giovedì 22 agosto 2013

Pensando a Moritz Erhardt, lo studente tedesco morto a Londra

Un mattino d’aprile, la osservo mentre, smilza e agile, si muove al check-in dell’aeroporto di Capodichino. Si imbarcherà per Londra. Vuole lasciare l’Italia. Gli studi li ha finiti, ormai. Ha concluso di corsa anche il biennio per la laurea magistrale. I capelli di un castano dorato ondeggiano sul cappuccio orlato di pelliccia del piumino. Il bel viso mobile tradisce l’ostinazione di dire addio a Napoli, che lei è determinata ad odiare per i problemi antichi che tutti conoscono. Londra è per lei l’isola che non c’è, il luogo della realizzazione, o, forse, della liberazione. Evita di guardarmi. Anche se non l’ho trattenuta, lei sa che io penso che tornerà presto, dopo un’esperienza lontano da casa, un’esperienza che, sono sicura, le gioverà. Mi imprimo nella mente i suoi movimenti di esperta viaggiatrice, soprattutto quando si china sui bagagli, mentre i capelli setosi le scivolano sul viso. Fino a quando non passa la barriera della polizia non provo nulla. Quando non posso più vederla, esco dall’aeroporto. In auto, non riesco a immaginare nient’altro se non il suo volto bellissimo e determinato, quasi fino alla durezza. Appena varco la soglia di casa, mi precipito al computer. Cerco una canzone che mi è risuonata in testa dal momento in cui l’ho salutata. Eccola: “Prendi il mio cuore…”, è il tema da “In un mercato persiano” di Albert Ketelbey.
Mi lascio sommergere dalla melodia. Non sono ormai nient’altro che sentimento materno. Quando lei era piccina piccina, inventavo filastrocche musicali – “pei tuoi capelli ho reciso l’oro del grano, per i tuoi occhi ho rubato un pezzetto di cielo…”

Sono passati due anni e quattro mesi, e lei è ancora a Londra, da Mc Donald’s. Mi stupiscono la sua forza e il suo ottimismo. – In Italia non ci torno – ripete di continuo. Ma mi telefona tutte le sere. Ogni tanto viene per qualche giorno. E sono giorni esasperati dalla sua irritazione. Ogni volta mi do da fare per confutare i suoi argomenti sulla situazione disastrosa dell’Italia. Ma lei non si convince e se ne torna a Londra, da Mc Donald’s.

E io resto qui a ripensare a come l’ho tirata su. Con i sacrifici colmi di grandi speranze, come ogni altra mamma della terra.

Il ricordo di mia figlia emigrante s’è svegliato forte, oggi, col pensiero della madre di Moritz Erhardt, lo studente tedesco ventunenne che è morto a Londra, dove stava facendo uno stage nella sede britannica della Bank of America, dopo aver lavorato per 72 ore di fila.
 Lascio le disamine sociologiche, economiche e politiche ai professionisti dell’informazione. Da parte mia vorrei testimoniare soltanto lo stato d’animo di una madre al tempo della crisi. Mentre nei Palazzi del potere si ciancia di crescita, ripresa, occupazione giovanile, sciorinando numeri senza senso, io penso a mia figlia emigrata da Mc Donald’s e la signora Erhardt piange suo figlio morto di speranza, e tante altre madri del mondo sono in ansia per i loro figli.

E intanto, l’Italia è prigioniera dei capricci di un vecchio egotista e manipolatore, giudicato reo di frode fiscale, al quale, ahimè, tanti cittadini, che hanno smarrito il senso della realtà, continuano a dare il loro consenso. E intanto, l’intera classe politica italiana, del tutto priva di limpidezza di pensiero e di parola, si barcamena in una palude di sofismi.



martedì 20 agosto 2013

L’arte di ritirarsi in “Io, tu e le rose”

Tardo pomeriggio d’agosto: dal finestrino dell’automobile guardo la campagna venirmi incontro ai lati di una stradicciola che unisce la piana di Nola a quella di Caserta. Il tramonto è ancora lontano. Se fosse un bel pomeriggio d’inverno, a quest’ora lo vedrei, all’orizzonte, cadere, rosso, oltre i rami spogli degli alberi. Ora, invece, irraggia di luce l’aria ferma e densa d’afa. Non si muove una foglia. I finestrini sono chiusi. Mi godo il fresco condizionato. La radio è sintonizzata su un’emittente locale. La voce di testa di Orietta Berti canta “Io, tu e le rose” e mi manda altrove.

