venerdì 23 dicembre 2011

Buon Natale!

Una sequenza filmica sarebbe da riproporre per queste feste natalizie: lo scorrere delle immagini mute verso il finale di “Cuore sacro” di Ferzan Ozpetek, quando la protagonista si spoglia degli ornamenti e delle vesti, fino a rimanere nuda sotto gli sguardi curiosi e ad un tempo indifferenti, se non beffardi, della folla in metropolitana.
Le immagini raccontano una liberazione, quasi un excessus mentis, della donna, che, dopo aver inseguito la soddisfazione della carriera e del profitto, desidera la nudità.
L'allusione al gesto di Francesco che si svestì davanti al padre per amare “madonna povertà”, è chiara.
La nudità fisica prelude a una svolta radicale.
Non si tratta di privazione materiale. È il rasentare il piacere dell'assenza di ogni desiderio. Un affacciarsi sul vuoto dell'esistenza per ri-nascere “alle divine spiagge della luce”. Ecco, sarebbe desiderabile un Natale nudo, come il bambinello che nascerà in ogni uomo della terra. Occorre essere nudi per attendere la primavera. Nudi finanche della volontà di essere buoni. La bontà non si spande come lo zucchero a velo.
Nascere è “venire alla luce”; “ri-conoscere il mondo”. Non occorre la volontà. La luce risplende a chi nasce. Il divino brilla nell'umano. Basta così. Una nascita è di per sé buona e, lì dove avviene, regala gioia, non bontà. La gioia è buona. Vivere nella gioia è bene. E non c'è bisogno di lustrini, e atmosfere.
Niente di più triste delle luminarie esauste, la sera di Natale.
Niente di più splendido del firmamento attonito nel gelo, in ascolto del sospiro della notte che si dilegua.

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=cuore%20sacro&source=video&cd=6&ved=0CEYQtwIwBQ&url=http%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DVtG5Xm0S-eU&ei=xIT1TvntLYLj4QT93MmNCA&usg=AFQjCNH_Fr2FtuCDmowlty8GSrn_PLNGkQ&sig2=fjImqesTME30hU5BnQyCqQ

domenica 11 dicembre 2011

Le Illusioni e il Vento

Un mio amico poeta, che incontrai quando ero piccina, e che, non so come, di già in quel tempo lontano mi fece battere il cuore nella notte “dolce e chiara e senza vento”, turbandomi con un “canto che lontanando moriva a poco a poco”, afferma che illuso è quell'uomo che non ama le illusioni.


Le illusioni non sono chimere vagheggiate per stordirsi e sottrarsi al destino dei mortali e non promettono l'elisir di lunga vita in uno stato di perenne giovinezza. Le illusioni abitano una mente appassionata e generosa. Dal pathos si espande un canto lirico che si diffonde dal soggetto sul mondo. È un flusso di energia che mette in comunicazione entità che sembrerebbero reciprocamente incomprensibili. È lo stato della più alta creatività della mente sostenuta, quasi squarciata e sollevata nelle regioni dell'impossibile, da una passione incandescente.


Un tremito scuote il faggio। Un brillio di foglie mormora segreti agli occhi che se ne accendono e invitano l'anima alla danza aerea. Si illumina l'idea che è necessario rieducarsi al piacere, quello che non consuma e non si consuma. Un tuffo giù in fondo al cuore, là dove siamo anche tremuli faggi.


Gracchia la radio le quotidiane notizie sulla crisi e proclama che la classe media impoverita comprerà di meno e che di conseguenza l'economia non girerà.
Ci siamo finalmente! Il sistema capitalistico fagociterà se stesso!
Quanto devono essere infelici tutti quelli che non schiudono gli occhi sulle foglie danzanti nel primo brivido dicembrino!
Dalla radio ora minacciano la catastrofe italiana ed europea: Monti è corso ai ripari, ma i provvedimenti del Governo non piacciono ai sindacati che solleticano (demagogicamente) pensionandi e piccoli proprietari.


Mi chiedo dove fossero mai Bonanni e Angeletti quando si è scioperato ripetutamente contro il governo Berlusconi. E spero intanto che gli Italiani non abbiano la memoria corta.
Come cantava Claudio Lolli? Sì sì ecco: “vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”.
Siamo al punto in cui la borghesia, per niente perbene, porta a spasso le sue catene, incapace di “scrutare” oltre “un orizzonte che si ferma al tetto”.
Il mio amico poeta ci scriverebbe su anche lui un bel “canto”, oppure ripeterebbe beffardo che, sì sì, queste sono le decantate “magnifiche sorti e progressive” degli illusi che non amano le illusioni.
E intanto il faggio tremulo accoglie i soffi leggeri. Sarebbe bello se il vento soffiasse impetuoso e disperdesse le nebbie!
Che orizzonti si schiudono agli uomini che amano il faggio che si spoglia in autunno! Intravedono una primavera nuova e ne immaginano i fiori. Solerti pensano che è tempo di gettare nuovi semi, e non temono l'inverno.
È tempo di raccogliersi nell'intimità e di attendere che lì ritorni primavera.

Che soffi presto il vento!


“Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia per piccina che tu sia il vento un giorno ti spazzerà via".



domenica 11 settembre 2011

… addormentata nel bosco

Quante parole sono state spese sui significati reconditi delle fiabe! E da quanti e quali esperti! E se ne scrivesse qualcuna una donna che ha sperimentato e sperimenta le funzioni di più di una fiaba famosissima? Dissi di Cenerentola e ora voglio parlare del vissuto di Rosaspina, che è il nome della protagonista nella “Bella addormentata nel bosco” dei Fratelli Grimm, nome che preferisco ad Aurora, che appare in altre versioni del racconto, sebbene preannunci il risveglio della principessa e il messaggio stesso della fiaba. Mi piace tanto il gusto dolce-amaro, soave-pungente di Rosaspina. Per le dotte disquisizioni su questa fiaba rimando ai nomi illustri di Propp, Bettelheim, etc. Io vi racconto una parziale condivisione. Innanzitutto condivido in parte il nome della protagonista, quella finale, -pina. Poi ne rivendico uno dei due aggettivi qualificativi. No no, non bella, per carità! Su questo piano mi corrisponderebbe “Il brutto anatroccolo”, che aspetta ancora di diventare un cigno, nonostante un'età quasi veneranda. Non resta che “addormentata”. Oh sì! Il titolo potrebbe mutare in “Pina addormentata”. Quanto al “bosco”, passi pure. È noto che il “bosco” della fiaba sta per “vita”. Ecco, va bene così: Pina addormentata nel bosco. Chissà chi si dimenticarono di invitare alla festa dei miei natali mio padre e mia madre! Qualche mancanza dovettero commetterla, sicché qualcuno si adirò e predisse molto dolore. Per fortuna però qualche straordinaria benevola presenza mi regalò il sonno incantato e mi concesse di attraversare “il bosco” come in sogno. E non riesco a ricordarmi quando e dove e con che cosa mi sono punta cadendo in letargo!. Certo non si trattò del fuso di una vecchia megera! Forse accadde allorché, piccina, tra le dita maldestre cominciai ad imparare i lavori ad ago. O quando tentai di cogliere la rosellina rampicante dalla spalletta della vecchia fattoria sormontata dalla tubante colombaia. È certo, comunque sia andata, che nel sonno son caduta da sola, il reame intorno a me è rimasto ben sveglio, e per niente incantato. Mi capita, ogni tanto di imbattermi in qualche altro dormiente a occhi aperti e allora mi sento meno straniera. Avviene pure che il letargo diventi a tratti meno profondo, e allora sono colta da uno stupore straniante. Ma non dormo distesa come la Bella. Dormo in cosciente e solerte attività. Solo che vedo il mondo incantato dalla potenza della fiaba. E vado avanti sorretta dall'incantesimo. Nel bosco ora sono come Bambi senza la mamma, ora come Pollicino alle prese con l'orco. Mi ristoro nelle capanne dei taglialegna, su giacigli di fieno odoroso. Mi disseto alle fonti della mia immaginazione. E sui bruschi risvegli prevale l'incantesimo della fede nel bene che vincerà sempre sul male. L'incanto è davvero un dono! È una forza più grande di ogni potere. È l'ingenuità del “terzo figlio” delle fiabe, quello più sciocco e sprovveduto che ha la meglio sulla scaltrezza e il calcolo dei furbi! È un sonno che veglia sugli ideali, senza ragionamenti e programmi, l'attesa fiduciosa che il risveglio definitivo avverrà in un mondo d'amore, come simboleggia il bacio del principe che arriva dalla dormiente dopo cento anni di attesa. Non c'è risveglio senza lo smarrimento nella “selva oscura”, senza la discesa al centro di se stessi, dove brilla per tutti la stella più lucente.

