lunedì 1 dicembre 2014

Ritratti in memoria



Solo un mese e anche il duemilaquattordici sarà passato. Negli archivi si accumulano i documenti a disposizione di chi scriverà la Storia. Trascorrono in attimi i secoli e si addensano, frantumati, negli eventi che sembrano i più importanti. Le immagini fermate non sempre le riconosciamo come nostre. Per noi che ancora ci siamo, è presente e vivo il passato che custodiamo attuale alla memoria. 
Nel silenzio di quest'autunno indolente, mentre pare che le foglie non vogliano cedere e abbandonare il ramo, si incidono, presenti e vivi, i volti di coloro che sono fuggiti via, oltre, e fuori dalla corsa affannata dell'anno, e  hanno tagliato il traguardo, vincendo sul tempo.

Tonino

Moro, irridente e sensuale, come un pescatore amalfitano modellato dalle onde, volgevi alle cose della terra lo sguardo ammiccante, come il guizzo di luce che tante volte avevi contemplato sul mare splendido e beffardo, palpitante e malinconico. Lasciasti la torre angioina, quasi generata dalle stesse rocce a guardia del mare, per approdare sulla rena lavica di un'altra città marinara, un'altra Torre, dalla quale spiavi un altro orizzonte. Proprio come Ntoni Malavoglia, avevi salutato un pugno di case biancheggianti nel riverbero azzurro di cielo e mare, perché volevi un'altra vita. E l'avesti. Ma sapesti mantenere l'antica saggezza nella nuova avventura. Hai seminato semi buoni. Ora sei tornato alla salda torre angioina, in quell'incredibile azzurro, sorridente pulviscolo disperso nell'etere, diffuso nel mare.

Luigi

Mi telefonavi all'improvviso e rallegravi i miei difficili vent'anni coi tuoi inviti generosi che hanno scavato nella mia vita il meglio di quella che sono.
-Stasera io e mia moglie ti portiamo al cinema, svelta, preparati. Si va al No, una sala d'essai. Poi ci faremo una pizza in Piazza Bellini -.
E così, si stellava, imprevedibilmente, una sera caliginosa della mia verde età.
L'emozione mi vela le pupille nel dirti la mia gratitudine, Amico mio. M'hai amata come la figlia che desideravi, o come una sorellina che non avevi. Mi insegnasti il bello, tracciando linee sul tavolo da disegno dello studio. Mi conforta tuttora il ricordo dei libri multicolori posati tra gli scaffali bianchi di quella libreria che m'innamorò e che reinventasti per me, quando andai sposa.
Quante volte, nella risata che ti scuoteva nervosamente le gambe accavallate sulla poltrona catalana accanto al fuoco, ho sentito la tua paura della vecchiaia e della morte!
Quarant'anni fa, appena ieri... adesso!
La mia semplicità ti dava gioia. A questo pensiero si addolcisce il rimpianto, mentre mi sembra di riascoltare, insieme a te, lo scorrere maestoso della Moldava o l'incrociarsi frenetico delle Danze Ungheresi, come eravamo soliti fare in quel tempo che per me non sarà mai passato.
Ti so, comunque, placato. Ti vegliano ora le argentee chiome degli amati olivi, ondeggianti su quelle colline che ancora riecheggiano la storia di Carlo Pisacane, la stessa vicenda che – te ne ricordi, Luigi? - mi portasti a vedere al cinema No, quella sera di tanti anni fa.

Natale

Una mezzaluna crescente illumina l'ultima notte di questo novembre. Aspettiamo il Natale.
Che strano il ritorno del tempo andato, mentre l'anno declina!
Altri autunni si accendono nella memoria. Quelli vissuti nei collettivi di partito negli anni Settanta. Le sezioni con le pareti tappezzate di manifesti: le bandiere rosse con la falce e il martello, il Quarto Stato, i ritratti di Gramsci e del Che. La luce giallognola era calda come i progetti e le speranze.

E tu, compagno Natale, nel sorriso buono parlavi di quelle speranze. 
Mi comprendesti nella mia ingenua partecipazione, e mi volesti subito bene. Io lo sentii e tu capisti che mi fidavo del compagno alto e dinoccolato, dai gesti pacati, intento ad osservare un'ardente compagna sconosciuta. Quando mi incontravi per strada ti fermavi a parlarmi, schivo e dolce, ma non sapevi celare il piacere di vedermi. 
Di questo tuo affetto discreto ti sono grata, anche oggi, compagno Natale!   


martedì 21 ottobre 2014

Un mezzodì d'ottobre...un uccellino...

Ci sono giornate segnate dagli astri avversi. O meglio, ci sono giornate in cui lo squallore della realtà si fa palpabile come una nebbia plumbea.
Poi, improvvisamente, c'è da commuoversi a dirlo, oltre la finestra spalancata, un uccellino, forse un usignolo, gorgheggia beato una melodia vivace che ti stupisce. Sembra che si sia messo a trillare solo per te. Interrompi il tuo lavoro e, ridendo, inviti anche gli altri lì presenti a gioire di quel fresco zampillo sonoro. IL canto insiste sempre più forte.
Ma è un miracolo! Sì sì, è venuto accanto alla finestra proprio per me. Ne sono sicura.
È un avvertimento alato. E le ali vorrei, per raggiungerlo, in questo afoso mezzodì d'ottobre.
Ma che mi vuol dire coi suoi acuti prolungati in giravolte di note scintillanti?
Mi sgrida, mi invita, o mi canzona? Mi canzona, mi canzona, sì sì. Ogni trillo è uno sberleffo
- ehilà, dico a te, grulla imbronciata, in gattabuia chi ti ci ha messo l'uomo nero? Scioccherella, ma non vedi? Non è nero. È grigio e bleso. È l'uomo arreso, da se stesso tutto preso. I gorgheggi non li sente, non li sa -.
Resto al di qua della finestra, con gli occhi al libro, scorro un passo alato:

Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.

Si dirada la nebbia. Prestami la tua voce, usignolo, e volerò via con te. Su, su, oltre le dense nuvole.



venerdì 17 ottobre 2014

Io e Il giovane favoloso

Forse perché l'ho amato fin da bambina il poeta della primavera, quando fui colpita dal notturno della sua sera del dì di festa e da quel "canto che s'udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco”; forse perché ho serbato la malinconia dell'adolescenza e le illusioni che la illuminarono; forse perché gli somiglio nella fragilità ossea che mi torturò fin dall'adolescenza, e mi piegò; forse perché sono dominata dalla luna come lui (entrambi siamo nati sotto il segno zodiacale del cancro), e come lui sento la parola scandire la natura dal profondo dell'anima; forse perché il mio giovane favoloso inventa toni chiari anche quando è il dolore ad ispirarlo; forse perché le sue illusioni non amano le tenebre, ma la luce; per tutto questo, forse, e per tanto altro taciuto, non sono stata coinvolta dal film di Mario Martone sulla vita e sulla poetica di Giacomo Leopardi.