Mi ritrovo nella vecchia casa di pietra del paesino cilentano che si snoda come un serpentello lungo il crinale di una collina argentata dagli ulivi e profumata di fichi. Sullo sfondo, verso sud, si erge il Monte Stella rivestito di foreste e di macchia mediterranea. Al limite nord del paesello, invece, presso la cappella di Santa Maria, dove la Statale delle Calabrie forma una ipsilon di manzoniana memoria con la strada che si inerpica verso Rocca Cilento, il cui castello domina maestoso sul mio paesello, si intravede il triangolo di mare che lambisce Agropoli. Nel fondovalle scorre l’Alento, che, d’estate, smette di essere fiume e diventa appena appena un rigagnolo che si insinua tra le petraie del suo letto.


Arretro di tanti, tanti anni. Ero bambina, dodici o tredici anni, e non vedevo l’ora di diventare grande. Mia madre, naturalmente, amò questa canzone così tradizionale del Festival sanremese. A me sembrava lamentosa e sdolcinata, per vecchi. Non è una bella canzone, lo penso tuttora. Ma ha la potenza di risvegliare ciò che fu, come se fosse ora. Non provo rimpianto. Anzi, mi accoccolo in me stessa e mi godo la vita piena, in un punto infinito. Niente passato o futuro. Solo presente nell'attesa di altra vita da accogliere. “Iooo, tuuu e le roseeeeeeeee, ioooo tuuu e l’amoreeeeeeeeee” continua a gridare Orietta. Certo, ci dovette rimanere male l’interprete delle canzoni di Suor Sorriso quando le dissero del biglietto trovato accanto al cadavere di Luigi Tenco: “Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt'altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale…”.


Ricordo il mio turbamento giovanile. Non riuscivo a capire la scelta di morire per una gara canora. Mi sembrava assurdo il suicidio “come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale”. Eh sì, ci deve essere un vuoto colmo di disperazione in fondo a una decisione simile! E i mass media allora, come fanno ancora oggi, sfamarono coi pettegolezzi l’inedia cerebrale della massa. Le riviste di gossip di quell'epoca, infatti, mutatis mutandis, non erano diverse da quelle che mi capitano tra le mani mentre da Hair’s Mode aspetto che Grazia mi tagli i capelli. Solo che, allora, per le ragazze non c’era molto da fare e da scegliere per svagarsi, specialmente in un paesino minuscolo situato lungo la vecchia Nazionale delle Calabrie, a una sessantina di chilometri da Sapri, nelle cui vicinanze Carlo Pisacane, poco più di un secolo prima, si era sacrificato nel tentativo di portare la rivoluzione socialista ai contadini che, in verità, non lo capirono affatto.


In seguito, frequentando il ginnasio in una cittadina vicina, conobbi, grazie alle mie compagne (la classe era solo femminile) altra musica. Mi ricordo che, oltre ai più famosi Beatles e Rolling Stones, andavano di moda i Bee Gees. Di questo gruppo – oh, portento della memoria! - Silvana, Rosellina e Pierangela mi regalarono il disco della canzone “Massachusetts”.