domenica 14 agosto 2011

Idillio di Ferragosto

D'agosto l'estate è stanca . È per questo, forse, che tutti fuggono via. È urgente dimenticare la fine imminente. Il silenzio regna nell'aria immota. Le associazioni caritatevoli si danno da fare per gli anziani e i poveri che non vanno in vacanza. Come se soltanto il chiasso e la folla fossero sufficiente ad alleviare i disagi. Al contrario, il chiasso e la folla confondono la miseria. Il silenzio e lo svuotamento la svelano.
Ma chissà che la miseria non sia nella folla e nel chiasso e nella voglia illusoria di negare la realtà! Chissà che non si possa andare "in vacanza" anche senza partire!

Si rallenta il ritmo consueto e ci si perde nella contemplazione di un cielo diverso, nel silenzio. Le cure si dissolvono nelle strade deserte. Prevale il desiderio di coltivare i sentimenti repressi che ora si dilatano, liberi, nella solitudine. I mattini si svegliano vacanti e sorridono dell'attesa di ore sconfinate. È una sospensione passiva da godere. Sarebbe peccato non esserne consapevoli!
Quest'agosto è poi ancora più sospeso e morente. Pare che stia per dissolversi un intero mondo. E i vacanzieri in fuga non ne potranno ignorare il tramonto.

Giova in queste albe pallide e raccolte aspettare una rinascita. Gli occhi che non contemplano ameni luoghi sono beati! Quella grata rugginosa confitta nel tufo scalcinato li solleva nell'azzurro uniforme, laddove si disegnano paesaggi mirabili. Nel vuoto precipita l'effimero. Dal vuoto emerge tutta la bellezza possibile. E la respira e l'accoglie tutto il corpo con le mani protese a forme nuove di un nuovo mondo. Risuonano nel silenzio sensi nuovi nel suono di parole obliate nella loro bellezza. È un ritorno al suono che scoprì il mondo. Si giunge a questo stato stupefatto per sottrazione di significati. “Sobrietà” della vista e dell'udito! È un itinerario verso la “povertà” che non è la “miseria”! Un ritorno all'essenzialità e alla bellezza della vita nuda. “Nudità” dello spirito sgravato dei bisogni e dei desideri forzati. È un essere presenti alla realtà, la “sorella realtà”.
La grata rugginosa esiste e gli occhi non possono negarla. Come non possono negare il muro scalcinato dell'opificio in rovina che un tempo risuonò dell'alacre opera umana.

Ignorano la rovina gli uccelli che si posano sul cornicione ingrigito per spiccare il volo, zirlando e zufolando nell'azzurro indifferente.

giovedì 7 luglio 2011

Ci concedano le Muse un nuovo canto elegiaco!

Si vorrebbe talvolta che scrivesse il cuore e allora si invidia il musicista che sa trasfondere la sua elegia nella musica, senza bisogno di parole. Quando l'essere ondeggia nel vuoto del pensiero si ferma ad un tratto sui significati appresi e si sorprende delle corrispondenze. Elegia! Antico significato che affiora col suono alla mente. Elegia! La parola si distende lieve nelle prime due sillabe assonanti, e quasi grida dolorosamente nella tensione della “i” il cui acuto attenua e quasi spegne il suono greve della “a” finale. Mi ricordo dell'etimologia, quella appresa da ragazza: “ἒ ἒ λέγε!”(Ohimè ohimè canta!) Ecco, elegia è invito al canto come lamento del sentire! Infatti l'elegia è da ascrivere al genere lirico, di cui costituisce la forma più antica. Questa etimologia la preferisco a quella più veridica che fa derivare il vocabolo da “ ἔλεγος “ , il “canto accompagnato da un flauto”. In ogni caso, l'elegia è l'effusione di un sentimento triste, un lamento del cuore. Il metro dell'elegia è il distico elegiaco, ovvero una coppia di versi, di cui il primo è un esametro, il secondo un pentametro. L'elegia apparve in Grecia intorno alla metà del VII secolo a. Cr. . Il sentimento dell'elegia arcaica è intriso di amore per la Patria e per la Giustizia.
C'era una volta in cui le Città Stato elleniche affidavano al canto dei poeti sia la difesa della Patria che l'educazione dei cittadini alla Giustizia. Il poeta elegiaco più antico fu l'efesino Callino che, nella prima metà del VII secolo, prese parte alla lotta delle città ioniche contro il popolo nordico dei Cimmerii.
Ma tra le voci più possenti dell'elegia arcaica è annoverata quella del saggio Solone. Nato ad Atene da una nobile stirpe intorno al 634 a. Cr., dopo aver viaggiato molto durante la giovinezza, Solone tornò nella città natale e intraprese la carriera politica. Fu arconte e promosse la σεισάχθεια, ovvero il provvedimento dello “sgravio”, grazie al quale abolì il debito ipotecario. Successivamente attuò la riforma dello Stato ateniese, con la quale tentò di abbattere lo strapotere delle famiglie aristocratiche. Le nuove leggi incise su prismi di legno, ἂξονες , furono collocate nel Pritaneo. Inoltre le stesse furono esposte in pubblico, leggibili da tutto il popolo su pilastri di pietra detti κύρβεις. È rimarchevole la differenza con certi ministrucci di oggi, arroganti, saccenti e persino reticenti dinanzi alle legittime richieste di informazione. Solone, invece, cantò in forma elegiaca la sua opera di politico e di legislatore. Erano quelli i tempi dei sacri vati che, da allora in poi, sono stati venerati da tutti i lirici cultori della poesia civile e del canto di verità condivise. Nell' “ordine del cuore”, infatti, ogni uomo della terra antepone ad ogni altro valore il senso di equità e di giustizia.
E, forse, il nostro tempo è così triste perché non sorge il canto di un saggio Solone o di un animoso Tirteo, il poeta che da Mileto , verso la metà del settimo secolo a. Cr., si recò a Sparta, dove i cittadini lo accolsero con entusiasmo e, obbedendo ad un oracolo, lo elessero comandante dell'esercito nella guerra contro i Messeni.
Le antiche leggende tramandano la sacralità delle arti custodite dalle Muse.
Calliope è il “dolce labbro” dell'epica e dell'elegia. Il suo nome vuol dire infatti “dalla bella voce”.
Torniamo a invocare la Musa! Addolcisca lei le nostre labbra perché modulino un canto collettivo di civiltà .
Ed anche chiamiamo presso di noi le Cariti, Aglaia la splendente, Eufrosine l'allegra e Talia la rigogliosa. Le tre ancelle di Afrodite “dal trono variopinto”, rinnoveranno doni di Grazia e Bellezza per gli esseri umani. E allora la Poesia rinascerà! Gli uomini andranno per le loro città cantando un'elegia di fraternità! Saranno svelte le grate dal cuore, e dalle case. La vita accoglierà la Giustizia. E tornerà, finalmente la stagione dell'Εὐνομία (buongoverno), voluta dal cuore!
Ciascun uomo è un poeta e in gran parte tiene nelle sue mani il destino civile.
Più bello fa il mondo intorno a sé l'uomo che accompagna con la melodia del cuore l'opera sua.
Fare e cantare a un tempo è necessario per ottenere gloria e benessere in questo mondo. E, se si intonerà la poesia della relazione, il benessere sarà condiviso nell'ecumene.
La lirica greca delle origini risuonò come un “flauto magico” trascinante per i cittadini delle Πόλεις. E di certo, ancora oggi gioverebbe cantare la preghiera di giustizia rivolta alle Muse della Pieria dal saggio Solone! Bisognerebbe intonare questa elegia a voce spiegata nelle piazze italiane, per ammonire i tracotanti che governano oggi l'Italia: “le opere di Hybris non durano a lungo”!

