martedì 2 novembre 2010

“Mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui”


“Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro”.

Con questa immagine Machiavelli, scrivendo all'amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513, conclude il racconto di una sua giornata in esilio nel podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, una località tra Firenze e San Casciano in Val di Pesa. Quando ero una studentessa del liceo fui colpita dalla potenza espressiva di questo passo, che Mario Selleri, il maestro che, in quei fertili anni, mi guidò sui sentieri della poesia, lesse e commentò con voce vibrante ed occhi lucidi. Nel passo, Niccolò si eleva e si trasforma. Incede nella sua biblioteca al ritmo solenne di una sintassi che asseconda l'impeto del cuore. È statuario e sacro mentre indossa “panni reali e curiali”. Si staglia austero e umanissimo in quel bisogno d'amore che gli “antiqui uomini” gli offrono insieme al cibo della parola, la quale nutre l'uomo di memoria vivente e ne fa una “mediazione vivente”. Chissà se ancora oggi siamo capaci di un simile slancio! No, non uno slancio verso l'alto nell'illusione di un'improbabile estasi. Ma un lungo sentiero che scivola al centro di se stessi, laddove rivive la parola della memoria della pura umanità. Lì è stratificata la voce dell'uomo che risuona di eterna verità. È l'ἀλήθεια non svelata, celata, ma visibile nell'attimo di una riscoperta. È il momento del dialogo che nell'intimo si stabilisce tra l' uomo e la memoria vivente nella parola scritta, mediante un testo vivente.

Nel passo che ho trascritto leggiamo la metafora del libro vivente che reca incise le lettere di fuoco di millenarie ricerche. È la memoria che si fa cibo nutriente dell'uomo affamato di verità.

Più che mai, oggi, sentiamo il bisogno di “pascerci” delle parole “delli antiqui uomini” che risvegliano la nostra umanità!

In dialogo coi “grandi cercatori” forse anche noi potremo dire: “sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte”.






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