Molto è cambiato nel giro di mezzo secolo. Non tanto perché i lettori di compact disk hanno sostituito il giradischi, o perché la televisione ha moltiplicato all'infinito i suoi canali! Ma perché siamo immersi in infinite possibilità di comunicazione. Mentre scrivo, dal terzo canale della radio mi arrivano le notizie lette dal giornalista di Prima pagina. Se voglio, posso recuperare nel web l’articolo che mi interessa. Tutti i giornali ormai sono leggibili on line. E, se mi piace, posso ascoltare da quel pozzo senza fondo che è YouTube qualsiasi musica, di ogni tempo e paese. - Ma che noia! – vero? Tutte queste cose si sanno e sono fonte inesauribile di un’infinità di riflessioni molto articolate da parte degli intellettuali d'oggi. Ciò non toglie che le testimonianze del vissuto di una persona hanno un sapore più gustoso. E io ora sono qui, testimone che incarna i mutamenti accaduti nel mondo, narratrice che incarna un'altra memoria, secondo un mutato avvertimento del tempo. La linearità cronologica è una costruzione artificiale. Nella vita delle creature, infatti, il tempo è un intricato andirivieni. Ma anche questo fenomeno è stato raccontato, al punto che i romanzieri hanno dovuto infrangere del tutto le categorie tradizionali dell'arte del narrare, soprattutto quella del tempo. Qualcosa di simile accadde in seguito alla Rivoluzione copernicana. Ma, dopo la legge della relatività, siamo precipitati nella visione e nel racconto di frammenti, sebbene si tratti di frammenti volteggianti in infinite possibilità di connessioni spaziotemporali. Le nuove tecnologie hanno potenziato straordinariamente la facoltà di spostamento spaziotemporale e moltiplicato all'infinito le prospettive. E pensare che, fino a non molti anni or sono, questa facoltà sembrava appartenere solo agli artisti, perché loro sanno dominare i linguaggi e possono, dunque, tradurre in forme percepibili i viaggi della loro memoria, sia storica che fantastica. Infatti, sebbene l'andirivieni nella memoria capiti a tutti, non molti sono in grado di esprimere questa esperienza. Per poterlo fare è necessario coltivare un’arte in grado di dare una forma ai viaggi della memoria.


Al tempo di “Io tu e le rose” tenevo un diario che ho smarrito nei traslochi della mia vita. Il diario è una specie di blog molto privato con la funzione di sfogarsi raccontandosi. Infatti, i diari degli adolescenti sono segreti. Invece i blog sono dei diari aperti, di ogni genere di contenuto e stile. Sono frammenti narrativi scritti nell'etere. Con l'avvento dei blogger potremmo dire che in ogni istante, in tempo reale, si scrive la storia del globo in tanti tasselli di infiniti colori. Anche il rapporto causa effetto di tipo lineare è saltato. Uno zigzagare di eventi di ogni tipo ripercuote i suoi effetti imprevedibilmente su ogni dove. C’è davvero da ridere al pensiero di quelli che credono di essere determinanti per le sorti del loro paese, o del mondo addirittura.


L’avevo abbandonato questo post. Mi sembrava insulso ed incoerente. Nel frattempo, però, mi è capitato di andare in libreria e di ritornare allo scaffale dove giaceva un volume più volte contemplato e sfogliato. Per due mesi ho resistito all'impulso di comprarlo: “diciotto euro … quattrocentocinquantaquattro pagine!”.


Ma il giorno di Ferragosto cedo alla voluttà. Me ne vado a casa col libro tra le mani.


Sono presa dall'ebbrezza della vacanza immobile. La vita fluisce beata, senza gli impedimenti della consuetudine.


Mi immergo nella lettura. L’autore parla di come diventare amici di se stessi, di come ritrovarsi per scoprire che il "sé!, ovvero ”l’io dato", è una molteplicità di altri “io”, tra i quali “l’io rappresentato”, se si vuole bene, si dà da fare per stabilire una relazione amichevole. Sembra che il “sé” sia in realtà una sorta di polis da organizzare. Pertanto, se ci adoperiamo per mettere d’accordo tutti i nostri “sé” senza risentimento, - quel risentimento che Luigi Tenco finì col rivolgere contro se stesso - mi dico ora, ci incammineremo per la via dell’autodeterminazione e dell’autonomia, dopo aver sperimentato il percorso che porta alla liberazione da quanto e da quanti nella nostra esperienza del mondo ci soffocavano. Bisogna, infatti ritirarsi in se stessi, per aprirsi, quanto più gradevolmente possibile, al mondo.