Splendide figlie di Mnemosine e di Zeus Olimpio,
Muse Pierie, la preghiera mia ascoltate:
fate ch'io ottenga ricchezza dagli dei beati
e ch'io goda sempre buona fama presso gli uomini tutti;
ch'io dolce sia agli amici, amaro ai nemici,
gli uni mi rispettino, gli altri tremino.
Ricchezze io desidero, ma farne ingiusto acquisto,
no, non voglio: sempre, poi, giunse Dike (Giustizia).
La ricchezza donata dagli dei resta salda
dall'infima radice fino alla cima;
quella che s'acquista con Hybris (tracotanza) senz'ordine
procede; anzi, obbedendo, l'ingiusto operar
malvolentieri segue; presto le si mescola Ate (Rovina);
dal poco ha inizio, come il fuoco,
insignificante prima, - rovinosa ha fine, poi;
ché le opere dell'Hybris non durano a lungo.
Ma Zeus sul fine di tutto vigila; all'improvviso,
come presto disperde le nubi il vento
di primavera, e dell'impetuoso mare infecondo
i fondali sconvolge, e sulla terra copiosa di messi
distrugge i bei seminati, e dall'alto cielo, sede degli dei,
sale, e di nuovo torna il sereno;
risplende sulla fertile terra del sole la forza
bella, e nessuna nube più si vede.
Così di Zeus è la vendetta, né per ogni cosa,
come i mortali, s'adira, né mai
gli sfugge chi il cuore ha malvagio,
e infine, comunque, si manifesta;
ma chi paga subito, chi dopo; e se qualcun
gli sfugge, né il celeste destino lo coglie,
poi, comunque giunge; innocenti pagano i loro
figli, o i discendenti, in futuro.
Tutti noi mortali - buoni o cattivi - nutriamo
una ben grande opinione di noi stessi
prima di un danno; allora son pianti; fino a quel momento,
bocca aperta, godiamo di vane speranze.
E chi da gravi mali è oppresso, pensa
questo: che tra breve guarirà;
uno che è vile crede d'esser prode, bello
chi non ha una forma graziosa;
uno che è povero, oppresso dalla sua miseria,
crede che, prima o poi, ricco sarà.
Chi s'ingegna di qua, chi di là; chi erra sul mar pescoso
sulla nave, sbattuto da venti contrari,
affannandosi a riportare a casa un lucro,
pericolo di vita correndo;
un altro, la selvosa terra dissodando, per un anno
serve, a chi stanno a cuore i curvi aratri;
chi, - apprese le opere di Atena e di Efesto -,
valente artista, si guadagna la vita;
chi, dalle Olimpiadi Muse nei doni istruito,
i modi conosce dell'amabile scienza;
chi profeta fu fatto dal lungi-saettante sire Apollo,
conosce le sventure che da lontano all'uomo
gli dei inviano; ma dal destino non liberano
né un auspicio; né sacrifici;
chi di Pane, ricco di rimedi, l'arte conosce,
è medico, e neppur per lui la fine è sicura;
spesso da un piccolo dolore nasce un gran male,
né alcun coi blandi farmaci calmarlo può;
chi da gravi morbi è afflitto, presto guarisce,
basta toccarlo con le mani.
La Moira ai mortali il male e il bene reca,
nessuno può sfuggir i doni degli dei.
(Solone, I Diehl)

sabato 21 maggio 2011

Emerenc e Magda: paesaggi e stagioni dell'anima e della Storia

Letta l'ultima pagina, chiudo di colpo il libro. Mi guardo intorno...disorientata. Resto per un bel pezzo altrove, nel mondo del racconto, in compagnia di presenze fantastiche. Le interrogo e rimugino sulle loro storie. Sono a tu per tu con “Emerenc”, indiscussa e indiscutibile protagonista del romanzo La porta, di Magda Szabò. Batto le dita sulla tastiera del computer come fa, sulla macchina da scrivere, l'autrice. L'ungherese Magda Szabò si è raccontata nel dialogo antagonistico con Emerenc al ritmo palpitante e nei chiaroscuri fulminei di uno stile che sbalza le forme del mondo dai recessi dell'anima , e, come un bulino, le incide in sequenze vive e veloci. La scrittura scolpisce volti e oggetti, sui quali la memoria indugia per evocarne squarci di storie legate da un filo misterioso.
In principio e in fine è un sogno
: una porta non si apre nonostante gli sforzi dell'io narrante, ansioso di salvare qualcuno che giace al di là di quella porta. Il risveglio è doloroso e carico di rimorso a causa di quanto, ormai, è inesorabilmente accaduto. Solo una confessione può attenuare il tormento: “devo ammettere che Emerenc l'ho uccisa io. Volevo salvarla, non distruggerla, ma non posso tornare indietro e cambiare le cose” (Magda Szabò, La porta, Einaudi, p.9 ).
E così prende avvio il racconto di un'amicizia straordinaria, come un percorso di espiazione e purificazione, un viaggio nei bisogni profondi che danno vita e forma alle relazioni d'amore.
La storia è ambientata in Ungheria, in un quartiere di Pest, tra suggestivi interni domestici, nei quali si respira l'atmosfera degli anni cinquanta del novecento, ed animati esterni, lungo viali che si snodano tra caseggiati popolari e qualche villa. Il tempo va e viene nelle stagioni scandite dalle attività molteplici e incessanti di Emerenc. Soprattutto va e viene l'inverno nell'immagine ricorrente di Emerenc che spazza la neve. Ma ogni tanto fa capolino la primavera con Emerenc intenta a sbucciare i piselli o a recidere rose.
Emerenc portinaia, cameriera, spazzina, all'occorrenza terapeuta straordinaria del corpo e dell'anima! Emerenc dalle mani fatate, che fa il bucato e prepara dolci meravigliosi!
Linda e ribelle, rigorosa e anticonformista, anarchica e ligia, misteriosa e trasparente, generosa e brutale, sempre instancabile, Emerenc divide l'umanità in due categorie: i lavoratori, che sono quelli che sanno maneggiare la scopa, e gli intellettuali, mistificatori, fasulli, come la giovane ed ambiziosa intellettuale di cui porta avanti la casa. Eppure, quella scrittrice “inutile” e scombinata, Emerenc l'ama come la figlia mai avuta. Del resto, Emerenc è “condannata” ad amare, di un amore totale, uomini e bestie. Quello di Emerenc è amore espresso nei gesti concreti e più usuali della donna, ha il sapore dei suoi cibi profumati, il nitore dei viali da lei spazzati, della sua biancheria inamidata, la lucentezza dei pavimenti delle case da lei governate. Emerenc ama senza condizioni, eppure è lei che detta le condizioni, in ogni relazione: esige discrezione e rispetto totale per il suo “mistero”.
Emerenc incarna anche la storia tormentata dell'Ungheria nel novecento. Il romanzo di Magda Szabò è difatti un accesso alla Storia di questo paese attraverso le memorie della protagonista. I drammi della storia del novecento sono frammenti di vita di questa donna che, tacitamente e gratuitamente, ha salvato dalla deportazione e dalla morte coloro che si sono imbattuti sul suo cammino.
La porta è anche un racconto degli oggetti. Le porcellane, i cristalli raffinati, ma anche i soprammobili chic, evocano ambienti e storie, sono gli emblemi di una grandezza decaduta, le reliquie di un mondo in decomposizione, come la stanza segreta di Emerenc, come la stessa Emerenc, ostinata a resistere alla nuova civiltà, fino a desiderare di morire nella lordura.
In fondo, la “porta” è l'emblema di una soglia sul mistero incomprensbile di Emerenc e della vita in sé. Non a caso la stanza più intima della casa di Emerenc, la camera ostruita da una gigantesca cassaforte, rivela gli arredi preziosi di un'era splendida, ma perduta. Lo splendore di una vita passata che, appena sfiorata, si polverizza come per incanto. Nella trama del romanzo baluginano, dunque, vita e morte, ordine e caos, lindore e sozzura, strato su strato, nel tempo e negli spazi.
A tratti mi ha affascinato persino lo sfacelo della malattia, il lezzo della morte, con un'attrazione fatale, come se da quel lerciume potesse sorgere qualcosa di fiorito, di roseo. Miracolo di una scrittura sensibile che mi ha scossa, continuamente, con l'energia sprigionata dai gesti comuni, dal lavoro faticoso, umile e indispensabile della vita quotidiana.
Ho amato Emerenc e la sua fisicità così spirituale! Ma ho amato anche la scrittrice in cerca di se stessa, “Magduska”, come la chiama amorevolmente Emerenc sul finire della sua storia e del racconto.
Magda è fragile e forte, osservante e dubbiosa, creativa e pragmatica, carrierista e tenera sposa, disordinata e organizzata. Magda è il nuovo che ama il vecchio. Ama soprattutto la vecchia Emerenc e quel suo potere granitico che la soggioga. A Magda Emerenc affida la “chiave” della sua porta. Per lei illumina i misteri del suo cuore. Perciò questa potente narrazione illumina la continuità storica, ma frastagliata dai mutamenti e dal tormento che essi comportano, tra un passato noto e rassicurante, seppure segnato dal dolore, e un presente mobile, sfuggente, insicuro ed insidioso, che, per sussistere, ha bisogno delle fondamenta solide della memoria.
La porta è anche un racconto del "sacro" autentico. Emerenc, dissacrante, irridente verso i riti e le regole della religione, è un'icona del sacro. La sua vita è consacrata alla salvezza degli altri, e la sua morte dovrà accogliere in un'unica magnifica tomba le ceneri della dispersa sua famiglia. Ma il compito di edificare questa sorta di mausoleo è affidato a Magda. E Magda ha esaudito il desiderio: le ceneri del passato sono custodite dalla scrittura, “un monumento più duraturo del bronzo”, edificato con la materia dell'amore.

