fui colpita dal notturno della sua
sera del dì di festa e da quel "canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco”; forse perché ho serbato la
malinconia dell'adolescenza e le illusioni che la illuminarono; forse
perché gli somiglio nella fragilità ossea che mi torturò fin
dall'adolescenza, e mi piegò; forse perché sono dominata dalla luna
come lui (entrambi siamo nati sotto il segno zodiacale del cancro), e
come lui sento la parola scandire la natura dal profondo dell'anima; forse perché il mio giovane favoloso inventa toni chiari anche
quando è il dolore ad ispirarlo; forse perché le sue illusioni non
amano le tenebre, ma la luce; per tutto questo, forse, e per tanto altro taciuto, non sono stata
coinvolta dal film di Mario Martone sulla vita e sulla poetica di
Giacomo Leopardi.
Ho atteso l'uscita del film fin da quando, nell'autunno dell'anno scorso, ne fu annunciato l'inizio delle riprese e, magari, attratta dall'argomento, ho caricato di troppe aspettative quest'opera. In alcune recensioni
si parla di uno stile cinematografico visionario, rispondente
all'immaginazione leopardiana.
Io, invece, l'ho trovato cupo, quasi barocco,
e, pertanto, estraneo al mio poeta che, stigmatizzando le tortuosità
e il patetismo dei romantici italiani, nel Discorso di un italiano
intorno alla poesia romantica, difese la classica semplicità, ovvero
la celeste naturalezza degli antichi. Lo studio del cuore umano
gravato da psicologismo irritava Leopardi, come lo irritava quella
esaltazione della spontaneità della forma che finiva con l'assurgere ad una
artificiale oscurità. Eppure il sentimento della natura, che si
effuse in idilli dell'anima (e si ricordi che l'idillio fu una forma
poetica del raffinato Ellenismo) è un tratto importante del Romanticismo
leopardiano. Ma si tratta di un romanticismo metastorico, insito
nello spirito dell'uomo.
Questa semplicità profonda, quasi un
miracolo della sintesi intuitiva di un genio indiscutibile, che
Calvino additò come uno dei geni della leggerezza, si rinviene a
stento nel film. Le scene indugiano negli interni. Ma anche negli
esterni girati a Recanati incombono, perlopiù, i muri che recingono
il giardino del palazzo del conte Monaldo, dalle cui finestre appare,
schiacciata, quasi compressa al suolo dalle riprese, la semplice e
serena intimità della piazzetta oggi denominata “del sabato del
villaggio”.
Qualche volta la macchina da presa punta sulla luna, ma non sa cogliere lo scintillio del firmamento, il cui aspetto tante
“fole” suscitò al poeta (e perciò, forse, Anna Maria Ortese inventò l'espressione Il giovane favoloso), quando la notte sostava sui “veroni
del paterno ostello" e ascoltava “il canto della rana rimota alla
campagna”, mentre si levava “il vento recando il suon dell'ora,
dalla torre del borgo”. Infondo, mi è sembrato che la lettura,
senz'altro corretta, della vita e del pensiero di Leopardi da parte di Martone non sia riuscita a penetrare nell'anima del poeta né a coglierne l'ispirazione, ma sia stata esterna e troppo analitica.
Anche lo
studiatissimo realismo, con cui il protagonista imita i difetti
corporei e l'andatura del giovane sfortunato più che favoloso, è privo di
naturalezza, e scivola, talvolta, in una affettazione grottesca.
Grottesca, e priva del fiabesco e della forza ironica che la
caratterizzano, è anche la rappresentazione della Natura in dialogo
con l'Islandese.
Quindi, per la mia sensibilità, sebbene accurato e colto, il film manca di una
sintassi poetica, di un respiro unificante. È comunque da ammirare
la tensione eroica sia del regista che del protagonista. Credo, infatti, che sia un' impresa quasi impossibile tradurre il linguaggio
del “pensiero poetante” in quello cinematografico”. Meglio gli
si adatterebbe una sinfonia. La musica, solo la musica, col suo
fluire molteplice e inarrestabile, riuscirebbe a contenere, senza
infrangerla, la semplice grandezza del messaggio leopardiano.
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