martedì 31 agosto 2010

Suoni e “sensi” di settembre.

Nei suoni dei nomi dei mesi risuonano i “sensi”.
Finisce Agosto spossato nella duplice “o".
Di tre “e” ridente incede settembre.
Tremano le sue dita tra i pampini
e scoprono ori e rubini splendenti.
Nell'aria qualcosa di nuovo brilla.
Si prepara una rinascita
anche se non è primavera.
La frescura ristora le membra
fiaccate dalla canicola del solleone.
Trema nel cuore settembre e spera
speranze mature d'autunno.

É tempo di riprendere il viaggio con nuova lena.
La smania di andare a stento è domata,
perché settembre annuncia una nuova
stagione di frutti profumati.
Sotto piogge canterine la terra
si prepara ad una nuova fecondazione.
Instancabile la vita palpita nelle zolle.
Non c'è stagione che non frema d'amore e di vita!

È inquieto settembre. Pensoso. Medita la fuga dal ritorno al “lavoro usato” mentre si sveglia dal torpore estivo.

Che faranno gli Italiani in questo settembre che torna carico di attese! Si attarderanno nelle chiacchiere pettegole sui litigi tra medici, sulle hostess di Gheddafi, o sulle altre notizie “rilevanti” dei media, esaurendo la loro energia in accorate e reiterate condanne moralistiche? O, “rivendicando sé a se stessi”, trasformeranno l'energia in progetti buoni e belli confidando nella loro volontà inalienabile?

A Settembre riaprono le scuole. Che faranno gli insegnanti? Si assopiranno tacitamente piegati ai “diktat” di una politica dissennata e si consegneranno ancora una volta inerti alla burocrazia, o con voce libera e chiara rivendicheranno autorevolezza pedagogica e culturale, entusiasti di iniziare un viaggio di esperienze condivise, alla luce di una risvegliata coscienza civica? Penseranno a rinchiudersi nel privilegio dell'orticello conquistato, o si apriranno ai problemi di chi ha perso o perderà il lavoro, di chi guarda accorato al futuro? Diverranno consapevoli del fatto che la trasformazione positiva di questo critico momento storico richiede il loro impegno di studiosi, la loro testimonianza culturale ispirata ai valori umani e alla solidarietà civile? Saranno tanto lungimiranti da capire che una società più giusta, un mondo più pulito e vivibile per tutti dipendono anche dal loro fare, partecipare, condividere?
Penso che nei collegi dei docenti dell'imminente primo di settembre si delineeranno le sorti della scuola e del contributo di questa alla cultura dell'Italia per il prossimo futuro. Non so cosa si leggerà nei volti degli insegnanti domani. Come faranno il loro ingresso nell'aula assembleare. Come si saluteranno. Sarà uno sciamare scontento? Disincantato? Preoccupato? Prono? Sarà un frusciare di abitini estivi che esaltano le abbronzature delle signore e un blando ed educato annuire di signori distratti da altre preoccupazioni? Un cicaleccio di convenevoli tra i sospiri di rimpianto per la brevità del tempo della vacanza? O si riunirà un'assemblea di donne e di uomini attenti e partecipi alla discussione, entusiasti di dedicarsi allo studio e alla ricerca e di rivendicare spazi e tempi per condividere idee e progetti liberi?
Chissà, forse nei collegi dei docenti del primo di settembre, invece di occhiate guardinghe agli orari accompagnate da accorate e lamentose richieste, si coglieranno, finalmente, sguardi fiduciosi e si ascolteranno proposte sagge, idee innovative, progetti di solidarietà, pensieri liberi di liberi educatori che sono fieri di avere tra i loro padri culturali Cesare Beccaria e Vincenzo Cuoco. Se così avverrà, sarà l'inizio di un settembre di speranza. E non solo per la scuola.

domenica 22 agosto 2010

Geometrie della Bellezza

Capita talvolta di giungere in luoghi mai visti prima che ci accolgono come se fossero a noi i più familiari. Sono spazi definiti eppure pregni di vita rarefatta da un'aura d'eternità. Lì il silenzio circonfuso parla chiare parole da intimo amico. Sono luoghi quasi incolori che sembrano aver accolto e confuso tutti i colori, in tutti i toni possibili. In essi la polvere del tempo si posa come l'eternità. È bella la polvere della terra! In ogni granello l'infinito della storia passata è in attesa di granelli fratelli a venire.
Mi sono trovata di recente in un posto così. È una terrazza che l'uomo ha appena ritoccato nella natura. Sul fianco di una rupe boscosa di sempreverdi. Un pavimento di mattoni grigiorosa delimitato da una ringhiera di ferro incorniciata da quattro pini silvestri. Tra le finestre dei pini, oltre la ringhiera, la piana si stende disegnata da un reticolo di multiformi quadrilateri armoniosamente sfumati nei toni caldi del giallo pacato, del dorato marrone, del verde pudico. Oltre la geometria dei campi si intravede una curva d'azzurro, mare o lago non si saprebbe dire. Sulla linea dell'orizzonte la piana confina con la curva del cielo, la vista più rara a vedersi, perché di rado gli occhi si levano al cielo.
Sospesi su questa terrazza non è necessario alzare lo sguardo per vedere il cielo. L'eterea sfera avvolge la terrazza e il disegno dei campi e la rupe boscosa e la curva d'azzurro, mare o lago, laggiù. Un microuniverso palpitante nel silenzio!