Ho atteso l'uscita del film fin da quando, nell'autunno dell'anno scorso, ne fu annunciato l'inizio delle riprese e, magari, attratta dall'argomento, ho caricato di troppe aspettative quest'opera. In alcune recensioni si parla di uno stile cinematografico visionario, rispondente all'immaginazione leopardiana. 
Io, invece, l'ho trovato cupo, quasi barocco, e, pertanto, estraneo al mio poeta che, stigmatizzando le tortuosità e il patetismo dei romantici italiani, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, difese la classica semplicità, ovvero la celeste naturalezza degli antichi. Lo studio del cuore umano gravato da psicologismo irritava Leopardi, come lo irritava quella esaltazione della spontaneità della forma che finiva con l'assurgere ad una artificiale oscurità. Eppure il sentimento della natura, che si effuse in idilli dell'anima (e si ricordi che l'idillio fu una forma poetica del raffinato Ellenismo) è un tratto importante del Romanticismo leopardiano. Ma si tratta di un romanticismo metastorico, insito nello spirito dell'uomo. 
Questa semplicità profonda, quasi un miracolo della sintesi intuitiva di un genio indiscutibile, che Calvino additò come uno dei geni della leggerezza, si rinviene a stento nel film. Le scene indugiano negli interni. Ma anche negli esterni girati a Recanati incombono, perlopiù, i muri che recingono il giardino del palazzo del conte Monaldo, dalle cui finestre appare, schiacciata, quasi compressa al suolo dalle riprese, la semplice e serena intimità della piazzetta oggi denominata “del sabato del villaggio”.
 Qualche volta la macchina da presa punta sulla luna, ma non sa cogliere lo scintillio del firmamento, il cui aspetto tante “fole” suscitò al poeta (e perciò, forse, Anna Maria Ortese inventò l'espressione Il giovane favoloso), quando la notte sostava sui “veroni del paterno ostello" e ascoltava “il canto della rana rimota alla campagna”, mentre si levava “il vento recando il suon dell'ora, dalla torre del borgo”. Infondo, mi è sembrato che la lettura, senz'altro corretta, della vita e del pensiero di Leopardi da parte di Martone non sia riuscita a penetrare nell'anima del poeta né a coglierne l'ispirazione, ma sia stata esterna e troppo analitica. 
Anche lo studiatissimo realismo, con cui il protagonista imita i difetti corporei e l'andatura del giovane sfortunato più che favoloso, è privo di naturalezza, e scivola, talvolta, in una affettazione grottesca. Grottesca, e priva del fiabesco e della forza ironica che la caratterizzano, è anche la rappresentazione della Natura in dialogo con l'Islandese.
Quindi, per la mia sensibilità, sebbene accurato e colto, il film manca di una sintassi poetica, di un respiro unificante. È comunque da ammirare la tensione eroica sia del regista che del protagonista. Credo, infatti, che sia un' impresa quasi impossibile tradurre il linguaggio del “pensiero poetante” in quello cinematografico”. Meglio gli si adatterebbe una sinfonia. La musica, solo la musica, col suo fluire molteplice e inarrestabile, riuscirebbe a contenere, senza infrangerla, la semplice grandezza del messaggio leopardiano.

giovedì 2 ottobre 2014

Entusiasmo d'Autunno

Incede l'Autunno. Le prime ottobrate turbinano di foglie. Sotto un cielo incerto.
Indifferente alla Storia, la Natura danza il ciclo della vita. Rallenta il passo nel tratto dell'Autunno, e si distende nel brivido d'attesa del gelido abbraccio, dal quale, pure, si scioglierà, per garrire nuovamente sotto la grondaia, nel vento di marzo.
L'Autunno non è triste. S'accende di caldi colori: il giallo e il rosso tripudiano e si sposano in una policromia infinita.
La Natura ignora le passioni. È entusiasta la Natura. È ispirata da un soffio divino e lo contiene. È questo, infatti, il significato del vocabolo greco enthousiastikòs: ispirato da un dio, fino alla frenesia.

Anche un cuore entusiasta si dimentica di se stesso, danza la melodia della vita nei cicli della Storia.
È forse quest'oblio di sé quella divina indifferenza che i poeti ci additano come sommo bene?
Chissà!
Eppure, in questo nostro tempo, che incalza i mortali coi fantasmi della vanità, ci manca proprio il respiro entusiasta, per scuotere il cuore dal greve giogo delle passioni tristi.


sabato 13 settembre 2014

“Non vi è vita privata che non sia stata determinata da una più ampia vita pubblica”

"Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?"

Questi versi struggenti, lenti e maestosi, che ci fanno quasi voltare in cerca di un'immagine, persa come un sogno ma sempre desiderata, si possono porre come epigrafe commossa ad un romanzo straordinariamente bello che ho appena finito di leggere: Gli Innamorati di Sylvia di Elizabeth Gaskell, edito dalla Jo March.
Nel titolo il nome della protagonista è un segnale della sua indole aperta alla natura, sospesa tra terra e mare, come la costa britannica settentrionale dello Yorkshire, nei pressi della cittadina di Whitby rinominata Monkshaven dalla scrittrice, probabilmente suggestionata dalla presenza di un'antica Abbazia, la medesima che ispirò Stoker quando scrisse Dracula.

Sylvia è la reginetta di Haytersbank, la fattoria abbarbicata tra le rocce e la brughiera di Monkshaven, battuta dal vento, profumata di latte appena munto, di rosa canina e di erbe aromatiche olezzanti nell'aria salmastra. Haytersbank è quasi un rifugio di confine tra la terra e il mare, quel mare che ora mormora, ora ruggisce nella gola sottostante, ansioso di segnare il destino degli uomini di quella regione.

Nonostante il titolo, Gli innamorati di Sylvia non è un racconto sentimentale, ma un romanzo storico, la cui ispirazione Elizabeth Gaskell maturò in seguito a un soggiorno a Whitby, dove oggi si può essere ospiti in un cottage albergo che porta il nome di Monkshaven.
Del resto, prima di stendere l'intreccio che andava immaginando, la scrittrice studiò sia le fonti storiografiche sulla guerra anglo francese che avvenne nell'ultimo decennio del Settecento, quando era in ascesa il generale Napoleone Bonaparte, denominato Boney dagli Inglesi, sia i documenti sulla caccia alle balene, molti dei quali sono gli stessi a cui attinse Melville per Moby Dick. La pubblicazione della Jo March è corredata da una bella e documentata introduzione, alla quale rimando per tutti i dettagli sulla genesi e le fasi di scrittura di quest'opera.

A me interessa la metamorfosi dolorosa di Sylvia, emblema della femminilità e dell'umanità, sulla cui storia privata incide tragicamente la Storia pubblica. Per questo mi è sembrata pregnante la sentenza di un'altra narratrice inglese dell'Età Vittoriana, Mary Anne Evans, nota ai lettori con lo pseudonimo di George Eliot. - “Non vi è vita privata che non sia stata determinata da una più ampia vita pubblica” - recita questa sentenza, riportata nell'introduzione di Francesco Marroni a Gli Innamorati di Silvia.
Del resto, il nostro Alessandro Manzoni, quando pensava al “vero per soggetto”, si riferiva proprio a questo intreccio ineludibile tra Storia e storie e, nonostante la volontà di confidare nella Provvidenza, non poté fare a meno di rappresentare la sua tragica visione del destino degli uomini, vinti dagli eventi della Storia, e salvati, ma solo in un improbabile altrove, dal dolore elargito loro dalla Provvida Sventura.
Tuttavia, ancor più tragica mi sembra quell'idea che vorrebbe la vita umana già inscritta nel genoma, in quei fattori ereditari che condizionerebbero deterministicamente ogni storia di vita.
In ogni caso, agli uomini e alle donne inermi è riservato il dolore sulla terra. E mai come oggi questa regola storica si manifesta con crudeltà su tutto il pianeta.