sabato 30 aprile 2011

Le bistecche

La cortina della nebbia era calata sul paese antico. Nel silenzio di intima quiete di una lunga sera d'inverno, sul lastrico del vecchio corso Soccini, risuonava lo scalpiccio dei rari passanti imbacuccati e si udivano le amichevoli voci di saluto che si scambiavano. La luce dei lampioni si dilatava come per incanto nel fumo della nebbia. Ogni tanto si sentiva qualche chiave girare nella toppa e un uscio che sbatteva. Le finestre si illuminavano ad una ad una. Maria e la sua mamma erano sole in casa. La mamma era appena tornata dalla macelleria. Aveva comprato quattro bistecche per il pranzo del giorno di festa seguente, e ora le riponeva sul davanzale esterno della finestra della cucina per conservarle al freddo della notte. L'appartamento si trovava in cima ad una ripida scala, al primo piano di un antico edificio, che sorgeva di fianco alla porta medioevale del borgo antico del paese. Il pianerottolo si allungava in un andito buio, in fondo al quale la scala continuava a salire fino al secondo ed ultimo piano dove, in un altro minuscolo appartamento, abitavano Ada e Tullio, venditori ambulanti che giravano per i mercatini dei paesi circostanti con una giardinetta verde scuro stipata di rotoli colorati di tessuti modesti, del cui commercio la coppia viveva. L'appartamento di Maria si apriva alla fine della prima rampa di scale, a sinistra. Da un minuscolo ingresso si accedeva alla cucina e alle due camere, la sala da pranzo e l'unica stanza da letto. Maria era una bimba bruna di cinque anni, dagli occhi vivaci e pensosi ad un tempo. Quella sera giocava con la sua bambola e, come al solito, girovagava inconsapevole coi sentimenti nella confusione dei suoi pensieri infantili. La mamma di Maria era una donna mansueta e saggia. Di statura non alta e dalle forme dolcemente tonde, aveva il volto sempre rischiarato da un franco sorriso, un segno certo del suo appagamento nel dedicarsi all'amorevole cura di quella figlioletta dei cui riccioli bruni era fiera. La signora Giovanna era una donna semplice, ma con il cuore palpitante di sogni da realizzare nella sua bambina.
In quel tranquillo silenzio invernale, madre e figlia se ne stavano intente alle loro occupazioni, in cucina, ognuna per conto suo. L'una si trastullava vezzeggiando la bambola, l'altra sedeva pensosa a rammendare.


La cucina era una stanza quadrata dipinta di celeste. Alla parete opposta a quella nella quale si apriva la porta di legno laccato di bianco era addossata la credenza giallo chiaro, con gli sportelli dell'alzata recanti al centro una specie di ventola fissa, che forse serviva ad arieggiare. Nell'angolo della stessa parete era installato l'acquaio di pietra granitica. Accanto a questo, a destra, due staffe di ferro reggevano una lastra di marmo di Carrara su cui erano poggiati i fornelli. Il vano sottostante era chiuso tutt'intorno da una allegra tendina a quadretti gialli e blu. Sulla parete contigua una finestra rettangolare dalle persiane marroni si affacciava sulla via principale del paese, stretta e fiancheggiata da antiche case di pietra. Guardando a sinistra, si intravedeva la torre merlata del palazzo comunale, la cui facciata era decorata da stemmi marmorei e da una lapide che ricordava che lì si era fermato Arrigo VII di Lussemburgo. Al centro della stanza era posto il tavolo rettangolare di legno laccato come la credenza. Intorno al tavolo , ornato al centro da un vaso di vetro sfaccettato, erano disposte quattro sedie la cui seduta nascondeva contenitori nei quali trovava posto ogni sorta di cianfrusaglie.
Nell'intima quiete dell'inverno, in quella stanza rischiarata dalla luce dorata di una lampadina schermata da un piatto di opaline gialla, si percepiva il sereno appagamento di una comunione di sentimenti. D'un tratto il trillo del campanello fece sollevare lo sguardo della signora Giovanna e di sua figlia. Negli occhi di entrambe si leggeva la sorpresa per una visita inaspettata. Ma, forse, si trattava della consueta capatina frettolosa della signora Fiorenza dell'appartamento accanto, o dell'affettuosa coppia del piano di sopra, Ada e Tullio, che Maria chiamava affettuosamente zio e zia. Zia Ada e Zio Tullio, al ritorno dai mercatini dei dintorni, di sera, erano soliti irrompere gioiosi e non senza un dono gentile per quella bimba che, siccome non avevano figlioli, vezzeggiavano come la loro “piccinina”. La mamma posò sul tavolo il rammendo che aveva tra le mani e andò ad aprire. Maria udì lo scatto del lucchetto nella serratura e il cigolio della porta che si schiudeva nel silenzio ininterrotto. Non risuonarono parole di saluto, né altro. Con il cuore in attesa la bambina si alzò e si avviò nell'ingresso. Sua madre stava immobile e tacita, appoggiata alla porta spalancata. Maria avanzò accanto a lei fino alla soglia. Illuminata dalla luce giallognola della lampada che pendeva dal soffitto grigio del pianerottolo, nel vano della porta, una donna avvolta in uno sdrucito scialle nero tendeva la mano destra alla mamma e con la sinistra stringeva quella di una bimba smunta e triste. Nel silenzio due donne si guardavano negli occhi accanto alle loro creature. “Chi sono, mamma?” - mormorò ansiosa Maria - “povere mendicanti...forse zingare" - rispose la signora Giovanna con voce incerta e turbata, carezzandole i riccioli bruni.
Maria non comprendeva la parola “zingare”. Ma, mentre le venivano in mente alcune fiabe che la mamma era solita raccontarle, intese il senso di “povere” e di “mendicanti”. Di poveri mendichi ne aveva incontrati tanti in quelle storie! E ogni volta che aveva immaginato quelle scene, era stata colta da un penoso turbamento e dal desiderio di aiutare quelle creature immaginarie. Maria sentì che ora era entrata in uno di quei racconti, e che a lei era toccata la parte della principessa capricciosa, mentre le pareva che la sua modesta casa si trasformasse in uno degli sfarzosi castelli delle favole. Sentì un brivido attraversarla e il cuore palpitare. D'un tratto il tremito si sciolse nelle lacrime d'un pianto irrefrenabile. Sua madre smise allora di fissare le sconosciute e, dopo aver chiuso frettolosamente la porta in viso alla donna, prese a consolare la figliola.
“Hanno fame, mamma?”chiese Maria tra le lacrime che le carezze materne non sapevano asciugare.
La signora Giovanna china sulla figlia che si stringeva al petto non rispose. Poi, all'improvviso, sollevò il capo, scostò dolcemente la sua piccola e, senza dire una sola parola, si affrettò alla finestra, la spalancò, afferrò l'involto con le bistecche e corse giù per le scale dietro alla sconosciuta che lentamente si allontanava tenendo la sua bimba per mano. Maria la seguì e si fermò sul pianerottolo da dove, in fondo alle scale, oltre la soglia dell'ultimo gradino, si intravedeva la strada. Mentre sua madre consegnava all'altra madre l'involto, Maria sentì su di sé lo sguardo silenzioso dell'altra bambina. I loro occhi si parlarono. Poi, tenuta per mano dalla madre, la bimba si voltò, scomparendo nella nebbia. La signora Giovanna cinse la sua piccola con un braccio e, stringendosela al fianco, risalì pensosa le scale e rientrò in casa. Ora Maria non piangeva più. Lentamente, la sensazione di acuto dolore si attenuò e cedette ad un vago malessere.
Era l'avvertimento di un sentimento indefinibile che la segnò per sempre.
Il mondo dei giochi infantili aveva incontrato per la prima volta quello dell'ingiustizia dei grandi.