Ho sempre amato luoghi che paiono disegnati dalla mano di un sapiente geometra!

La geometria non esclude l'immenso sconfinato. La purezza delle forme rigorosamente definite e la musica delle simmetrie alludono ad una infinita quanto irraggiungibile perfezione.

È per questo forse che mi attrae Piero della Francesca, il pittore di geometrie metafisiche della natura e della storia. Le linee di Piero disegnano poligoni regolari e cerchi perfetti negli spazi e nei corpi, assecondando uno sguardo capace della precisione della riga e del compasso. Anche il colore si distende, deciso, secondo corrispondenze studiate e ostinatamente perseguite. Ne risulta un'armonia compiuta da una volontà che insegue il tracciato razionale della perfezione e diffonde una musica rasserenante, geometrica anch'essa. Si susseguono ritmi di quadrilateri e triangoli che d'improvviso si flettono nelle dolci linee sinuose delle curve di un corpo o nella perfetta circolarità di un'aureola.

Me ne sarei stata per ore nella minuscola e spoglia stanza di Monterchi dove è stato collocato l'affresco della “Madonna del parto”, umanissima nel lieve incurvarsi all'indietro sulla schiena, col braccio sinistro piegato a sostenere il fianco e la mano destra delicatamente poggiata sul grembo, nel punto in cui la sopravveste azzurra è slacciata e forma un rombo oblungo, quasi uno squarcio luminoso sul mistero della maternità. Il corpo ha la semplice e fresca maestà di una giovane popolana. Appaiono come due fanciulli del popolo anche gli angeli laterali, in perfetta simmetria alternata di forme e colori, che sostengono la tenda aperta su un palcoscenico essenziale.
La scena rappresenta una maternità consacrata dalla geometria di Piero, sobria e surreale a un tempo. Il volto della mamma è purissimo nell'ovale perfettamente delineato in una compostezza metafisica che nulla sottrae al sentimento della donna.
Nel disegno di Piero traspare la dolce geometria del paesaggio Toscano, la stessa che i miei occhi hanno interiorizzato dalla magica terrazza, una delle tante della terra di Piero.
Le curve dei poggi, il reticolo ordinato e dolcemente policromo dei campi, i triangoli dei cipressi che puntano al cielo sono trasfigurati nelle forme perfette dei racconti del pittore di Sansepolcro.
L'affresco della “Madonna del parto” è dipinto coi colori di vedute familiari.
Il fondale della scena si ispira di certo ai muri in pietra del paesaggio aretino. Tuttavia, il verde della tunica di uno dei due angeli e delle ali dell'altro come l'azzurro della veste della Madonna e il rosato diafano dei volti, pur richiamando i colori del medesimo paesaggio, emanano una luce che disancora dalla realtà i volumi dei corpi permeati da una trasparenza che li rende quasi inconsistenti.
Una terrazza protesa sulla piana, quasi sospesa nel cielo, e l'affresco di Piero, specchiatisi negli occhi, si sono con-fusi, trasfondendo nei sensi e nel cuore l'essenza di una pacata, semplice, bellezza ristoratrice.

domenica 1 agosto 2010

“Il carteggio Aspern”: un libro “sulla vita e sull'arte”