Allo sguardo penetrante di un narratore di storie dolorose tocca la compassione e l'arbitrio di inventare un lieto fine, qualche volta.
Ma lo scioglimento felice delle vicende di Sylvia non accade. La Gaskell ha voluto ispirare ai lettori la compassione, il sentimento più umano, la condivisione del nostro essere canne al vento. E così ho patito con Sylvia, per la sua giovinezza spensierata precocemente trasformata dalla violenza delle bande di coscrizione, quelle truppe mandate dalla Corona britannica ad arruolare forzatamente i giovani del popolo, strappandoli ai figli e alle spose.

Le vite degli umili sono sconvolte dalle ragioni della guerra. La bellezza e l'innocenza di Sylvia non la salvano dal dolore: Daniel Robson, il padre, contadino ed entusiasta narratore delle sue passate imprese come cacciatore di balene, viene impiccato per essersi ribellato alla ingiustizia e alla crudeltà della coscrizione forzata, dopo essere stato giudicato come il responsabile principale della rivolta popolare di Monkshaven contro le truppe del re; il ramponiere Charley Kinraid, l'amante riamato di Sylvia, viene catturato dalle bande mentre si reca a Newcastle per imbarcarsi su una baleniera verso i mari della Groenlandia. E infine, la caccia impietosa delle bande del re costituisce l'occasione della corruzione etica e della rovina di Philip Hepburn, commesso colto e di belle speranze, allorquando egli, dopo aver assistito alla cattura di Kinraid e aver ricevuto da lui un messaggio per Sylvia, asseconda il diffondersi della falsa notizia della sua morte. Per di più Philip non riferisce alla ragazza il messaggio consegnatogli da Charlie nel momento della cattura, il suo giuramento di fedeltà e l'accorata preghiera di confidare nel suo ritorno. Mettendo a tacere i sensi di colpa grazie alle dicerie sulla leggerezza sentimentale di Kinraid, Philip approfitta della fragilità di Sylvia impietrita dall'impiccagione del padre, prostrata dal dolore per la follia della madre, e realizza il suo più ardente desiderio sposandola. Ma, né l' assoluta devozione di Philip, né, tanto meno, gli agi acquistati col matrimonio, e neppure la condizione serena donata alla madre dal suo sacrificio acquietano la passione di Sylvia, memore della sorte del padre e della scomparsa del marinaio forte e intrepido a cui s'era promessa.
L'adolescente lieta diventa la giovane donna pensosa e schiva, che degli anni ignari del dolore conserva soltanto l'indole appassionata e implacabile.

Un'altra figura femminile è disegnata nella trama da Elizabeth Gaskell, Esther Rose. Esther è l'opposto di Sylvia. Docile e devota, segretamente innamorata di Philip, mi ha fatto venire in mente Ismene e le sue quiete ragioni di pace in contrasto con quelle implacabili di Antigone.

Ma, al di là di ogni tentativo ermeneutico di questo avvincente intreccio, mi ritrovo, ora, a contemplare Sylvia, sola, con la sua creatura tra le braccia. All'immagine fresca e civettuola della ragazzina che nelle prime pagine del racconto sceglie ostinatamente una stoffa rossa per la sua mantella si sovrappone l'icona ammantata di nero, pallida e triste, dell'ultima pagina. 
Spentasi nel fiore degli anni, Sylvia non vedrà adulta sua figlia. Come suo padre, come sua madre, come lo stesso Philip, Sylvia è una vinta della Storia, mentre Charlie, bello e forte e fortunato, fa parte della schiera di coloro che sanno adattarsi a vivere anche nei tempi più tenebrosi e che, spregiudicatamente, riescono sempre a vincere su questa terra.





venerdì 5 settembre 2014

Un colpo di spazzolone sulla tela della scuola

“Quando un allievo si trovava paralizzato di fronte alla tela bianca, incapace di procedere, vittima della tela bianca, il maestro interveniva immergendo uno spazzolone in un secchio di colore e imprimendo un violento colpo sulla tela. Questa offesa traumatica sortiva un effetto immediato: l'allievo, liberato dall'angoscia e dall'inibizione poteva finalmente procedere nel suo lavoro”.

Questo aneddoto, che riguarda Emilio Vedova, insegnante di pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia, è narrato da Massimo Recalcati nel volumetto “L'ora di lezione” edito da Einaudi e io lo riporto come metafora di me stessa seduta davanti alla pagina bianca ma anche di qualsiasi uomo o donna che si trovi nel desiderio di creare qualcosa di innovativo.
Come dice Recalcati, prendendo spunto dall'aneddoto sul maestro di pittura, “il colpo di spazzolone che si getta con forza sulla tela immacolata cerca il vuoto, l'aria, l'ossigeno...” perché “il vuoto della tela bianca non è mai davvero vuoto. È piuttosto sempre troppo pieno”.

Questo disagio davanti ad una tela vuota che in realtà è piena mi riguarda mentre desidero scrivere qualcosa di nuovo sulla scuola. Mi sforzo di resettare la mia testa troppo piena di idee e di parole già formulate ed espresse sulla scuola. Vorrei trovare un altro stile un' altra forma. Vorrei bucare la trama ormai storica intessuta di “risorse umane, monitoraggio, valorizzazione, crediti, debiti, autonomia, risorse aggiuntive, differenziazione, competenze, recupero, verifica, contratto, scatto, gradone, progressione di carriera, investimenti, efficienza, valutazione, meritocrazia". Uno shock cognitivo rigeneratore è l'illuminazione che interviene nella vita, come capita spesso a uno studente davanti ad un problema scolastico.
“Eureka!” diceva Archimede, trovando la soluzione nuova che apre strade nuove alla scienza e all'arte umane. Ma, per essere colti da uno shock cognitivo, bisogna disporsi anche ad uno shock emotivo, quello del colpo di spazzolone sulla tela bianca troppo piena. 
Chi scrive è un'insegnante, donna. Ha familiarità con altre parole: dolore, insicurezza, frustrazione, errore, sacrificio, ripensamento, dubbio, ricaduta, entusiasmo, perplessità, speranza rinata, conflitto, solitudine, rabbia, sconforto, gelosia e vergogna nel provarla, fatica, impulsività, amore, desiderio e ancora speranza.

Di questo colpo di spazzolone che fa il vuoto tra le parole stratificate sulla tela della scuola avrebbe avuto bisogno  l'attuale Governo italiano per rinnovare lo stile e liberare fresche linfe. Invece, nonostante l'intenzione, ancora una volta, il Politico si è smarrito nella palude di parole vecchie, ispirate da quell'idea aziendalistica che ha corrotto la mente e il cuore di chi vive nella scuola.

lunedì 11 agosto 2014

Riflessioni ispirate da "La storia di una bottega" di Amy Levy

“I romanzi non sono la vita”, perché l'imprevedibile è un falso voluto dallo sguardo illuso e illudente del narratore. Se così non è il racconto si riduce a cronaca, ma questa non ha la vita dell'ispirazione. Ispirazione. Che cos'è l' ispirazione? Un soffio vitale accolto e trasformato, una relazione tra mondo e soggetto individuale che anima di sé l'illusione di un mondo parallelo. Comunque si collochi, interno o esterno rispetto al racconto, o persino nascosto nella polifonia narrativa, un autore respira tra le parole, non solo significati, ma rivoli sonori carichi di emozioni, affreschi palpitanti, guizzi di luce del pensiero che tenta il vero. Come quando nell'attraversamento di un paesaggio naturale lo sguardo cattura una fuga di alberi, l'ondeggiare variopinto di campi o il passaggio delle nuvole nel cielo, celeste o no, o il sussurro stellato della muta notte. Forme della materia vibrante che la parola tenta di comprendere con la sua vibrazione. È qui la relazione. Nella parola che prova e riprova a riformulare la realtà. Giovanni Verga soffrì l'esperienza dello sparire nello sforzo supremo di un'imitazione della realtà attraverso l'energia di una parola emanata dal farsi “da sé” del mondo narrato.