giovedì 21 aprile 2011

Ombre della Lanterna Magica

Mi è piaciuto Habemus Papam di Nanni Moretti. È una metafora delle prigioni in cui le vite umane si lasciano rinchiudere. La rappresentazione è tuttavia segnata da una regia intrisa di “pietas”, perciò si esce dalla sala come sollevati e pervasi da un sentimento di pietosa accoglienza verso se stessi e verso gli altri.


Mi sembra che il film ci metta davanti a due strade: l'una conduce alla prigione dei ruoli, professionali o istituzionali, nella quale si cerca scampo all'angoscia nelle droghe (siano esse tranquillanti, dolci succulenti o stordenti giochi solitari), e nelle risposte rassicuranti del linguaggio - “formula magica”, semplificante e risolutivo, della psicanalisi, come lo stesso Moretti, nella parte del dottore, suggerisce con la sua voce, quasi fuori campo. L'altra strada, aperta all'avventura della vita, si snoda imprevedibile nel teatro del mondo.

La trama del film è poeticamente intertestuale. Il mio vissuto ne ha colto due citazioni.
La prima è implicita nella “peripezia” della trama: la fuga per le strade di Roma del papa, sul cui sguardo mite e inquieto insiste la macchina da presa, mi ha ricordato quella della principessa ansiosa di vita (Audrey Hepburn) in “Vacanze romane”. Ma la “favola” diretta da William Wyler si conclude malinconicamente, perché la protagonista, dopo un tuffo inebriante nel brulichio della vita, torna alla responsabilità del suo ruolo, rinunciando all'amore. I passi di Gregory Peck, che rimbombano solitari sul pavimento di marmo, scandiscono l'addio e la distanza incolmabile tra il Palazzo e la vita.
La seconda, esplicita ed emblematica, consiste nella stessa “peripezia” della vita – teatro, e rievoca “Il Gabbiano”, il dramma metateatrale in cui Anton Čechov rappresentò le sconfitte causate agli uomini dalle “passioni tristi”. Ma le due citazioni nel film di Moretti sono rovesciate nel senso e nell'epilogo. Infatti, il protagonista non torna nella dorata prigione, si libera dell'angoscia e si avventura sorridente nei “giochi” della vita.

Infine, vorrei soffermarmi su quella sequenza allusiva, lievemente misteriosa, che mostra “l'ombra” di un “Papa che non c'è” scivolare al di là di una tenda ondeggiante alla finestra. Migliaia di occhi sono appuntati a quell' “ombra” illusoria. Per me è questo il momento poetico del film: l'evocazione ambiguamente affascinante del gioco d'ombre della “lanterna magica”, e del “vano” oltre le maschere dei ruoli e della personalità .

domenica 17 aprile 2011

E buio sia!

La situazione politica, sociale ed economica dell'Italia è stata ormai illustrata analiticamente dalla penna di intellettuali, filosofi, politologi, economisti ed esperti del diritto. Ancora stamattina, nel corso della trasmissione Uomini e profeti condotta da Gabriella Caramore sul terzo canale della radio, ho ascoltato parole limpide ed accorate della pensatrice Roberta de Monticelli che, ricordando “la leggenda del Grande inquisitore di Dostoevskij e richiamando severi giudizi di Leopardi, metteva l'accento sull'attuale stato di inerzia degli Italiani che sembrano rassegnati a rinunciare alla libertà, alla stregua di bambini persi nei loro infantili trastulli. Mi sembra quindi inutile ripetere un approccio analitico all'attuale quadro politico e sociale italiano. Voglio piuttosto accostarmici con immediato sentire ed esprimere la preoccupazione e l'indignazione che provo. Ogni giorno sono disgustata e offesa dall'arroganza cieca e spudorata della classe politica che ci governa. Sono avvilita dallo spregio del diritto, dalla ostentazione della ricchezza che compra tutto e si esalta con sfacciata indifferenza sotto gli occhi dei poveri, che si tratti di cittadini italiani o di profughi disperati, costretti da ineludibili necessità a lasciare la patria. E tutto questo accade nello sbando generale del popolo, nello scollamento totale della politica dell'opposizione, incapace di creare un canale di comunicazione con i cittadini, efficacemente alternativo a quello tradizionale. Assistiamo così al viaggiare nella “rete” di infinite proteste civili. Ma queste sembrano restare prigioniere, e si esauriscono in uno sfogo consolatorio, talvolta frustrante. Del resto, le pur coraggiose iniziative del “popolo viola”, nate appunto nella “rete”, si sono impaludate in manifestazioni ormai stantie, esaurite nell'emotività, e, tutto sommato, riproducenti modelli di feste collettive liberatorie ma poco incisive, attraversate dalle divisioni e dalle inevitabili incrinature del “movimentismo” e, infine, facilmente oscurabili. Ecco, quello che mi spaventa è quest'oscuramento che ci piomba addosso, insieme al silenzio. L'Italia è al buio e zittita.

Sulla scuola pubblica, garanzia di espressione di coscienze libere e critiche, che si esercitano nella creazione di conoscenza attraverso lo studio del patrimonio culturale umano, in orizzonti sempre più ampi e interconnessi, dopo la scure della "riforma", si abbattono ora sinistre ripetute minacce.


Temo il buio e il silenzio. Ogni volta che il Primo Ministro della Repubblica italiana, o qualsiasi altro componente di questo Governo, è costretto a giustificare provvedimenti legislativi contestati da altre parti politiche e civili , ripete immancabilmente che l'operato del Governo è sostenuto dalla volontà del popolo italiano. Se è così, voglio dire a chiare lettere che io non faccio parte di questo popolo. No, non parlano nel mio nome questi ministri. Tuttavia è bene ricordare che parlano solo nel nome di una parte di Italiani, circa la metà dei votanti di tre anni fa, e, forse, oggi anche molto meno della metà. Ma, comunque sia, è sopportabile che quell'altra metà di cittadini italiani, che non concordano con la politica governativa, sia vilipesa quotidianamente e condannata al buio e al silenzio? Nelle mie disperate elucubrazioni tento possibili squarci di luce, vie liberatorie di voci di protesta.

Ecco la mia idea. Urliamo al buio il nostro dissenso.

Muoviamoci nella rete per concordare una data e un' ora in cui abbassare il contatore dell'elettricità almeno per quindici minuti.

Pensate: milioni e milioni di italiani al buio! Chi potrà oscurarli?

Quell'oscurità brillerà più di qualsiasi giornata di sole! Sarà più eloquente di qualsiasi orazione! Una resistenza al buio! La sconfitta dei sondaggi! Nessuna contesa numerica!


Mi viene ora in mente uno straordinario vecchio film di Terence Young, Gli occhi della notte, in cui Audrey Hepburn, nelle vesti di una impavida cieca, si difende da tre delinquenti facendo il buio nella sua casa. È stupefacente vedere come un limite, in questo caso la cecità, si trasformi in possibilità di salvezza! Ebbene, come cittadini possiamo fare lo stesso. Quindi, se non vogliamo vivere in una città di ciechi che hanno smarrito ogni senso di umana virtù, come accade ai personaggi del terrificante racconto “Cecità” di Saramago, spalanchiamo gli occhi in questo tempo buio.