Ora ripenso al momento in cui mi sono accoccolata in me stessa. Trovo diversi nessi tra il libro e il mio racconto. “Io tu e le rose” è una metafora narrativa della vita in ricerca…tra rose e… pure spine. Ciononostante la narrazione mitiga le angustie e gode del roseto.


La vita, si sa, sporge su un abisso che sgomenta. Da questo abisso risuonano le domande sul senso della vita che conosciamo e di quella che ignoriamo, sull'andirivieni delle stagioni e sul farsi e disfarsi della materia in metamorfosi eterna. Accade talvolta che a queste domande preferiamo restare sordi, a causa dell’angoscia che ci attanaglia. Ma può anche succedere che esse ci invitino a vivere in ricerca lungo la via che ora scende nell'interiorità e ora, da lì, riemerge per aprirsi al mondo.


Nel libro comprato a ferragosto si ribadisce, tra l’altro e non senza attingere al pensiero classico, che la vita è un’arte e che “le arti sono ponti sugli abissi”. Quest’arte si spinge fino all'ascesi nel senso del greco “àskesis”, ossia “esercizio”.  La vita intera è un “esercizio” artistico che mira al perfezionamento, fino all’”eccellenza”.


A ciascuno la sua “àskesis"!


Tuttavia, secondo l’autore del mio libro, uno degli esercizi di “arte come ponte sull'abisso" è proprio l’arte del raccontarsi, esplorando la memoria. Come faceva qualche adolescente al tempo di “Io tu e le rose”.


E in fine, eccovi il mio libro di Ferragosto!