L'arte allora deve essere celata, affinché la forma viva. È questo il mistero della vita e dell'arte. Dove si accende la scintilla non è dato sapere. L'analisi di un testo recupera i passaggi tecnici di una creazione artistica, ma nel fare questa operazione l'analista, alla stregua di chi esegue un'autopsia, si ritrova tra le mani frammenti inerti di materia che solo l'ispirazione di un soggetto vivo aveva fatto palpitare della sua stessa vita.

Questo mistero è tentato in un romanzo di una narratrice inglese di religione ebraica morta suicida nel 1889 a ventinove anni. Il titolo dell'opera è “La storia di una bottega”, l'autrice, poco nota, è Amy Levy. “La storia di una bottega” è la storia di quattro sorelle che, in seguito alla morte del padre, per vivere sono costrette ad inventarsi un lavoro. Mettono su uno studio fotografico, e, dopo aver superato stenti e difficoltà, si affermano negli ambienti artistici londinesi dello scorcio finale dell'Ottocento.
La protagonista porta un nome severo, carico di sofferenza nei colori del suono: Gertrude. La vita di questa creatura letteraria è segnata di austerità e audacia. Aspira alla letteratura ma, incompresa, si dedica alla fotografia. Gertrude è un personaggio pieno di verità nell'incarnare la dolorosa divisione tra ruolo storico, pulsioni naturali, e spinte liberatrici della donna e del suo genio creativo.

Ma al di là delle istanze di un femminismo d'avanguardia, con Gertrude Amy Levy tenta il mistero dell'arte e del suo rapporto con la vita. E il tramite è la fotografia. Come se l'arte dell'obiettivo mediasse con l'arte vera e propria. 
L'osservazione è, pertanto, il motivo ispiratore della scrittura di Amy Levy. L'arte narrativa è in sordina come centro di riflessione all'interno del romanzo. Gertrude, infatti, riscuote il successo come fotografa, mentre i suoi tentativi letterari sono segnati dal fallimento.

Il successo della bottega di Gertrude avviene, in principio, tramite l'invito a fotografare quadri di artisti in voga. Viene creato così un gioco di specchi, il racconto della riproduzione fotografica della riproduzione pittorica della realtà
In tale gioco Gertrude si imbatte nell'antagonista: Sidney Darrell. Nella trama quest'ultimo svolge il ruolo negativo per la vita delle protagoniste fino ad essere coinvolto nella morte prematura di Phyllis, la più giovane e la più bella delle sorelle Lorimer. Ma Darrell è soprattutto l'antagonista dell'artista autentico così come è concepito da Gertrude, ovvero da Amy.

Una mattina di Marzo Gertrude va nella dimora “avvolta di malinconia” di Darrell. Entra in un ambiente “arredato con tutto lo splendore confusionario che distingue lo studio di un nuovo artista alla moda”. Tra gli arredi spiccano oggetti veneziani, in particolare un vaso di vetro che contiene tuberose, della cui fragranza l'aria è impregnata. È l'odore di morte che emana dallo stesso Darrell, esteta mortifero.
Forse non a caso Oscar Wilde lodò l'arte di Amy sulla rivista The Womans' World, nel 1990, dopo la morte della giovanissima scrittrice.

Nel confronto tra Darrell e Gertrude Amy mette in scena la distanza tra aisthesis ed estetismo, ossia tra sensibilità dello sguardo che coglie la profondità del reale e tecnica artistica raffinata, sapiente, ma priva di vita. Da questo drammatico confronto esce sconfitto l'estetismo di fine secolo, il dandy narcisista. Risalta al contrario la sensibilità femminile dal cui sguardo promana un giudizio severo in cui è implicita la tensione di Amy verso un'autentica ispirazione: 
“Il suo fine intuito femminile, affilato forse dal rancore personale, aveva fatto centro sull'uomo e sulla sua natura di second'ordine. Sotto l'arroganza e la convinzione di riscuotere indubitabili successi, lei leggeva i segni di una fame quasi vile di preminenza; di un'autocoscienza morbosa; di un'insaziabile vanità. E quanto a tutte le eccellenti doti della sua abilità professionale, non riusciva a intravedere nel suo lavoro le tracce di quelle qualità che, combinate con una maestria anche minore della sua, possono fare la grandezza”. 

Con questa intuizione di Gertrude Amy pone la questione dell'ispirazione artistica che, dal suo punto di vista, non può separarsi dall'autenticità della vita, dalla sofferenza del reale, sofferenza che ispira l'illusione, il mondo parallelo della creazione artistica, che da se stessa è consolatrice.
 Forse, proprio nell'inseguimento di questa illusione, Amy Levy consumò la sua vita.


venerdì 25 luglio 2014

Un giardino e due vite parallele

In tutte le culture del mondo esiste la metafora del giardino. Il giardino è una metafora che addensa molti significati. Il più noto è nel termine paradiso, che, derivato dal greco παράδεισος (paràdeisos) a sua volta importato dal persiano pairidaeza, significa giardino e designa uno stato di felicità e di pienezza. Il vocabolo giardino proviene, invece, dal francone *gardo. In entrambe le etimologie è insito il significato di luogo recintato. Paradiso e giardino evocano quindi un luogo in cui la natura assume forme armoniose fino a rappresentare la condizione di compiuta beatitudine.
Il giardino della realtà è, invece, una creazione dell'uomo. Come il poeta, il pittore e il musicista, anche il giardiniere crea sinfonie di forme e colori in un recinto ideale. Di quest'arte sono testimoni tanti giardini italiani. Quelli rinascimentali furono allestiti come delle autentiche architetture naturali ispirate da quell'ideale di equilibrio formale insito nel classicismo.

Ad inventare l'armonia nella natura dedica tutta la sua vita il protagonista di un elegante racconto, Memorie di un vecchio giardiniere, dello scrittore inglese Reginald Arkell, autore, tra l'altro, di opere musicali composte per il London Theater.

Herbert Pinnegar, è un trovatello fragile e zoppo che ama vagare nella campagna inglese tra le variegate specie di fiori selvatici. Un giorno decide di partecipare ad una competizione di composizioni floreali. È un bambino schivo quello che si presenta davanti alla giuria tenendo in mano un mazzolino di fiori acquatici raccolti lungo il vecchio canale di collegamento tra il fiume Severn e il Tamigi, meta abituale dei suoi vagabondaggi. A presiedere la giuria c'è una bella signora, la stessa alla quale Herbert è già apparso “barcollando sotto il peso di una sedia sdraio grande quanto lui”. Come nelle fiabe l'esito della gara è affidato ad una fata. Quando viene proclamato il vincitore del gruppo dei bambini, Herbert si stupisce fino a confondersi. Il primo premio tocca a lui. È stato scelto dalla bella signora per l'originalità della sua composizione di fiori acquatici. La fata ha riconosciuto una vocazione. Da questo momento il destino di Herbert si svolge legato a quello della signora del cui giardino si prenderà cura per tutta la vita.