E buio sia in un tempo concordato!

Chi potrà oscurare il buio?

mercoledì 13 aprile 2011

Madri di Speranza

Quando penso a mia madre è come se la vita che alimentò nel suo grembo si rinnovasse in me. Non solo mia madre mi diede alle “divine spiagge della luce”, ma mi ispirò, pur nel breve cammino della sua vita, l'energia della fiducia. Non conosceva la disperazione mia madre. Le difficoltà quotidiane erano come una sfida da accettare sorridenti. Il mio sorriso è il suo: un'impronta della speranza nella mia anima. A pensarci bene, il dialogo con mia madre non si è mai interrotto. L'alba che la vide chiudere gli occhi, molti, molti anni fa, mi accompagna con la luce della fiducia nel giorno che verrà. Inconsapevolmente, nelle scelte minute del quotidiano, come in quelle più importanti della mia vita, dialogo con mia madre. Da queso intimo colloquio mi sento come guidata a contemplare, sempre, la luce.
Non potrò mai dimenticare quanto le piaceva ascoltarmi recitare la poesia A mia Madre di Edmondo De Amicis:

Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni:
mia madre ha sessant'anni,
e più la guardo e più mi sembra bella.

Non ha un accenno, un guardo, un riso, un atto
che non mi tocchi dolcemente il core;
ah, se fossi pittore,
farei tutta la vita il suo ritratto!

Vorrei ritrarla quando china il viso
perch'io le baci la sua treccia bianca,
o quando, inferma e stanca,
nasconde il suo dolor sotto un sorriso

Pur, se fosse il mio priego in ciel accolto,
non chiederei del gran pittor d'Urbino
il pennello divino
per coronar di gloria il suo bel volto;

vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei,
veder me vecchio, e lei
dal sacrificio mio ringiovanita.

E mi ascoltava con gli occhi lucenti di gioia, fiera della mia grazia un po' leziosa, più che commossa dal senso dei versi. Del resto, lei era ancora giovane, così lontana dalla canizie e dal fatidico traguardo dei sessanta!

Il tempo passa e la storia continua. Così si è svolto il filo della mia storia intrecciandosi ai fili di tanti destini.

Oggi sono una mamma ancora in cammino, eppure mi sento così poco madre!

Mi ricordo di un romanzo di una drammaturga libanese, Abla Farhoud. Narra di una donna, analfabeta e sottomessa, che, rimasta giovanissima orfana di madre, emigrata dal Libano in Canada col marito e cinque figli, ormai anziana, libera la voce e affida la sua storia alla penna della figliola scrittrice. Il titolo del libro è emblematico, “La felicità scivola tra le dita”. Contemplate questa immagine: mani delicate che sfiorano i sogni nel fluire della vita. È il tocco gentile della protagonista che, con lieve sentire, si avventura per i sentieri della memoria e lungo il suo vissuto relazionale. Anche i percorsi più dolorosi sembrano alleggeriti dalla narrazione liricamente malinconica. Mi si è stampata nella mente un'affermazione in particolare: “forse la donna privata della madre in tenera età non sarà mai pienamente madre”. Mi ci sono sentita in questo pensiero. Esprime una condizione che vivo. O sarà solo un'illusione delle parole...”madre”...”figlia”? C'è qualcosa di più che non so spiegare. Un senso di generosità verso la vita stessa, la generosità dell'essere donna, figlia e madre allo stesso tempo. È una forza tutta femminile, una forza lieve, impalpabile come le sete predilette, la forza della grazia che è il suggello della donna. Una grazia assoluta e impenetrabile che trattiene la donna sempre sul “limitare di gioventù”, nonostante il trascorrere degli anni, che nulla possono sottrarre a questa grazia e che semmai le conferiscono una assorta sorridente malinconia. Chi può dimenticare la “vecchierella” leopardiana che siede sulla scala a filare “Incontro là dove si perde il giorno; / E novellando vien del suo buon tempo, / Quando ai dì della festa ella si ornava, / Ed ancor sana e snella / Solea danzar la sera intra di quei / Ch’ebbe compagni dell’età più bella.”? È una immagine della “bellezza” che completa quella della “donzelletta” che avanza a passo di danza volgendo le spalle al “calar del sole”.
Madre e figlia e nonna è Dounia, la protagonista del romanzo “ la felicità scivola tra le dita”. E mi sorprende la compresenza degli stati della vita in questa donna che mantiene la freschezza sentimentale e la speranza, pur essendo presente nel quotidiano coi gesti più familiari alle donne, le carezze amorevoli ai nipoti, la discreta partecipazione alla vita della figlia, emancipata e indipendente scrittrice di successo.
E questa figlia diventa la narratrice di Dounia, la madre analfabeta. La figlia accoglie in sé la storia della madre, ne incarna le parole e dà voce alla speranza.
Chissà! Forse non è importante tanto sentirsi madri, quanto raccontare storie ispiratrici di speranza.
“La felicità scivola tra le dita”, ma la gioia della speranza è uno stato aperto al divenire della vita!

giovedì 31 marzo 2011

Caddi nel tempo un meriggio d'estate

Caddi nel tempo un meriggio d'estate.
Falciato il grano, soli nel sole i campi.

Nell'aria immota il canto roco
delle cicale scavò il silenzio.

Trepide mani a sera mi vestirono
la bianca camiciola della luna
di maree mutevole sovrana.

lunedì 14 marzo 2011

Voglio bene ad Alessandro Manzoni!

Che tempo il nostro! Gli eventi si accendono improvvisi e repentinamente evaporano e si liquefanno. E così le emozioni esplodono al tam tam mediatico per poi subitamente dissolversi e cadere nell'oblio, non trovando fertile memoria in cui possano sedimentare e trasformarsi in sentimenti di valori costitutivi dell'essere uomini.

Ma perché scrivo? O meglio, perché si scrive? Credo che si scriva per l'accendersi dei sentimenti o per l'illuminarsi di una idea. La scrittura risponde al bisogno di distillare nei segni, prima a se stessi, l'avvertimento dei moti del cuore, o di mettere in ordine le immagini e i concetti di un' idea. A meno che non si scriva per arido esercizio retorico, come perlopiù si insegna a scuola. Quando poi i moti e le urgenze del cuore si trasformano in creature fantastiche, in immagini tangibili, allora la scrittura diventa poesia.


In questi giorni quante parole suggerisce il revival risorgimentale!
Per me non può essere che un piacere! Nelle felici aule della mia infanzia, delle quali ho parlato altrove, ho imparato tutti gli inni che, improvvisamente rispolverati, risuonano ora dovunque.
Mi ricordo anche di aver dovuto mandare a memoria, in quarta elementare, Il Giuramento di Pontida di Giovanni Berchet che, misero lui, piangerebbe oggi di dolore venendo a sapere della trasformazione simbolica subita dalla Lega dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa per opera di Umberto Bossi e compagnia.

Da parte mia, prima che risuonasse la fanfara risorgimentale dei centocinquanta anni dell'Unità, ho sempre proposto lo studio della poesia romantico - risorgimentale. Del resto la nostra grande lirica romantica è tutta intrisa di quello spirito.
Tralascio il fuoco eroico e le Muse “del mortale pensiero animatrici” delle brucianti parole poetiche di Ugo Foscolo per soffermarmi sulla voce universale di un poeta della giustizia, del dolore, della fede, degli “umili” riscattati, della lingua della chiarezza da opporre alla lingua degli imbroglioni azzeccagarbugli, aiutanti meschini dell'illegalità e della protervia del potere. Parlo di Alessandro Manzoni, nipote del grandissimo Cesare Beccaria, un'altra gloria italiana, ma soprattutto un paladino dei diritti universali degli esseri umani.