Talvolta immersi in una lettura ci aggiriamo in continuo sussulto nei chiaroscuri della coscienza e nei tormenti dell'anima. Assumiamo lo sguardo dolorosamente penetrante di un qualche personaggio reale e ideale insieme, apprendiamo quanto imprevedibili siano le creature umane e inafferrabile la vita. Se è così, stiamo di certo leggendo un libro scritto immediatamente con gli occhi. Henry James è un autore capace di questo. Il suo stile ha la mobilità dello sguardo. Leggerlo equivale ad osservare il dentro e il fuori di noi investiti da una convulsa sensibilità. Dalle atmosfere ridenti e serene di una tenuta inglese immersa nel verde rugiadoso e fiorito di un prato Henry James è capace di trasportarci nella penombra livida di un antico palazzo romano o nella perfezione rinascimentale, ma satura del sentore di antiquariato, di una villa in pieno sole su di un poggio fiorentino. Pervasi da una pungente amarezza sfogliamo la margherita dell'esistenza in “Ritratto di Signora”, colpiti al cuore per sempre da Ralph, biondo, alto, esile, freddamente sorridente nell'ombra cupa della morte, sua instancabile minacciosa compagna, ma appassionato nel profondo, perdutamente innamorato della cugina Isabella e dell'opera d'arte che potrebbe essere la sua vita. Quella vita che infine si fissa in un tragico “ritratto di signora”.
Dopo il lunghissimo e famoso “Ritratto di signora”, lo scrittore americano, innamorato dell'Europa e dell'Italia, scrisse un romanzo, brevissimo ma intenso e carico di “senso”: “Il carteggio Aspern”. Il titolo contiene l'oggetto di una vera e propria “quête”, ovvero della spasmodica “ricerca” del carteggio d'amore di un immaginario poeta spentosi ancora giovane. James inventa infatti la storia di un “letterato” americano, fanatico ammiratore del conterraneo poeta romantico Jeffrey Aspern, “grande nome del secolo”, l'ottocento, “quando il secolo era ancora giovane”. Di Aspern l'anonimo studioso, dopo averne ricostruito la vita e gli amori, scopre che la musa più importante del suo canto è ancora viva e dimora in Venezia, dove giunse giovinetta dall'America.
Nelle prime pagine del racconto ci ritroviamo proprio lungo un canale di Venezia. Da una gondola assumiamo il punto di vista del “cercatore” in stupita attesa davanti a un “vecchio palazzo grigio e rosa, non particolarmente antico” e dall'aria “non tanto di decadenza quanto di pacata rassegnazione”. Veniamo subito a sapere che in questa “malinconica” dimora vive, insieme con la nipote Tina, l'ormai decrepita Miss Juliana Bordereau, la fiamma del defunto estimatissimo poeta Jeffrey Aspern. L'anonimo “letterato”, una “canaglia di pennaiolo”, come lo apostroferà Juliana in una magistrale scena culminante, escogita un piano diabolico per penetrare in quel palazzo della memoria e per approfittare di un simbolico giardino imprevedibilmente sbocciato in mezzo alla laguna. Il “pennaiolo” si dà persino un falso nome, che in verità è l'unico che ci viene concesso di conoscere. Egli brucia di curiosità per il passato del suo poeta. È divorato dal desiderio di entrare in possesso delle lettere scritte da Jeffrey a Juliana e da costei custodite nell'antica e ombrosa dimora. Non vive che per quelle carte “il pennaiolo canaglia”. Arde dalla febbre di far luce sul passato dell'ammiratissimo Aspern e di raccontarlo con la sua arte. Perciò egli non si fa alcuno scrupolo nel tessere una tela di inganni. Senza morsi di coscienza si serve di Miss Tina, la nipote appassita nell'ombra del vetusto palazzo e della passata gloria della zia.

I tre personaggi disegnano un triangolo in cui l'amore viene ad assume sensi differenti.

A un vertice è la decrepita Juliana che cela con un velo verde gli occhi folgoranti che in un tempo lontano incantarono il “divino” Jeffry Aspern. Juliana è il simbolo decaduto di un passato amore, fantasma sigillato in un misterioso carteggio gelosamente custodito come unica testimonianza della poesia sublime che ella stessa ispirò.
Al vertice opposto si trova l'anonimo “pennaiolo” ardente di un amore freddo, quello “antiquario” del biografo critico la cui arte attinge alla vita e all'opera altrui senza nessuna pietà.
Al vertice centrale è Miss Tina, l'unica creatura viva e vera, sebbene si mostri sfiorita senza essere mai sbocciata nell'ombra in cui l'ha relegata lo splendido isolamento della zia.
Aldilà del dimesso aspetto avvizzito e del contegno impacciato, miss Tina è dotata di una freschezza inaudita, di un'autenticità sconosciuta, di una dignità nobilissima, e, soprattutto, di una vitalità sorprendente. Con l'arrivo dello studioso nella grande casa addormentata Tina si risveglia.
Mite, ingenua e sognatrice, ma dotata di un imprevedibile senso della realtà, Miss Tina mi sembra la vera musa di James.
Nella finzione romanzesca Miss Tina rappresenta l'imprevedibilità di un'esistenza reale aldilà della fissazione dell'opera d'arte e degli schemi rigidi dei giochi di ruolo della vita.
Ancora capace di sognare e di stupirsi mentre siede ad un tavolino del Florian insieme all'uomo che l'ha risvegliata dal letargo della sua dimora, Tina ama gratuitamente mentre fornisce con sguardi eloquenti gli indizi per il ritrovamento del misterioso “carteggio Aspern”. È Tina l'unica creatura reale del presente. Il suo cuore palpita davvero. Ella è la custode generosa dell'avida zia, di quell'Euridice mummificata sopravvissuta al suo Orfeo. Dall'Ade in cui è rinchiusa Miss Tina, tornata alla vita, spera di uscire grazie all'amore del novello Orfeo lì approdato.
Ma l'anonimo scrittore, controfigura problematicamente emblematica dello stesso James, insegue il passato. Egli è avido di quel passato come materia della sua arte.
Mi sembra, quindi, che il racconto di James ci metta davanti al tragico tentativo di dare senso alla vita attraverso i fantasmi della mente. Ed è Tina a far dileguare i fantasmi. È lei infatti che brucia ad una ad una le pagine del “carteggio Aspern” e mostra come il mondo sia costituito di creature reali imprevedibili.
Nella conclusione del racconto Tina appare risvegliata, ringiovanita ed abbellita. Con dolcezza ella rivela il suo gesto all'incredulo ed esterrefatto “pennaiolo” condannato per il resto della vita a piangere la perdita del feticistico “carteggio Aspern".