Il racconto si snoda a ritroso. Prende inizio in una malinconica mattina d'autunno, l'ora e la stagione predilette dal giardiniere ormai vecchio che dal suo letto accanto alla finestra del cottage contempla il parco della Grande Villa. In quel giardino ha lavorato per tre quarti di secolo, guadagnandosi l'appellativo di Vecchia Gramigna. E in fondo il nomignolo gli si addice, perché “lui era una specie di pianta resistente”. Da questa contemplazione si dipanano i ricordi di Pinnegar e compongono la trama del racconto di Arkell. La memoria del vecchio giardiniere ispira fantasmagorie di colori che sbocciano da una gran passione per i fiori. Herbert ripercorre il cammino della vita tra variegate bordure di aiuole e di viali. Nelle serre si prodiga intorno ai germogli per far nascere golose primizie, come quelle fragole precoci, “perfette”, che in un mattino d'aprile profumano il tavolino da tè della signora Charteris, adagiate in una ciotola, tra la teiera d'argento e le focaccine imburrate. O come l' ipomea blu, fiorita in una cascata di boccioli sotto gli occhi incantati della signora che tanto aveva desiderato rivederla da quando l'aveva ammirata, per la prima volta, nel corso di un viaggio tra i giardini mediterranei della Costa Azzurra.
Sono vite parallele quelle della padrona della Villa e del giardiniere devoto, ma dotato di quella indipendenza testarda caratteristica degli artisti. Vite distanti e vicine, votate entrambe all'eleganza, la stessa eleganza che ispira la scrittura leggera e pregnante di questo narratore poco noto. L'eleganza è scelta esistenziale di discrezione e bellezza, e culmina in una solitudine piena di vita. Quella vita che si trasfonde nella cura di un giardino ammirato da tutta l'Inghilterra.
In queste solitudini affiora l'energia di un amore tacito, comune e reciproco, alimentato dalla comprensione e dal rispetto. Quando, scoppiata la prima guerra mondiale, anche sul giardino e sulla Villa si abbatte la violenza, Pinnegar assiste impotente e addolorato all'opera di una banda di giovanotti incoscienti e rozzi. Venuti per il recupero di materiali ferrosi necessari alla fabbricazione di armi, svellono e portano via dal grande terrazzo della Villa i “cancelli dal delicato traforo italiano”. Sotto gli occhi addolorati di Herbert “ dentro il camion, fra le pentole e i tegami arrugginiti, finì l'opera d'arte bella e superflua” di un artigiano mediterraneo”.
Le vite dedicate alla cura del giardino non sanno capire la guerra e la violenza. Le azioni di queste vite hanno la delicatezza di quei fiori che esse fanno spuntare e risplendere. La stessa signora Charteris, ormai anziana e fragile, mentre infuria il secondo conflitto mondiale, nei colloqui con Pinnegar sostiene che “se passassimo il tempo libero a curare dei fiori invece che a dire delle grandi sciocchezze, al mondo si starebbe molto meglio”.
Anche la conclusione rimanda alle vite parallele. Non si torna nel cottage da dove Herbert ha ripercorso la sua vita contemplando il parco. La storia si interrompe nel ricordo e termina con la visita del giardiniere alla sua fata, ormai relegata in un albergo sulla costa inglese. Ancora in forze Vecchia Gramigna, accompagnato dai nuovi padroni della Villa, porta in dono alla signora un cestino di fragole precoci. Lei non lo riconosce, tuttavia, alla vista delle primizie, si ricorda di quell'altro ormai lontano mattino d'aprile, quando nella sala del tè della villa aveva ricevuto per la prima volta quel dono germogliato dall'arte e dall'amore. E allora la signora Charteris traccia il ritratto compiuto del suo artista giardiniere a quello sconosciuto che l' ascolta con commossa meraviglia. 
Del resto è proprio la meraviglia delle anime sensibili e ignare di ogni azione volgare il significato più intenso di questo libro fiorito.






domenica 18 maggio 2014

Doni

Quando si apre una vecchia scatola, dove si sono riposti oggetti inutili, ci sorprende la vita.
Un paio di orecchini di conchiglie raccontano un sole giovane, bizzarro giorno dei vent'anni spalancati sul futuro da inventare. Le tenui linee delle volute parlano delle mani gentili che per me li scelsero in dono, pensando al mare. Come l'accendino, elegante linea, un vezzo inutile, che non arde più se non nella forma svettante e levigata di lacca rossa come l'affetto raffinato di una nobile amica.

I bigliettini d'amore delle figlie bambine, arabescati di segni insicuri e di surreali disegni. 

E una rosa, secca ma non appassita, brunita ma tuttora rossa, come il sentimento che la protesse per non lasciarla sfiorire. Una rosa intatta. Racchiuse nel boccio il patire, confortato da un sogno segreto e da commossa speranza. È spuntata dalla scatola imprevedibilmente, dono ancora vivo per l'amore che lo accolse e vi si trasfuse.


Ho riposto gentilmente la rosa tra i bigliettini d'amore filiale, fitti di acerbe, verdi scritture insicure, tracciate da piccole mani tese alla mamma allora distratta. È stata, di certo, la forza innocente dell'inconsapevole amore la custodia della rossa rosa, e della purezza del dono. 


mercoledì 14 maggio 2014

In principio sono gli occhi


-Sono un libro aperto- è un modo di dire di cui abbiamo perso il senso intenso e vero. - Sono un libro aperto - lo diciamo a qualcuno davanti a noi al quale chiediamo di leggerci. A volte siamo “un libro chiuso” e, allora, aspettiamo che un altro ci apra, e raccolga con gli occhi le lettere sparse della nostra storia. Aspettiamo un lettore che ci comprenda e ci racconti. Le lettere sparse, confuse, celate vanno raccolte. È necessario uno sguardo complesso, un amplesso di luce. La luce discreta di occhi che discernono e raccolgono, compongono, e raccontano con dolcezza.
“Amore” è un desio che vien dal core per abbondanza di gran piacimento” intonò l'inventore della forma sonetto Jacopo da Lentini, il notaio poeta della prima Scuola poetica italiana, che, in Sicilia, fu patrocinata dal grande Federico II di Svevia. Il cuore inventa quello che passa per gli occhi. Il cuore inventa nel senso originario latino di invenire, ovvero trovare. Trova ciò che raccoglie con gli occhi il cuore.

Mi sono sorpresa a meditare sulla radice del verbo leggere, leg- del latino legere. Sul momento mi è sembrato strano che la stessa radice nel greco legein significhi dire. E allora mi sono data da fare per cercare l'elemento comune. In entrambe le lingue il primo significato è quello di raccogliere, mettere insieme. La sorpresa del meditare trapassa nello stupore della scoperta: leggere e dire nella stessa etimologia! Raccogliere negli occhi il mondo, leggerlo, e dirlo. È come affermare che quando si legge si dice, e, viceversa, che quando si dice si legge. È una reciprocità meravigliosa, che ci riaccosta a quella lingua materna (di cui spesso dice un mio amico) nella quale si addensano i significati semplici, quelli della vita autentica. Spesso, invece, ci avvolgiamo in elucubrazioni affannate, ignorando la semplicità, la freschezza della lingua materna, la sua ingenua verità così aderente alle cose. Per questo, è importante educare a legere oculis ovvero a raccogliere con gli occhi (Cortellazzo e Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana) i segni sparsi nella materia vivente dentro e fuori di noi.