Quando leggo il Coro dell'atto terzo della tragedia Adelchi, voglio bene ad Alessandro Manzoni. I versi nascono da ragione e sentimento unanimi. E l'amor di Patria non è retorico né nazionalista. Lo sguardo del poeta si posa addolorato su un “volgo disperso che nome non ha”. Dal dolore nascono le parole. Amaramente il poeta considera il tralucere della “fiera virtù” dei padri dai “guardi dubbiosi, dai pavidi volti”, fieri delle loro “superbe ruine”. Il sentimento patrio del Coro non è disgiunto dagli ideali dell'Illuminismo, dei quali gli occhi della fede hanno ampliato l'orizzonte, in una prospettiva storica dal respiro metafisico, mai rassegnato, ma sempre animato dall'ardore di un militante della giustizia, hic et nunc.
È per questo che la voce manzoniana sa essere satiricamente sferzante verso “il volgo disperso”. Questa forza vorrei per dire agli italiani che non basta sventolare il tricolore, cantare gli inni ed esaltare le nostre “superbe ruine” a rinnovare il coraggio e le speranze per l'Italia. È necessaria una eroica volontà, laddove ogni giorno siamo noi a decidere la nostra azione, per opporsi all'ingiustizia, all'illegalità, alla prevaricazione e all'arroganza di una cultura sempre più espressione di quel “pensiero unico” che ci concede i sussulti emotivi di un giorno, ma poi ci imbavaglia e ci schiaccia con le logiche dei sondaggi e delle percentuali, con i contentini gettati al “volgo disperso” come l'osso ai cani affamati.

La memoria è sacra, ma può essere sterile rievocazione, retorica manifestazione, se non alimenta il desiderio di una rinascita autentica, se non accende “il forte animo a egregie cose”, a testimoniare che non “un volgo disperso” ma un Popolo unito spera, e crede che libertà, giustizia e solidarietà, siano i valori fondanti dell'Italia.

Coro dell' atto terzo della tragedia Adelchi di Alessandro Manzoni

Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.

domenica 13 marzo 2011

Mammole e Margherite

L'altrieri Margherita s'è chinata
sull'erba del giardino, sparsa
di fiori della timidezza.

Di me memore, mammole ha raccolto
in un delicato mazzolino.

Dal bicchiere adagiato sull'acquaio
mi sorridono quiete le viole.

Sussurrano degli occhi di pervinca
di Margherita
la mia e la lor gentile amica.

domenica 6 marzo 2011

Le brume di marzo

Le brume di marzo profumano di biancospino
e velano conche muschiate molli di mammole.

Le brume di marzo sognano una caduta all'indietro
alle soglie di pietra brillante
dove un cancello di tortili ferri barocchi
cigolando s'apre ad un ignoto giardino.

Un frullo alato palpita nell'intrico dei rovi
grondanti perle di rugiada
e alita tra i rami ingemmati d'incerto verde
e tra impazienti corolle bianco rosa
dischiusesi ardite nell'aria
che non sa più dell'inverno
né ancora sa di primavera.

Nell'assoluta bellezza di un varco ignaro.

Limitare del sogno che non si schiude
gemmato di acerbe rose, gelose
di sbocciare, contente dell'attesa...
nelle brume di marzo.

giovedì 3 marzo 2011

La voce umana: sprofondamento ed elevazione


Gli armonici della voce umana sono il suono del silenzio, la comunicazione autentica.

… Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare. (G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta).

Leggete questi versi e fermatevi sulle vocali, badando alle arsi, ovvero alle posizioni forti sulle quali cade l'accento ritmico.

… èo i eéo
óe à a oèe aa oàa;
óai a aàa,
e iào ea àe i iúe aàe

È rilevante la prevalenza delle vocali aperte dal tono grave. Risuona la “a” sedici volte, undici la “e”.

Poche sono le vocali chiuse dal suono cupo: sette volte la "o", solo due volte in arsi, in “rómpe” e in “sgómbrasi”, dove però hanno l'effetto di un colpo su un tamburo, quasi ad annunciare un evento straordinario.

Una sola volta la “u” , e per di più nello scivolare del dittongo di fiú-me che incede nello “slargo” lento, aperto e maestoso - “aàe” - di “appare”.

Cinque volte la vocale “i”, e di queste volte per ben due forma un dittongo: -ià (chiaro), -iú (fiume). In questi dittonghi risuonano in arsi la “a” e la “u”.

È facile ora ascoltare in questi versi un “largo” festoso, un “canto dell'essere” che annulla il confine tra l'interiorità dell'io e il mondo esterno, tra il desiderio vitale e l'esplodere della vita nell'universo.

La parola poetica è un suono che squarcia i folti nembi e ne trae la luce.

Eppure intuisco che il suono vocale degli esseri umani è sempre un “canto dell'essere”.

È per questo che ho letto appassionatamente Il canto dell'essere” di Serge Wilfart, edizioni Servitium.
“Nato in un paesino belga”, Serge Wilfart trascorse l'infanzia nella paterna fabbrica di molle, “circondato dalle molle, dall'avvolgersi infinito delle spire”. Alla morte del padre fu colpito dal rivelarsi della “voce wagneriana” di sua madre: “ il giorno del funerale [...] mia madre gettò un grido, uno solo – il lungo urlo di un animale strozzato”. Dopo aver frequentato diverse scuole, Serge approdò al conservatorio per apprendere il canto lirico. Fu attraverso quella esperienza che egli concepì l'idea che la voce autentica degli uomini sia come bloccata e stravolta, inibita da “ un sistema di comunicazione puramente cerebrale”. In seguito a questo convincimento, Serge Wilfart, ha abbandonato l'attività di cantore per dedicarsi a quella di insegnante. Oggi egli è diventato “un professore di voce […] una specie di liutaio che ricostruisca al tempo stesso lo strumento e il musicista”. E in effetti in tutto il suo scritto Wilfart sostiene che, per recuperare la voce autentica, “canto dell'essere”, bisogna percorrere il sentiero che penetra nell'interiorità, fino a raggiungere quella profondità donde emana il suono viscerale dell'essere personale. Perciò “il professore di voce” insiste ripetutamente sulla necessità di recuperare la capacità di sondare i suoni gravi della “a” soprattutto, e della “e”, perché la prevalenza delle emissioni della acuta e alta “i” manifesta l'oppressione delle gabbie imposte da un'educazione essenzialmente cerebrale, che impedisce all'io di comunicare col proprio centro di gravità, e di esprimere la pienezza dell'essere.
Bisogna scendere nelle viscere e da lì risalire per elevarsi eretti tra cielo e terra.
"Sprofondare nella “a” e tendersi nella elevazione della “i”.

Lentamente ho attraversato la trama del testo “Il canto dell'essere”. Dall'immersione nelle parole di questo libro riecheggia la profondità della voce umana. Sempre gli accordi bassi mi hanno fatta vibrare, come un tremito davanti all'abisso. Perciò, da questa immersione è vibrata un'intuizione, un affondo nel suono stesso, un anelito a scendere in quella profondità da cui il suono emerge libero, e si propaga all'infinito.

Nel fondo profondo, con il tonfo grave di un corpo greve che affonda nell'insondabile profondità del mare: “e il naufragar m'è dolce in questo mare” (G. Leopardi. L'Infinito).

E di seguito un altro sprofondamento grave risuona: “Trasumanar significar per verba / non si poria” (Dante, Paradiso, I, vv.70-71).
Ascoltate:
“trasumanar significar per verba” è un affondare in se stessi trascinati dalla sonorità grave delle cinque “a”, delle quali ben due sono in arsi.
Ascoltate ancora:
non si poria” è un risalire con l'acuto cristallino della “ i” in uno iato tesissimo.
Ecco, è questo il suono dell'uomo eretto in comunicazione piena tra terra e cielo.

domenica 6 febbraio 2011

Ritorno alla femminilità


In questi giorni si grida che la donna è offesa dal potere e si chiamano le donne a manifestare in difesa della loro dignità.
Un moto di interiore rivolta mi scuote. È un sentimento dell' “essere donna” che non cede alle proteste degli slogan: fiammate di indotta indignazione non scalfiscono la protervia del potere e non ne commuovono la miseria.
Ci sono sentimenti dell' “essere” intolleranti di aggettivi ed argomenti. Come il sentirsi donna.