mercoledì 7 agosto 2013

Cattedrali in libreria

“Ognuno scrive un libro per sé, ognuno ha il suo libro. Non c’è un libro per tutti”. Queste affermazioni mi hanno trovata in disaccordo. Ho ribattuto che non è vero, che ci sono libri per tutti, architetture immense ed immortali. Ma come le grandi cattedrali questi libri richiedono la pazienza di raccogliersi in silenzio per ore, per giorni, in qualche caso anche per mesi. E una pazienza tale è virtù rara di questi tempi. I libri di cui parlo, infatti, sono i grandi romanzi, gli affreschi minuziosi delle vicende umane. Pensate che in queste narrazioni alla descrizione di un luogo, interno o esterno, possono essere dedicate pagine e pagine. Fin quando non diventa familiare a tutti i sensi. Fin quando al lettore non paia di essere proprio lì, e dentro quella storia. In queste cattedrali dello spirito si dispiega la sapienza universale.
Non sono trattati di botanica ma vi si conoscono tutte le piante e i fiori. Asfodeli, genziane, pervinche, giaggioli, nontiscordardimé, rosolacci. E poi le brughiere di erica bianca e violetta, e le steppe desolate. Olmi, querce, betulle, aceri e pioppi. Boschi e selve di ogni specie. I nomi fanno essere l’infinita varietà del regno vegetale.
Non sono trattati di mineralogia queste cattedrali, ma contengono tutte le concrezioni della terra, le pietre più comuni, e le gemme più preziose: agate e lapislazzuli, onici, smeraldi, diamanti, porfidi ed alabastri.
 E vi si possono attraversare tutti i paesaggi del pianeta. Si sale sulle vette più maestose. Si percorrono le pianure fertili o le malsane paludi. Si va per strapiombi scoscesi o per litorali sabbiosi. Si affrontano tutti i mari, con la bonaccia o in tempesta. E si patiscono e si godono tutti i climi della terra. Si sperimentano i monsoni con le grandi piogge, le bufere di sabbia e l’aridità delle zone desertiche, il gelo e le nevi perenni degli estremi del globo, le brezze dei paesi temperati.
E che dire dell’esperienza del giorno e della notte, di ogni aspetto del cielo alla luce del sole o a quella delle stelle! E la luna? In quelle cattedrali si impara a conversare con la luna dopo averla conosciuta in tutte le sue fasi, stupiti dai suoi effetti misteriosi sul mare e sulla vita.
Né sono, queste cattedrali, trattati di anatomia, ma vi è nominato ogni organo del corpo umano, laddove si scolpiscono figure indimenticabili nella loro individualità. E neppure vi si discute di psicologia, e tuttavia un soffio potente anima quelle sculture e genera l’infinita vita dell’anima umana.
Prima ancora di viverli in me o su di me, in queste cattedrali ho conosciuto tutti i sentimenti.  Ogni manifestazione dell’amore, l’odio e la gelosia, l’ira e la mitezza. Lì ho appreso a vincere la disperazione e a nutrire la speranza. Sono scesa negli stati più abbietti e sconsolati e ho pianto. Mi sono sollevata nelle regioni della gioia e ho esultato.
E ancora, in queste cattedrali si diventa consapevoli delle vicende politiche e sociali, senza che si debbano affrontare lunghe trattazioni teoretiche. Lì si sperimenta il disgusto per la tirannide e si impara a guardare la realtà con discernimento e ad alimentare il desiderio della libertà e della giustizia.
E per di più, in queste cattedrali si apprende a conoscersi. Là dentro vediamo come siamo e come vorremmo essere. Si fa palestra introspettiva ed esercizio di comportamento. Incominciamo a raccontarci mentre ci ascoltiamo raccontati. Giungiamo persino ad arrossire di pudore se ci scopriamo svergognati. Ci sono anche, in queste cattedrali, passaggi e rifugi pietosi, dove il cuore può lenire le ferite, e alleggerirsi dei pesi. Ma non si tratta di terapie psicoanalitiche.  
Quando si entra in una di queste cattedrali il “falso” diventa potente immaginazione, l’ ”errore” ricerca, domanda, scoperta del mondo. La fantasia degli architetti di queste cattedrali ha qualcosa di divino, un’ispirazione che di per sé induce ad interrogarsi sul mistero dello spirito umano.
Quando penso alla fatica che i grandi narratori di storie hanno sofferto per costruire queste cattedrali, sento un misto di gratitudine e di venerazione. Loro non potevano avvalersi dei nostri comodi strumenti tecnologici. Scrivevano a mano, di giorno e di notte, al lume delle candele quando non c’era la luce elettrica. Scrivevano ora di getto sotto l’onda impetuosa delle emozioni, ora lentamente, analizzando l’esperienza e condensandola nella riflessione. Con minuziosa scansione, registravano fedelmente le loro osservazioni della realtà. Descrivevano luoghi sconosciuti contemplati nella mente, dei quali avevano sentito raccontare da altri e che mai avrebbero visitato. Come tanti lettori, del resto, e come me stessa! Quante città conosco, quanti paesaggi, che non ho mai visitato! E quanto del cuore umano ho appreso, prima ancora di farne esperienza diretta.  Accade, in queste cattedrali, di previvere la vita, al punto che in seguito ci capita di esclamare:"ma io questo lo sapevo digià, l’avevo già visto!”.  Ed è in quelle cattedrali che probabilmente si apprende l’empatia, la capacità di comprendere l’altro, sentendolo in se stessi.