Raccogliere e comporre con gli occhi può essere un atto d'amore o una dolorosa scoperta. E amore e dolore risuonano nel dire allo stesso modo di quando in un libro, dopo aver raccolto con gli occhi le sparse lettere in parole amorevoli o crudeli, felici o strazianti, mentre le leggiamo le diciamo, ci diciamo. Se il cuore non è pietrificato.





sabato 29 marzo 2014

Pollicina va in paese


Mi piace che i luoghi mi diventino familiari. Ma non è solo l'andarci abitualmente che li rende tali. Sono i loro abitanti a farmeli amici. Nella libreria dove vado abitualmente sono a casa. Lì, i miei ospiti multicolori, adagiati sugli scaffali, mi accolgono in attesa di essere presi tra le mani, aperti, incontrati, ascoltati. Ma sono tanti tanti, moltissimi di loro ancora sconosciuti, sicché, appena entrata, sotto i loro sguardi indagatori, mi sento sempre un po' frastornata. Allora, d'istinto, mi volto verso il banco della cassa, in cerca dei visi noti dei giovani librai, che mi sono familiari, e che mi salutano amichevolmente, non appena mi vedono. Senz'altro ci accomuna l'interesse per i padroni di casa: i libri. Una ragazza, in particolare, mi accoglie sempre sorridente e, mentre cerca attraverso il computer il libro richiesto, se non c'è nessuno in fila, si intrattiene con me amabilmente. Qualche giorno fa sono entrata in questa libreria, sperando che fosse arrivato il mio ottocentesco Shirley. Sì, lo ammetto, sono una vecchia signora fuori moda. Ma dei miei gusti antiquati Emanuela non si scandalizza, anzi condivide con me tanti vecchi amori. L'altra sera mi ha mostrato il libro che avrebbe letto, “Via dalla Pazza folla” di T. Hardy, prima di comunicarmi che, ahimè, quello ordinato per me non era ancora arrivato.
Dopo averla salutata, non ho resistito al solito giro tra gli scaffali. Ho sbirciato le forme colorate, i nomi e i titoli. Desideravo l'attrazione fatale.

Azzurro, smilzo, agile, un volumetto mi si è offerto. L'ho preso. Non conoscevo l'autore, Michel Serres, se non per averne letto qualche citazione negli scritti di un amico. Il titolo è abilmente accattivante, Non è un mondo per vecchi. Mi sono sentita chiamata in causa direttamente, specialmente dopo aver letto la quarta di copertina: “il sistema scolastico, ma anche gli istituti della politica e della società spettacolo si ostinano a brillare come stelle morte da tempo, ignare della propria fine. Il mondo non sarà un posto per vecchi. L'ultraottantenne Michel Serres, epistemologo tra i più originali, registra sorridente quell'ineluttabile obsolescenza”.
Alla cassa, mentre pagavo, ho ammiccato ad Emanuela. Poi me ne sono andata allegramente. In poche ore il libro è stato letto.

Caro Michel, per restare a galla in questo mondo, si fa davvero di tutto. Fino a fingere l'ottimismo esasperato del buon Pangloss, sciorinando, tuttavia, quell'antica, vituperata, sapienza obsoleta, evidente fin dal titolo originale del tuo libro, Petite Poucette, letteralmente, Pollicina.
Il nomignolo eroico dell'antica fiaba viene così in aiuto dell'erudito storico della scienza, che se ne serve per designare i nativi digitali, dotati della rivoluzionaria competenza dei pollici, veri maghi del Nuovo Sapere. Lo scibile universale infinito, interconnesso, virtualmente innocente, accessibile tutto intero, senza fatica, e, soprattutto, oggettivo, è disponibile, hic et nunc, con un clic del pollice di quei “corpi decapitati” intenti al computer. Quando le Pollicine o i Pollicini accendono il computer hanno, infatti, le loro teste “ben piene”, recise, “tra le mani”, come San Dionigi, il vescovo dei primi cristiani di Parigi, il quale, dopo la decollazione, stando al racconto di Jacopo da Varagine, si rialzò e, presa la testa in mano, salì sul colle di Montmartre.

La divisione degli uomini in pessimisti e ottimisti è antica, ma non affidabile, come ogni drastica opposizione, del resto. I grandi sapienti e i poeti non sono mai riusciti a schierarsi ciecamente. Quante volte è stato detto da molti che l'avvento dell'età dell'oro era alle porte e che il passato coi suoi errori e dolori era morto per sempre! Tutte queste volte è accaduto qualcosa che ha fatto ricredere l'umanità. Tuttavia si sono dovuti ricredere anche coloro che si erano eretti a strenui difensori del passato, inteso come una conquista cristallizzabile. Il nodo è tutto qui: nel rischio che la fede cieca nel nuovo che avanza cristallizzi la realtà e la semplifichi come fanno coloro che, al contrario, arroccati nella fortezza del passato, difendono le certezze acquisite, le quali, per lo più, coincidono coi loro interessi. Questo rischio è sotto gli occhi di tutti gli uomini dalla mente libera e sgombra da ingannevoli certezze nel corso della attuale crisi mondiale, che non è soltanto economica.
Stando al racconto di Serres, l'avvento del sapere digitale porterà al crollo del sapere come potere centrale, statale e statico, fondato sulla forza delle competenze schiaccianti di pochi esperti sui molti inesperti e incompetenti.
Questa gerarchia, secondo il pensiero dell'accademico francese, è antica quanto la storia dell'umanità. A dimostrazione visiva della sua tesi, egli ci propone due costruzioni lontane tra loro nel tempo ma identiche nell'ergersi a emblemi della verticalità del potere, dell'oppressione di un vertice su una base, la cui ampiezza è la garanzia della stabilità del potere. Questi due edifici, costati entrambi lacrime e sangue, sono la piramide di Cheope e la Torre Eiffel.
Ebbene, l'epistemologo francese, concludendo la sua disamina, preconizza la fine del potere granitico e centralizzato e descrive il suo progetto virtuale. Pianterà proprio davanti alla Torre Eiffel un albero che catturerà, attraverso una "luce laser", le identità individuali codificate in un computer. Quest'albero luminescente, multicolore e mutevole oscurerà il rigido emblema di Parigi. Sicché, “di fronte alla Torre immobile, ferrosa, che porta orgogliosamente il nome dell'autore […] danzerà nuova, variabile, mobile, fluttuante, variopinta, tigrata, cangiante, intarsiata, musiva, musicale, caleidoscopica, una torre volubile fatta di scintille di luce clorata, che rappresenta il collettivo connesso [...]”.1

Credo che, talvolta, i vecchi pur di tenere la scena, blandiscano i giovani, spudoratamente, rinnegando se stessi. Anche io ripeto spesso che mi piacerebbe essere giovane per vedere tutte le cose belle che accadranno, ma non per questo annullo quelle della storia, personale e collettiva, che mi hanno fatta diventare quella che sono. Soprattutto non rinnego la materia e la carne. Credo che il mondo come sempre si trasformerà e verranno tempi migliori, fino alla fine del tempo. Anche questi pensieri confluiranno nei rivoli della rete e si fonderanno nell'oceano di parole, di suoni, di immagini. Ma, sono convinta che non si potrà fare a meno della comunicazione tra corpi in carne ed ossa. Piacerebbe anche a me trasformare lo spazio delle aule, allestirlo diversamente. Mi piacerebbe in primavera far lezione seduta in cerchio coi ragazzi, all'ombra di alberi, non virtuali. Ma non mi pare che la voce degli insegnanti sia necessariamente repressiva e autocratica. Tuttavia, neanche questo conterebbe. Conta invece la testimonianza di un sapere che costituisce la persona viva. È un sapere esiguo, limitato, ma portatore di umanità. Non mi piace l'immagine di colli mozzi, né di schiene perennemente inarcate al volante del computer. Solo un vecchio erudito e atterrito all'idea di scomparire può scrivere con tanta prolissa superficialità.

