Ci sono
momenti in cui le emozioni, vere e
proprie scosse elettriche che liberano energia, diventano un flusso di pensieri
caotici che cercano ardentemente una
forma adeguata per manifestarsi. E talvolta
le emozioni sono tanto forti che si accavallano e, come le onde del mare, si
infrangono in rivoli infiniti e fragorosi e si ritraggono in risucchi
inarrestabili. Sopravviene allora quasi un’afasia. Il groppo dei pensieri vorrebbe la magia di un linguaggio nuovo,
epifanico.
Ci soccorre in questi momenti l’esercizio della
scrittura che, fungendo da dispositivo di osservazione e di controllo, abbassa
la pressione della passione, incanalandola nelle parole da ordinare in tracciati
sulla pagina bianca.
Un’ emozione
forte è quella che precede la delusione, perché, prima di cedere allo scacco, la mente e il
cuore si accendono nella sofferenza di una
possibilità mancata proprio nello sforzo di interrompere la sequela di montature
artificiali che vanificano ogni tentativo di autenticità.
A scuola,
stamattina, c’è stato un incontro con un fisico, Bruno Galluccio, il quale, ad
un certo punto della sua vita, si è votato alla poesia, traducendo in ”correlativi
oggettivi” alla Eliot e alla Montale, come lui stesso ha affermato, la sua
esperienza scientifica.
Alle nove e trenta sono andata in aula magna
con gli studenti della quinta classe e con la collega di matematica e fisica,
per incontrare il poeta scienziato.
In seguito alla scelta della collega di
proporre agli studenti la lettura della raccolta di Galluccio, raccolta
intitolata “La misura dello zero", mi ero infatti “accodata” e, quindi,
arrischiata nell’ impresa di interpretazione. A dire il vero, avuto il libro tra le mani, mi ero sgomentata per la rarefazione astrusa
con cui le eterne domande sul senso e sul destino dell’esistenza erano lì
formulate. Ma ormai mi ci ero buttata in quel guazzabuglio e, quindi, dovevo
nuotarci.
Era urgente
tuttavia fornire un filo di Arianna ai malcapitati studenti,
affinché si districassero in quel labirinto. E così io e la collega ci siamo messe a studiare e, insieme ai
ragazzi, abbiamo cavato alcuni ragni dal buco, tentando qualche trama ermeneutica. Ci sosteneva il
sapere che Il bello, non sussiste
nella meta ma nelle peripezie del viaggio. E il nostro viaggio
è stato, tutto sommato, “fertile di avventure”.
Giunti alla
meta bisognava, comunque, apprendere ad
ingoiare il rospo. Itaca era povera, molto.
In un tal genere
di “ Incontri con l’ autore”, dicitura
questa oggi abusata fino all'insensatezza, non c’è alcun interesse per l’umanità.
Si ammucchia nell'aula magna il maggior numero possibile di spettatori, lì convocati solo per giustificare e
celebrare un evento pubblicitario per l’autore e per l’azienda scuola, proprio
come si fa in tante trasmissioni televisive, passerelle di “divi” più o meno
valenti.
Si stava così,
stamani, nell'aula magna gremita e vociante, in attesa che l’incontro iniziasse.Tuttavia, ci speravo
ancora in un dialogo vero. Macché! L’autore era sparito per l’intervista, non
so a quale giornale locale, il quale, naturalmente, lustrerà ben bene l’evento con la solita retorica
celebrativa, magari inneggiante alle
nuove sorti progressive di scienza e
poesia, finalmente riunite.
Intanto io
cominciavo a scalpitare; mi innervosiva
che si inneggiasse alle singole eccellenze, all'alunno geniale in grado di
comporre recensioni ridondanti ed astruse non meno delle poesie che ha
recensito. Infastidita dalla ritualità che sempre cerco di evitare, guardavo la collega e gli alunni che erano stati indotti in questa impresa e che ora si dovevano sorbire verbose
presentazioni, mentre il tempo, in barba ad ogni teoria scientifica, fuggiva via
e, di conseguenza, inesorabilmente la nostra esperienza non poteva essere narrata , sebbene fosse stato detto più
volte che eravamo stati i primi e gli
unici a lavorare veramente come gruppo classe. Mi addolorava, letteralmente, di essere caduta
nella trappola della vacuità. Sull'orlo di una crisi di nervi, appena si è presentata
l’opportunità, ho incitato uno studente
ad intervenire con una domanda emersa dalla nostra lettura. Subito dopo l’ho
seguito con gli altri, trascinando la collega malcapitata, che se ne stava in serafica attesa che l’evento seguisse il suo corso naturale verso l’esaurimento nel
vuoto assordante.
Ecco, volevo
interrompere la catena prevista e prevedibile di questo genere di incontri. Volevo
trovare “ l’anello che non tiene” ”la maglia rotta nella rete”, quel “varco”
che permettesse di salvarsi dalla “ruspa” spietata della Storia. Volevo
anche dire al Galluccio che la poesia se ne impipa delle tecniche a freddo, compreso il suddetto “correlativo
oggettivo”, perché la poesia non rinchiude, ma libera, inventando altri modi e altri
mondi.
Ho raccolto, quindi, tutte le
mie forze nel canto leopardiano “Alla primavera o delle favole antiche”,
dicendo come sia chiaro lì che il canto ingenuo della nostra unità con la
natura è perso per sempre. Da tempo L’alloro
non ha la vita di Dafne né il mandorlo quella di Filli. E a Filomela, ormai,
non resta che cantare il dolore dell’arido “vero”. Cerco di dare un’intonazione serena e
colloquiale alla mia voce. Ma, alla fine, con disagio, mi accorgo che è
stonata.
Sono questi i tempi in
cui l’usignolo deve fuggire al bosco, riparare nell'ombra di fruscianti silenzi.
Nei consessi degli uomini ormai si ciancia solo di competizioni e di premi,
letterari e non letterari.
Ma ecco che adesso l’emozione appassionata
rischia di tramutarsi in malinconia e in nostalgia, rasentando l’elegia per il Paradiso perduto. È la ben
nota altalena del cuore che palpita in ogni singola cellula della materia. Su e
giù. Tra volo e abbattimento. In un impeto vitale che non sa rinunciare agli ameni
inganni, alle speranze indimenticabili. E la speranza è affidata alla poesia ispirata dalla libertà, quella poesia che non tollera recensioni erudite e
proclamazioni paludate, ma chiede ascolto attento e disinteressato, e non può
abitare le vetrine allestite per platee
rumorose ed annoiate.
La Poesia
non ha pretesti né pretese, tanto meno quelle di spiegarci qualcosa, meno
che mai la matematica o la fisica. La poesia tenta abissi insondabili, dai quali
è irrimediabilmente attratta, ma non si vanta di averli compresi.
La poesia
è lo sguardo di un attimo infinito che cerca ancora le parole per dirsi.
Nessun commento:
Posta un commento