Viviamo nel tempo di Sua Maestà il Mercato, che detta le sue leggi ciniche anche nell’editoria. Ma questo è anche il tempo della scrittura accessibile a tutti e da tutti divulgabile. Gli strumenti a nostra disposizione solleticano ambizioni e velleità. Tutto questo non è un male di per sé. Ma potrebbe diventare un fenomeno negativo se ci si smarrisse del tutto in questa editoria “liquida”, incolore e insapore col rischio di diventare scettici e relativisti assoluti, tali da non essere più in grado di distinguere una casupola da una cattedrale.
Infine, non mi va di fare nomi di queste cattedrali immortali, per diverse ragioni. Prima perché non le ho visitate tutte e poi perché, mio malgrado, di sicuro ne dimenticherei qualcuna. Posso però invitare i frequentatori di librerie, specialmente quelli più giovani, a sostare tra gli scaffali dei classici. Sono lì le cattedrali che hanno già vinto sul tempo. Eh sì! Questa chiosa è banalmente ripetitiva. È noto che uno scrittore, chiamato ormai “un classico”, in un suo famoso saggio  li ha già argomentati tutti, o quasi, i motivi validi sul “Perché leggere i classici”.








giovedì 1 agosto 2013

La trappola della visibilità

Si racconta che tanto tempo fa, una sera d’estate, in un teatro di un paese dell’Europa si scatenò una strana baruffa tra gli strumenti musicali di un’orchestra che era già pronta sul palco per suonare. Una moltitudine di appassionati spettatori attendeva ansiosa l’inizio del concerto, mentre si udivano gli accordi isolati di prova. Il direttore non era ancora al suo posto. Si aggirava tra gli orchestrali sussurrando qua e là qualche richiesta. A suo comando vibravano gli Archi, rullavano i Tamburi, ondeggiava il Pianoforte. Infine si avvicinò ad uno sconosciuto strumento a corde che aveva la cassa di risonanza ricavata dalla metà di una zucca rivestita di pelle di vacca e invitò l’orchestrale, nero come la pece, a far vibrare le ventuno corde della Kora. Così si chiamava quello strumento (e, chissà, forse così si chiama ancora e si suona tuttora, magari costruito con materiali moderni, in qualche remoto paese del mondo). Il suonatore della Kora all’invito del direttore, magro, alto e pelato, sorrise negli occhi luccicanti.  Dopo un cenno di assenso si accovacciò sullo sgabello, sistemò davanti a sé lo strumento e, afferrate le maniglie ai lati della cassa, incominciò a pizzicarne le corde.  Zampillarono gocce sonore per tutta la sala incuriosita. Centinaia di occhi fissarono il suonatore nero che si dondolava all'effondersi della nenia pacata. Tutti ormai si aspettavano una sinfonia nuova da uno spettacolo nuovo. Il direttore annuì soddisfatto, andò al suo posto e, dopo un inchino al pubblico in attesa, salì sulla pedana e si voltò verso l’orchestra. La bacchetta si agitò e accennò al suonatore di Kora, che già teneva le dita sulle corde, quando d’un tratto, inopinatamente, il Controfagotto dall'ultima fila dell’orchestra, seminascosto dalle Trombe e dai Tromboni emise un borbottio sgangherato. Il direttore gli fece gli occhiacci per zittirlo e tornò alla Kora che beatamente vibrò una melodiosa sequenza. Ma il Controfagotto, ostinato a farsi notare, emise un suono rancido e prolungato, come uno sberleffo maleducato, puntando il muso in direzione della Kora sbigottita. Nell'agitazione il Controfagotto perse il suo grave equilibrio e batté le canne su una Tromba che svettava in aria accanto a lui. Allora la Tromba si dimenò e squillò con striduli acuti di accusa. Lì vicino si trovava un Clarinetto, invidioso della Tromba, alla quale non vedeva l’ora di mostrare la potenza delle sue chiavi. Con un Si soprano prolungato, il Clarinetto sovrastò gli stretti acuti della Tromba. A questo punto il direttore con le braccia al cielo fu travolto dallo scompiglio