Nel tempo della comunicazione complessa e dell’esplosione
del mercato editoriale si impone la riflessione sulla tipologia degli strumenti
di cui bisogna dotarsi per accostarsi
con libero pensiero ai testi scritti. La palestra della lettura
interpretativa dovrebbe avere, a mio avviso, nella scuola la sua sede
privilegiata. E del resto fin dagli anni settanta, quando si è diffuso lo
Strutturalismo, la centralità del testo si è imposta prepotentemente, anche se le
tecniche di analisi hanno finito col soverchiarlo generando, talvolta, il suo
annichilimento. Tuttavia, questa fase storica ha avuto il merito di aver
mandato in secondo piano quell'approccio mediato eccessivamente dalla critica
letteraria, altrettanto soverchiante perché orientava o, se si vuole,
disorientava il lettore. Si ricordino, in proposito, le stroncature di
Benedetto Croce alla Divina Commedia, in particolare al Paradiso. Secondo il filosofo, infatti, l’opera dantesca non sarebbe sempre poesia perché, a suo giudizio, la “intuizione lirica”sarebbe
inficiata dal pensiero razionale. Di parere opposto fu Giovanni Getto che, parlando della Commedia, coniò l’espressione “poesia dell’intelligenza”.
Ci si chiede qui, dunque, quale sia il modo migliore per
accostarsi ad un testo, nello specifico a quello letterario, soprattutto da
parte dei giovani studenti. Va da sé che la lettura di prima mano è importantissima. E naturalmente ci si aspetta che qualcuno ribatta che una lettura
complessa non possa essere gustata senza una mediazione che faccia da guida. In merito,
sarebbe auspicabile che il maestro, almeno adeguatamente sapiente ed esperto,
fungesse da guida, a partire da una lettura ad alta voce in grado di restituire
vita alla parola silente, rendendo presente l’altro, l’autore, con il quale
così si incomincia ad interloquire, ponendogli le domande che egli ci sollecita.
Tale "presunzione", nel senso positivo di “prendere
prima”, dovrebbe poggiare su una scienza artistica da riportare in auge e da insegnare
il più diffusamente possibile. Quest’arte è la filologia, cioè la scienza del
testo.
La filologia,
infatti, è sorta proprio con l’intento di salvare il testo scritto dalle corruzioni
di trascrizioni errate e di glosse o interpretazioni fuorvianti, laddove il
copista o il glossatore pensavano di migliorare o, addirittura, di correggere l’autografo.
È rilevante il fatto che nella tradizione manoscritta quanto più il copista era
colto, tanto più il rischio per la corruzione del testo era alto. Il compito
del filologo, quindi, è quello di lavorare ad edizioni critiche per quanto
possibile vicinissime al testo originale.
Dunque, i testi proposti alla lettura
dovrebbero essere accompagnati da note scarne ed essenziali circa i livelli
morfosintattici e lessicali, senza essere sovraccaricati da commenti verbosi o,
peggio ancora, da pezzi di critica letteraria ideologizzati e ideologizzanti. Tutt'al
più, in un secondo momento, l’attenzione oggettiva, cioè filologica, al testo
potrebbe stimolare la conoscenza di letture moltiplicate secondo ottiche
diverse del testo stesso. Pertanto, sembra auspicabile che nell'ambito dell’educazione
linguistico - letteraria si riconsideri la validità formativa multidisciplinare
di un approccio filologico al testo. Questa metodologia agevolerebbe la cultura
dell’ascolto e dell’attenzione all'altro ed anche la presa di coscienza della
complessità della comunicazione verbale, propria ed altrui.
In un secondo momento sarebbe importante iniziarsi all'arte
dell’ermeneutica, cioè dell’interpretazione del testo, sondandolo nella
profondità polisemica. Questo esercizio sollecita ed educa l’emotività oltre all'intelletto,
affinando la sensibilità e l’ empatia.
Filologia ed ermeneutica sono complementari ed essenziali
per l’educazione all’humanitas. Le due arti sono, infatti, scevre da quella autoreferenzialità compiaciuta di tanta critica letteraria che sfocia nell'inciucio, benevolo o
malevolo che sia. E per di più capita
che, talvolta, le critiche si affastellino l’una sull’altra, fino a sopprimere
del tutto l’opera oggetto della critica. In proposito ricordo il racconto di un critico, del quale ho dimenticato il
nome, che, non avendo mai letto l’opera di Zola, stancatosi di
rispondere genericamente alle domande dei presenti alle sue conferenze, si decise un bel giorno
ad affrontare la lettura del ciclo dei Rougon Macquart. Dopo aver vissuto l’esperienza, quel critico conobbe veramente Zola e, finalmente, fu felice di raccontarlo agli altri.
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