Che tempo il nostro! Gli eventi si accendono improvvisi e repentinamente evaporano e si liquefanno. E così le emozioni esplodono al tam tam mediatico per poi subitamente dissolversi e cadere nell'oblio, non trovando fertile memoria in cui possano sedimentare e trasformarsi in sentimenti di valori costitutivi dell'essere uomini.
Ma perché scrivo? O meglio, perché si scrive? Credo che si scriva per l'accendersi dei sentimenti o per l'illuminarsi di una idea. La scrittura risponde al bisogno di distillare nei segni, prima a se stessi, l'avvertimento dei moti del cuore, o di mettere in ordine le immagini e i concetti di un' idea. A meno che non si scriva per arido esercizio retorico, come perlopiù si insegna a scuola. Quando poi i moti e le urgenze del cuore si trasformano in creature fantastiche, in immagini tangibili, allora la scrittura diventa poesia.
Ma perché scrivo? O meglio, perché si scrive? Credo che si scriva per l'accendersi dei sentimenti o per l'illuminarsi di una idea. La scrittura risponde al bisogno di distillare nei segni, prima a se stessi, l'avvertimento dei moti del cuore, o di mettere in ordine le immagini e i concetti di un' idea. A meno che non si scriva per arido esercizio retorico, come perlopiù si insegna a scuola. Quando poi i moti e le urgenze del cuore si trasformano in creature fantastiche, in immagini tangibili, allora la scrittura diventa poesia.
In questi giorni quante parole suggerisce il revival risorgimentale!
Per me non può essere che un piacere! Nelle felici aule della mia infanzia, delle quali ho parlato altrove, ho imparato tutti gli inni che, improvvisamente rispolverati, risuonano ora dovunque.
Mi ricordo anche di aver dovuto mandare a memoria, in quarta elementare, Il Giuramento di Pontida di Giovanni Berchet che, misero lui, piangerebbe oggi di dolore venendo a sapere della trasformazione simbolica subita dalla Lega dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa per opera di Umberto Bossi e compagnia.
Da parte mia, prima che risuonasse la fanfara risorgimentale dei centocinquanta anni dell'Unità, ho sempre proposto lo studio della poesia romantico - risorgimentale. Del resto la nostra grande lirica romantica è tutta intrisa di quello spirito.
Tralascio il fuoco eroico e le Muse “del mortale pensiero animatrici” delle brucianti parole poetiche di Ugo Foscolo per soffermarmi sulla voce universale di un poeta della giustizia, del dolore, della fede, degli “umili” riscattati, della lingua della chiarezza da opporre alla lingua degli imbroglioni azzeccagarbugli, aiutanti meschini dell'illegalità e della protervia del potere. Parlo di Alessandro Manzoni, nipote del grandissimo Cesare Beccaria, un'altra gloria italiana, ma soprattutto un paladino dei diritti universali degli esseri umani.
Per me non può essere che un piacere! Nelle felici aule della mia infanzia, delle quali ho parlato altrove, ho imparato tutti gli inni che, improvvisamente rispolverati, risuonano ora dovunque.
Mi ricordo anche di aver dovuto mandare a memoria, in quarta elementare, Il Giuramento di Pontida di Giovanni Berchet che, misero lui, piangerebbe oggi di dolore venendo a sapere della trasformazione simbolica subita dalla Lega dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa per opera di Umberto Bossi e compagnia.
Da parte mia, prima che risuonasse la fanfara risorgimentale dei centocinquanta anni dell'Unità, ho sempre proposto lo studio della poesia romantico - risorgimentale. Del resto la nostra grande lirica romantica è tutta intrisa di quello spirito.
Tralascio il fuoco eroico e le Muse “del mortale pensiero animatrici” delle brucianti parole poetiche di Ugo Foscolo per soffermarmi sulla voce universale di un poeta della giustizia, del dolore, della fede, degli “umili” riscattati, della lingua della chiarezza da opporre alla lingua degli imbroglioni azzeccagarbugli, aiutanti meschini dell'illegalità e della protervia del potere. Parlo di Alessandro Manzoni, nipote del grandissimo Cesare Beccaria, un'altra gloria italiana, ma soprattutto un paladino dei diritti universali degli esseri umani.
Quando leggo il Coro dell'atto terzo della tragedia Adelchi, voglio bene ad Alessandro Manzoni. I versi nascono da ragione e sentimento unanimi. E l'amor di Patria non è retorico né nazionalista. Lo sguardo del poeta si posa addolorato su un “volgo disperso che nome non ha”. Dal dolore nascono le parole. Amaramente il poeta considera il tralucere della “fiera virtù” dei padri dai “guardi dubbiosi, dai pavidi volti”, fieri delle loro “superbe ruine”. Il sentimento patrio del Coro non è disgiunto dagli ideali dell'Illuminismo, dei quali gli occhi della fede hanno ampliato l'orizzonte, in una prospettiva storica dal respiro metafisico, mai rassegnato, ma sempre animato dall'ardore di un militante della giustizia, hic et nunc.
È per questo che la voce manzoniana sa essere satiricamente sferzante verso “il volgo disperso”. Questa forza vorrei per dire agli italiani che non basta sventolare il tricolore, cantare gli inni ed esaltare le nostre “superbe ruine” a rinnovare il coraggio e le speranze per l'Italia. È necessaria una eroica volontà, laddove ogni giorno siamo noi a decidere la nostra azione, per opporsi all'ingiustizia, all'illegalità, alla prevaricazione e all'arroganza di una cultura sempre più espressione di quel “pensiero unico” che ci concede i sussulti emotivi di un giorno, ma poi ci imbavaglia e ci schiaccia con le logiche dei sondaggi e delle percentuali, con i contentini gettati al “volgo disperso” come l'osso ai cani affamati.
La memoria è sacra, ma può essere sterile rievocazione, retorica manifestazione, se non alimenta il desiderio di una rinascita autentica, se non accende “il forte animo a egregie cose”, a testimoniare che non “un volgo disperso” ma un Popolo unito spera, e crede che libertà, giustizia e solidarietà, siano i valori fondanti dell'Italia.
Coro dell' atto terzo della tragedia Adelchi di Alessandro Manzoni
Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
È per questo che la voce manzoniana sa essere satiricamente sferzante verso “il volgo disperso”. Questa forza vorrei per dire agli italiani che non basta sventolare il tricolore, cantare gli inni ed esaltare le nostre “superbe ruine” a rinnovare il coraggio e le speranze per l'Italia. È necessaria una eroica volontà, laddove ogni giorno siamo noi a decidere la nostra azione, per opporsi all'ingiustizia, all'illegalità, alla prevaricazione e all'arroganza di una cultura sempre più espressione di quel “pensiero unico” che ci concede i sussulti emotivi di un giorno, ma poi ci imbavaglia e ci schiaccia con le logiche dei sondaggi e delle percentuali, con i contentini gettati al “volgo disperso” come l'osso ai cani affamati.
La memoria è sacra, ma può essere sterile rievocazione, retorica manifestazione, se non alimenta il desiderio di una rinascita autentica, se non accende “il forte animo a egregie cose”, a testimoniare che non “un volgo disperso” ma un Popolo unito spera, e crede che libertà, giustizia e solidarietà, siano i valori fondanti dell'Italia.
Coro dell' atto terzo della tragedia Adelchi di Alessandro Manzoni
Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
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