generale. Anche la mite Kora si era irrigidita con le ventuno corde attonite. La confortavano gli altri strumenti a lei simili. Arpe, Viole, Violini e Violoncelli, vibravano di sdegno. Ma anche loro facevano un gran chiasso, infuriando con urla laceranti contro gli strumenti a fiato e a percussione, che intanto sberciavano senza ritegno contro la sconosciuta, alla quale si dedicava tanta attenzione. La sala era sgomenta e cominciava a dividersi. Ognuno voleva dire la sua e invitava questo strumento o quell’altro a far sentire più forte la sua voce. Il tumulto cresceva, e persino la Kora, che aveva esordito con tanta pacatezza, squittì risentita. Al povero direttore erano cadute le braccia ed era corso a rannicchiarsi in un angolo, aspettando che qualche evento straordinario sedasse quel tumulto. Ma non si veniva a capo di nulla. Quello zoticone del Controfagotto aveva ottenuto la visibilità che voleva, spalleggiato da altri tangheri come lui e favorito dalla dabbenaggine, dal conformismo, ma soprattutto, ormai, dalla smania di essere notati che si era impadronita di tutti i convenuti al concerto, i quali, adesso non volevano proprio saperne di restare in sordina.  La sala ondeggiava e risuonava di alti e di bassi accusatori. Il controfagotto ormai se la rideva facendo vibrare a più non posso le ance nelle canne. Aveva teso una trappola nella quale c’erano cascati tutti.
 Un momento, no, non tutti, per fortuna!
 In prima fila, al centro dell’orchestra troneggiava lucente nella sua coda maestosa il Pianoforte. Non aveva battuto tasto né bianco né nero per tutta la durata dello scompiglio sonoro. Se ne era stato muto in mezzo a quel baccano. Raccolto in un silenzio malinconico il Pianoforte aveva trattenuto nei suoi congegni nascosti le meravigliose scale che avrebbe dovuto far risuonare, quando fosse toccato a lui, nella polifonia del concerto andato a monte.
Ma è noto che i tumulti finiscono con lo sfiancare anche i più coriacei. E andò così anche nella guerra tra gli strumenti musicali. Gli Archi avevano le corde allentate. Qualcuna si era addirittura spezzata per la grande tensione. I Fiati erano arrochiti per l’inesausto soffiare. I Tamburi laceri ormai emettevano voci accartocciate. I Piatti si dolevano delle ammaccature. Allo Xilofono erano saltati quasi tutti i dentelli di legno e non trillava più. Dopo un rotolio sgangherato di voci diverse nella sala piombò il silenzio.  
Musica , finalmente, per le orecchie assordate!
 Passò un tempo indefinito. Ad un tratto, per incanto, come trascorsi da una mano misteriosa, i tasti d’avorio e d’ebano del Pianoforte liberarono un brillio di note lievi, una melodia che rinasceva dal silenzio. Lo spaurito direttore si alzò in piedi attonito e si mise ad ascoltare.
 Ed ecco che per prima la Kora con discrezione e dolcezza rispose all'invito sonoro. Subito le fecero eco gli Archi, a turno. A tempo debito, poi, si inserirono i fiati. Le Percussioni batterono il ritmo all'occasione opportuna. Persino l’ostile Controfagotto ritrovò una certa compostezza e si limitò a borbottare gravemente, rispondendo ai fagotti suoi cugini, senza guastare l’insieme armonioso. Ma, quando il Pianoforte gorgheggiava come un usignolo, tutti gli altri smorzavano le loro voci, e trattenevano le vibrazioni, lasciandosi andare agli accordi soavi di quel maestoso strumento. La sala, invasa da una sconosciuta dolcezza, si chetò. Accompagnata da quella musica straordinaria una moltitudine di dame a cavalieri danzò gioiosa per tutta la notte. 
E Kora?

 Kora dopo quella notte di tumulti, aiutata dal suono avvincente del Pianoforte, fu riconosciuta, finalmente, come uno strumento alla pari degli altri cordofoni, e da allora, di diritto, partecipa dell’armonia dell'orchestra in tutti i concerti di quel paese d’Europa.