Quando penso al futuro, quello prossimo, perché ormai gli anni da venire per me sono una manciata esigua, immagino che siano ripopolati i paesi antichi sparsi sui colli, e nelle valli del nostro Bel Paese. Sogno la rinascita dell'agricoltura, dell'artigianato di ogni tipo e delle arti belle, auspico la rivoluzione di un'economia umana e cooperativa. Vedo una fucina di idee e progetti diventare ricostruzione, abbellimento di ogni angolo del pianeta.

 L'uomo è un viandante, è vero, ma ha la necessità di sostare, di intravedere l'oasi, il ristoro. Un viaggio senza fermate è un precipitare confuso, frenetico, misero. É bello l'andare, ma anche il tornare, e il ripartire. Si sa che in tanti antichi borghi sono rimasti solo i vecchi, custodi inamovibili di storie scritte sui muri cadenti. In questi luoghi mi piacerebbe che andasse Pollicina col suo sapere rivoluzionario. Quel sapere le cui virtù più splendide sono la vittoria sull'isolamento e la possibilità infinita di scambiarsi idee e progetti, in una rielaborazione perennemente feconda. Ecco la mia Pollicina, umile e saggia, in andirivieni tra siti in costruzione sulla terra. Una terra rinnovata dal pensiero etereo.





1Michel Serres, Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri

sabato 22 marzo 2014

La luce della neve nel cuore antico di Lucy Snowe

Per leggere Villette di Charlotte Brontë il cuore deve farsi landa candida di neve, il cui gelido bagliore di emozioni trattenute possa comprendere il cuore antico di Lucy Snowe (il nome è un ossimoro rivelatore, evocando ed accostando gli opposti campi semantici di “luce” e di neve”), narratrice interna ed eroina nivea del racconto. Se si è in grado di vivere questo contrasto, seduti in solitaria ombra, si scoprirà il mondo con la medesima perspicacia di Lucy, i cui occhi bevono luce dal cuore, un cuore educato a dominare il dolore precocemente vissuto. Sul cuore vigila, infatti, la mente, come sentinella ostinata delle passioni. Ma, in questo sforzo di compressione dei sentimenti e di volontaria rinuncia alla felicità, nell'illusione che il venir meno del desiderio preservi dalla delusione e, quindi, dall'infelicità, capita, talvolta, che la mente, assediata da una sorta di febbre, ceda. Allora, finalmente, Lucy sprigiona dal cuore sepolto nella neve quell'energia appassionata della sua anima anticonformista.

Nel passato di Lucy sono celati eventi dolorosi, che non vengono narrati, come se il pudore, custode della sacra intimità, trattenesse la voce e la penna.
Pudore e forza d'animo sono, del resto, le due virtù coltivate da Lucy. E queste virtù le permettono di scoprire la sua vocazione per l'insegnamento.
Nell'incipit del romanzo si è costretti a cercare un cantuccio in ombra e ad assumere, come fa Lucy, il ruolo di osservatori. Lucy, infatti, ancora adolescente, osserva il teatro della vita e ne intuisce le trame, che sono già compiute nella sua visionaria immaginazione. Lo sguardo analitico è sorretto dalla calda ispirazione che la natura ha elargito generosamente a Lucy, quasi per ricompensarla di quella mancanza di avvenenza tanto rimpianta in qualche pagina cruciale della narrazione. Ed è il rimpianto per la bellezza negatale dalla sorte a rendere umana e oltremodo femminile Lucy Snowe. In questi momenti, il ghiacciato pensiero, vinto dalle emozioni, si incrina, si scioglie la neve e denuda le passioni del cuore.
Un cuore siffatto mira alla contemplazione della bellezza e alla ricerca della verità. Ed è il cuore di una donna che, per vocazione riconosciuta e narrata, accompagna al compimento del loro destino coloro che si imbattono in lei.

Sicché, la sorte vuole che Lucy lasci l'Inghilterra e che, al di là della Manica, in una cittadina della Labassecour, l'immaginaria Villette, verosimilmente Bruxelles, sia assunta come insegnante di Inglese presso un educandato femminile diretto sapientemente da una donna astuta e calcolatrice, madame Beck.
A convincere madame dell'affidabilità di Lucy è monsieur Paul Emanuel, parente della direttrice e carismatico insegnante nella medesima scuola. Questo “ometto bruno e smilzo, con gli occhiali” è “l'arbitro del destino” di Lucy e il suo pigmalione. Monsieur Paul sa che la compostezza schiva di quella dimessa miss inglese cela e comprime il desiderio di un cuore ardente.
Ma Lucy non è una statua. È una donna libera e determinata. Lei che con mani tremanti e cuore in tumulto apre e legge le lettere amichevoli del dottor Jhon, nella consapevolezza, malinconica ma non invidiosa, che quell'uomo bello nell'aspetto e nobile nel cuore è destinato alla altrettanto nobile e bella Paulina, non trema davanti a monsieur Paul Emanuel. La relazione con lo stimato professore segna la crescita di entrambi e la reciproca profonda conoscenza. Questa relazione trascende la soddisfazione affettiva egoistica, e libera l'intelletto e il cuore dell'una e dell'altro. Entrambi, infatti, maturano la consapevolezza del loro sé autentico attraverso l'incontro e il conflitto, in un dialogo che è interessante anche sul piano interculturale. In questo senso il punto di vista dell'autrice mette in risalto il rigore etico e la libertà della fede del Protestantesimo a discapito del bigottismo oppressivo della Chiesa di Roma.
Questo punto di vista etico, tuttavia, non impedisce doni scambievoli che culminano nel dialogo conviviale fra Lucy e Paul Emanuel,  in una sera primaverile, allusiva di una rinascita, sul balcone fiorito di una graziosa casa di un faubourg di Villette. In questa casa monsieur Paul ha allestito una scuola per giovani educande, e ora, in procinto di partire per la Guadalupe, ne affida la direzione a miss Snowe.
Nello scambio di doni avviene il riconoscimento reciproco. E il riconoscimento trattiene in se stesso la riconoscenza. È questo il momento dell'inesprimibile: “la parola, fragile, non malleabile e fredda come ghiaccio si dissolveva o si spezzava nello sforzo” ( Charlotte Brontë, Villette, Fazi editore, p. 624).