Il silenzio della compostezza e lo sguardo della verecondia sono essenza della femminilità.
La femminilità è ineffabile. Un tocco divino incurante dei canoni e delle stagioni.
Un mistero seducente.
La femminilità non si ostenta e non si difende. È raccolta e intangibile. È una grazia. Si manifesta e semina sgomento. La femminilità è anche maschile. È una fragilità forte che abbatte la tracotanza, “che abbassa orgoglio a cui dona salute”. La femminilità ignora la dignità perché non necessita d'altra virtù.

Come donna aborrisco la difesa della donna. È una condiscendenza che non tollero e che mi opprime quanto la turpitudine degli scellerati. La fragilità di Lucia vinse la violenza dell'Innominato.

Come cittadina coltivo l'indignazione per ogni atto di tracotanza compiuto ai danni di chiunque, e chiedo giustizia alle leggi della Polis.

Il potere la sa lunga. Blandisce la donna e ne fa una sua aiutante, solletica diabolicamente “l'emancipazione femminile” e la converte in “brama di potere”.
Commisero le donne “del” e “di” potere!
E mi intristiscono le amanti del glamour televisivo che si spendono in arringhe difensive della femminile dignità con spietatezza sfrontata verso altre donne.
Forse è questo il momento di ri-conoscersi in rivivificanti percorsi di autocoscienza femminile, per essere nel mondo animatrici di un vento nuovo, di una brezza rigeneratrice.

domenica 30 gennaio 2011

Pensieri erranti intorno alla Filologia


Avete mai sentito parlare di John Chadwick e di Michael Ventris? Sono due signori britannici che esercitarono il “mestiere” del filologo. Ventris in realtà era un architetto prestato alla Filologia con una gran passione per le civiltà protostoriche dell'Egeo nell'Età del Bronzo. Mi riferisco alle Civiltà Palaziali, note col nome di Civiltà Minoica o Cretese e Civiltà Micenea. La Civiltà Minoica fiorì a Creta nel secondo millennio avanti Cristo. Si chiama Civiltà Palaziale perché il centro politico, amministrativo e religioso era un palazzo dalla struttura complessa e razionale a un tempo. Gli esemplari dei Palazzi minoici si possono oggi visitare, a Creta, nei resti di Cnosso, Festo, Mallia e Haghia Triada. Quello di Cnosso è noto come Palazzo di Minosse ed anche come “Labirinto”. Il Labirinto di Cnosso evoca il mito dell'architetto Dedalo, del Minotauro e di Teseo e Arianna. Eppure il termine "Labirinto" ha come etimo il vocabolo greco "λάβρυς" (“labrys”) ovvero la bipenne, simbolo sacro ripetutamente disegnato sulle pareti del palazzo di Cnosso. Del resto, il termine "λαβύρινθος" (“labyrinthos”) si ritrova anche nelle tavolette in lineare B nella forma “da-pu-ri-to”. Come salta agli occhi dalla parola “da-pu-ri-to” traslitterata nel nostro alfabeto, la Lineare B è una scrittura sillabica che proprio John Chadwick e Michael Ventris decifrarono negli anni cinquanta del secolo scorso, scoprendo che essa celava un dialetto greco preomerico, ovvero la lingua degli Achei Micenei, e, quindi, dei mitici Atridi, dei quali, un secolo prima all'incirca, nelle rovine della peloponnesiaca Micene, Einrich Schliemann aveva scoperto le tombe e le auree maschere funebri.

La scrittura lineare B gli indeuropei Achei l'avevano appresa dai contatti con il mediterraneo popolo minoico. Infatti, negli archivi dei Palazzi minoici sono state rinvenute miriadi di tavolette d'argilla tracciate da una scrittura chiamata Lineare A, tuttora non decifrata, che cela una lingua sconosciuta.
Chadwick e Ventris riuscirono a decifrare la Lineare B ipotizzando che in essa si celasse un dialetto greco. Avevano ragione! E così, grazie a loro, la lingua omerica è stata illuminata storicamente sul piano lessicale e morfologico, rivelandosi come una straordinaria voce continua, eco mirabile che ha valicato i secoli bui del medioevo ellenico, come un ponte sonoro tra gli uomini di Agamennone e i cittadini delle Pòleis nascenti sulle coste dell'Asia Minore.

È bene a questo punto sapere che le tavolette in scrittura lineare contengono solamente elenchi di cose e persone e costituiscono, pertanto, una documentazione amministrativa dei Palazzi. Ribadisco che, grazie ai due filologi sopra nominati, noi siamo in grado di leggere soltanto i testi redatti in Lineare B, ossia quelli attribuibili agli scribi degli agguerriti palazzi micenei. L'alfabeto della scrittura Lineare B è sillabico. Un alfabeto sillabico è quello i cui segni non rimandano ad un suono semplice, ma ad un suono sillabico. Ciò comporta che, necessariamente, le scritture Lineari siano costituite da molti segni, una ottantina circa nel caso della Lineare B. Comprendiamo, quindi, quanto sia stata importante l'invenzione dell'agevole alfabeto di ventiquattro lettere che, intorno al nono secolo avanti Cristo, i Greci d'Asia mutuarono dai Fenici, perfezionandolo con l'aggiunta delle vocali. A questo alfabeto, appreso successivamente dai Romani grazie alla mediazione etrusca, risalgono tutte le scritture europee.

Mentre scrivo battendo sui tasti del computer mi stupisco di questo racconto che tenta di attraversare una traccia essenziale della millenaria storia della scrittura. Mi stupisco soprattutto del lavoro paziente dei filologi che dedicano la vita alla ricerca e allo studio dei testi. I filologi fanno risuonare la voce del passato. La decifrazione della Lineare B ci permette di dar vita a parole antichissime che, con lievi mutazioni fonetiche, sono attestate nei poemi omerici. Per esempio, nelle tavolette micenee di Cnosso e dei siti dei Palazzi del Peloponneso compare il termine “wa-na-ka” (è questa la traslitterazione della parola scritta in Lineare B attestata nelle tavolette). Wa-na-ka designa il personaggio al vertice della gerarchia direzionale della società micenea. È il re per eccellenza, superiore a colui che nei poemi di Omero è chiamato con il termine greco corrispondente “ἂναξ” (“anax”) [ricordiamo che Agamennone con una espressione formulare è detto “ἂναξ ἀνδρῶν” (“anax andròn”), “signore degli uomini], e allo stesso “βασιλεύς” (“basilèus”), il termine con il quale Omero designa il “re”.

Le mie annotazioni non possono essere esaustive sull'argomento della Filologia Micenea. In proposito i lettori, se lo vorranno, potranno documentarsi a partire dal fondamentale articolo intitolato "Evidence for Greek Dialect in the Mycenaean Archives" di John Chadwick e Michael Ventris.
Piuttosto, dopo aver svegliato la memoria del lavoro filologico dedicato alla scoperta di antiche civiltà, mi soffermo a considerare come la scrittura serbi i suoni nel tempo. La traccia convenzionale dei segni cela suoni e sensi. La Filologia è la scienza dei testi, è l'arte di interpretare con rigore, umiltà e amorevole cura i testi del passato per restituire il suono autentico delle parole. Il filologo si mette per i sentieri della storia a partire da quei segni che decifra e interpreta. Pertanto, mi sembra che la Filologia muova le onde sonore impresse nel tempo. La Flologia è una scienza del “sacro”. E, a tal proposito, ricordo il valore sacrale delle prime scritture e l'eccezionale importanza degli scribi nel mondo antico. E sacra mi pare la parola stessa: "Filologia", ovvero "amore della parola", equivalente ad amore dell'umanità. I pensieri erranti sfociano nella speranza che si torni in tanti a dedicarci a questa Scienza, diffondendone il desiderio tra le giovani generazioni.
Siano le sacre parole di una poetessa l'epigrafe conclusiva del mio testo!

Una Parola fatta Carne è di rado
E tremando condivisa
Né forse allora riportata
Ma non avrò dunque sbagliato
Ciascun di noi ha assaporato
Con estasi segreta
Proprio quel dibattuto cibo
Secondo nostra specifica forza -

Una Parola che respira chiaramente
Non ha potere di morire
Coesiva quanto lo Spirito
Può spirare se Egli -
"Fatto Carne e vissuto tra di noi"
Fosse condiscendenza
Come questo consenso del Linguaggio
Quest'amata Filologia
(Emily Dickinson,Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, p. 1666)