Qualcuno ha scritto che i lettori di Villette restano delusi dall'assenza di lieto fine.
Non è così.
Charlotte Brontë sa essere visionaria. Celandosi in Lucy, guida il lettore in una traversata senza sponde sicure, e senza l'approdo. Perciò, il capitolo “Finis”, l'ultimo del romanzo, è affidato all'immaginazione del lettore che viene invitato ad inventare gli esiti di una tempesta sull'oceano, tempesta evocata da una scrittura più onirica che narrativa. La penna sembra infatti inseguire le immagini di un sogno, come per comunicare che ogni sostanza della vita, bene e male, dolore e gioia non sono che un sogno che cela qualcos'altro nell'immaginario non finito dello scrittore, o, forse, soprattutto del lettore. Il lettore, infatti, nel corso del racconto, viene ripetutamente apostrofato, come se fosse un testimone coinvolto negli eventi e prendesse parte alla stessa narrazione. In questa volontà di coinvolgere il lettore è distillata la sapienza sacra di Lucy / Charlotte, quella sapienza che trattiene l'emozione e la trasforma in attesa ispirata
“Fermati, fermati subito. È stato detto abbastanza. Non turbare nessun cuore tranquillo e buono; lascia che l'immaginazione speri ancora. Sia concesso di sognare la delizia della gioia che rinasce dal grande terrore, il rapimento della salvezza dal pericolo, il meraviglioso sollievo dell'angoscia, il godimento del ritorno. Possiamo immaginare anche il ritorno e la vita felice che seguirà”.


lunedì 20 gennaio 2014

Le fatate cenerentole del sesto piano

Come Cenerentola arrivo tardi alla festa e per giunta senza scarpette di cristallo. Ma in ciabatte e grembiule. Di soppiatto, mi sottraggo ai fornelli, e mi rannicchio sulla sedia a dondolo lì accanto, davanti allo schermo del televisore
Faccio partire la registrazione di un film uscito un paio d'anni fa. L'ho cercato ardentemente. Stesso regista e stesso attore protagonista del recente “Molière in bicicletta”. Quando m'innamoro di un'opera umana, brucio e cedo volentieri alla passione. E allora devo narrarla. Non per recensire l'opera. Del resto, i critici esperti, se non sono un po' poeti, non mi sono mai andati molto a genio. Racconto sommessamente e alla buona, tanto per … raccontarmi … in fondo.

Ecco, partono le prime immagini col titolo sovrimpresso: “Le donne del 6° piano” di Philippe Le Guay.

Arretro di cinquant'anni, stavolta, per finire al sesto piano di un palazzo parigino, dove si trova anche l'appartamento abitato da un “signorotto-mago della finanza” abitudinario e triste.
Il sesto piano è una sorta di "altrove", interno all'edificio stesso, riservato alla servitù, tutta femminile. Sono serve spagnole, che, a quanto pare, "andavano di moda" in Francia, soppiantando quelle bretoni, negli anni sessanta del secolo scorso (proprio come accade oggi, da noi, col susseguirsi di Filippine, Polacche, Ucraine o Rumene), emigrate per lavorare, ma anche per fuggire dal regime franchista, come testimonia una di loro, la rude Carmen, “pasionaria” comunista, impegnata a volantinare contro le dittature, nei momenti di libertà.
Sono donne autentiche, ingenue e forti, devote e appassionate, generose e accorte. Mandano avanti la casa di signore inconcludenti dell'alta borghesia francese. Volteggiano lievi tra gli acquai e i fornelli, fatate cenerentole dal tocco magico. Laddove si aggirano, tutto risplende e va al suo posto: brillano a specchio i mobili; l'argenteria riluce; si svuotano ceste di biancheria sporca; pile di indumenti accuratamente stirati finiscono in bell'ordine negli armadi.
Un bel giorno arriva in mezzo a loro anche Maria, dolcemente determinata, umile regina dei suoi sentimenti, irresistibile bellezza, adorna di crestina e camice impeccabili. Grazie a lei Jean-Louis, il signorotto, del palazzo - che meraviglia! - può finalmente gustarsi l'uovo à la coque cotto a puntino.
Da questa modesta gioia del palato inizia la metamorfosi del banchiere
Ma la metamorfosi, come è noto, passa per una “discesa” all'inferno attraverso un passaggio segreto. Il varco fatale per Jean-Louis è la porta sulle scale che, inerpicandosi lungo le pareti umide e sbrecciate, salgono, dal suo appartamento confortevole, fino al ballatoio del sesto piano. Qui si aprono le camere delle serve spagnole, che condividono l'unica stanza da bagno, col gabinetto alla turca intasato e maleodorante proprio come l'inferno. Qui dimora anche Maria. 
Va da sé che il mago della finanza si tramuti in benefattore per amore, conquistandosi la stima e l'affetto di quello sconosciuto universo di autentica femminilità.

Ma che importano la storia raccontata e la sua trama! Importa, invece, la compagnia della gioia alata di presenze lievi, nonostante i pesi della vita. Importano i colori inventati da una macchina da presa superbamente sensibile, che m'ha scaldato il cuore, pur rappresentando la crudezza del reale. Quel reale che, agli occhi incapaci di attraversarlo nella sua profondità, sembra l'inferno, e che, invece, può celare speranza di vita inaspettata, come scopre Jean-Louis quando osa esplorare l'ignoto, proprio lì vicino a lui, dentro di lui,  al sesto piano interno della sua casa.


giovedì 9 gennaio 2014

La perfetta solitudine di un misantropo contemplativo

La duna sabbiosa avvalla sulla riva deserta e incolore lambita dal vasto e sensuale scialbore del mare. In questo salmastro eremitaggio Serge, uno dei protagonisti del film Alceste à bicyclette (uscito in Italia col titolo Molière in bicicletta), si rifugia, ripetendo per l'ennesima volta una battuta della commedia Il Misantropo di Molière - ormai detestate l'umana natura… Sì per me è una spaventosa sciagura -.
In questa scena conclusiva, tuttavia, gli occhi ridenti e sereni di Serge, in contrasto con le parole desolate, dicono altro, dicono quello che suggerisce l'oceano dall'insondabile abisso, quell'oceano che nella sua interminata superficie ha accolto e confuso ogni definito colore. 

Questo mare ha, infatti, l'indefinibile colore del nulla e dell'eternità, il colore della perfetta solitudine

Il doppio linguaggio, delle labbra e dello sguardo, suggella, ma nello stesso tempo lo lascia aperto, il senso della storia sottintesa nei dialoghi del Misantropo, che Serge, ritiratosi ormai dalle scene, prova e riprova a recitare col suo amico Gauthier, attore ancora sotto le luci della ribalta, che gli ha proposto di portare in scena insieme a lui la celebre commedia di Molière.

Gauthier, infatti, annoiato dai cliché dell'ambiente dello spettacolo, aspira a un'aria nuova e fresca. Per questo va a stanare, nella piatta Île de Ré, vicino a La Rochelle, il vecchio amico e collega Serge. Serge vive in una vecchia casa selvaggia negli interni e negli esterni, un ambiente adatto ad accogliere una natura umana selvatica, che ha eletto la rude franchezza a sua unica regola di vita. 

Eppure, Serge è solleticato dalla proposta di Gauthier. Giocare il ruolo del misantropo Alceste  di certo gli offrirà l' opportunità di passare al vaglio la sua vita, o, per dire meglio, la vita.
Per Gauthier la rappresentazione della pièce è, invece, l' occasione di rinnovare la sua istrionica bravura. Perciò i due si contendono la parte del protagonista, giocandosela continuamente a testa o croce.

Il tema del doppio intrica lo svolgimento della storia. Serge e Gauthier sono contemporaneamente nella vita e sulla scena. Scena aperta e scena chiusa. La vita e il teatro.
La solitudine isolana aperta allo sconfinato oceano. La solitudine scenica chiusa dalla platea delle attese convenzionali.

Ma, mentre il teatro intrappola Gauthier nel ruolo di un Misantropo dubbioso, l'isola e l'oceano, simbolo ossimorico, liberano Serge alla solitudine spalancata sulla contemplazione.