mercoledì 28 novembre 2012

Egregio Presidente del Consiglio dei Ministri


Egregio Presidente del Consiglio dei Ministri,
le scrivo per esprimerle lo sconforto che ho provato ascoltando i suoi giudizi sconsiderati e presuntuosi pronunciati sugli insegnanti nel corso della trasmissione di Fabio Fazio. Mi sono rammaricata di non aver scioperato il ventiquattro di novembre, io che l'ho sempre fatto contro le politiche scolastiche dei precedenti Governi. Mi fidavo. Volevo assolutamente credere che finalmente si sarebbe potuto ridare dignità all'Italia e, per questo, mi ero disposta a sperare e a guardare oltre i sacrifici. Per me l'onestà è un "tic", come disse Italo Calvino in un suo famoso apologo. Una vita intera ho dedicato a seminare e a coltivare onestà e giustizia, sia dialogando con gli studenti attraverso le materie che insegno, sia educando le mie tre figlie, la prima delle quali, per niente “schizzinosa”, fa la cameriera laureata a Londra. Quando leggo ai giovani "I promessi sposi" sento che la forza della verità passa nelle parole del commento che quel capolavoro mi ispira. Ma quanta fatica, Presidente! E non per la quantità delle ore! Per la delicatezza e la sensibilità che consumano gli insegnanti nello stabilire una relazione autentica con un'ottantina di adolescenti. Mi rammarico di non aver potuto replicare alle sue parole. Che orrenda sensazione, Presidente! Io conservatrice e corporativa! Aizzerei i giovani strumentalizzandoli proprio io che invece li esorto a non perdere tempo prezioso disertando le lezioni, io che li sprono a non essere conformisti, al contrario di quanto ha fatto lei che li ha blanditi mentre maltrattava i loro maestri. Un Primo Ministro, per giunta professore, dovrebbe essere dotato di misura e sensibilità. Lei ha usato un mezzo pubblico non solo per fare pubblicità al suo libro ( o sacra auri fames!) ma anche per offendere con freddezza, dall'alto della sua attuale potenza, lavoratori onesti, ricercatori sul campo, che con la loro sapienza e sensibilità svolgono una funzione nobilissima per la comunità civile.
Distinti saluti
Giuseppina Imperato

martedì 30 ottobre 2012

Fra Galdino... le noci...e il ministro Profumo



Negli articoli dei giornali, nelle riviste specializzate, nelle lettere di protesta, insomma in tutti i documenti che leggo contro la proposta del Ministro dell'Istruzione di aumentare da diciotto a ventiquattro le ore di insegnamento nella secondaria di primo e secondo grado, non trovo altro che monotoni elenchi che documentano le tante ore di lavoro che impegnano i docenti ben oltre le diciotto di lezione. Ancora una volta si ragiona soltanto di numeri e si sbandierano statistiche e confronti tra la scuola italiana e quelle degli altri paesi dell'Europa. Non ho trovato, almeno finora, un racconto significativo dell'indefinibilità del tempo e della fatica del meraviglioso impegnativo lavoro dell'insegnante.

Stamattina, dopo aver parcheggiato la mia sgangherata ultra ventennale Ford Fiesta a ridosso del muro di cinta del piazzale del liceo in cui insegno, sono smontata tutta allegra dell'aria frizzante che mi ha avvolta. Il cielo intensamente celeste sfilacciato di bianco mi augurava buon lavoro. Mentre mi voltavo a chiudere lo sportello, sparse ai miei piedi, ho visto tante noci cascate dall'albero che, dal campo confinante, sopravanza il recinto e coi rami sporge nel parcheggio della scuola. Le noci di fra Galdino! Sorridendo ho pensato ai ragazzi di seconda. Poi mi sono chinata a raccoglierne. Ne ho cercata qualcuna con il mallo, parola che gli alunni ignorano. Ma il mallo, ormai infradiciato mi si è spappolato fra le mani. - Mallo - guscio - gheriglio. Il noce, la noce. In latino “Nux" -.
Tutto questo era accaduto perché qualcuno non ricordava la stagione in cui inizia la storia di Renzo e Lucia e ignorava il tempo in cui si bacchiano le noci. Eppure dalle finestre dell'aula gli occhi si perdono su una distesa di noci e noccioli! 
Dove siamo coi nostri corpi, che fine hanno fatto i nostri sensi? 
Allora mi è risuonato in testa il burocratese della scuola: 
- Si rileva la povertà lessicale! Bisogna potenziare il vocabolario dei discenti, facendo acquisire loro il lessico specifico per arricchire le possibilità espressive. Blablabla -. Porcheria! 

Mi si è parata poi dinnanzi la faccia composta, bonariamente accattivante, di Profumo che dallo schermo televisivo, nel corso della rubrica Leonardo di qualche giorno fa, mi prediceva la sua scuola del futuro. Una “scuola dei pari”, mi sembra che l'abbia definita. Mi verrebbe da sghignazzare -“una scuola dei paria!”-. Era tutto felice il ministro in quel suo rincuorarci, invitandoci ad immaginare una scuola senza i banchi ricoperti di formica verde.
- A pensarci bene, potrei anticiparlo. Quasi quasi porto i ragazzi sotto il noce, e chissà che non ci capiti di ascoltare anche il canto di qualche usignolo autunnale. Ne verrebbe fuori una bella lezione sulla natura e sulle figurazioni della lingua...le metafore insomma.-

Il bello è, signori cari, che il mio lavoro non lo so proprio conteggiare. Me lo porto appresso, sempre. Sì, terminata la lezione in aula, quei tanti volti con le loro ansie e le loro difficoltà sono spesso davanti a me, anche nei momenti in cui non insegno e non svolgo nessuna delle attività aggiuntive, o di quelle cosiddette in nero. Magari, nel bel mezzo di un'attività domestica, ecco uno sguardo che mi fissa con una richiesta muta. Rimugino. Analizzo. Immagino e mi dico - domani gli posso parlare così...glielo spiegherò con questo esempio - .
Talvolta, in classe, vedendo qualcuno perso in rêverie, mi capita anche di canticchiare una vecchia canzone - “con il corpo sono qui, ma la mente mia non c'è, corre dietro a dei ricordi e chi la ferma più”.
Ecco, è questo il nodo: - esserci tutti interi con sensibilità e sentimento e mente. Oh, quant'è delicato, quant'è difficile e quant'è faticoso il mio lavoro!
Accidenti! E tutti continuano a contare le ore!
- Buongiorno , ragazzi! Ecco qua le noci di fra Galdino! Guscio e gheriglio. Il mallo? Era fradicio, mi è caduto per terra tra le foglie di quest'autunno fruttifero - .

domenica 28 ottobre 2012

"Relativo"? No, grazie! Preferisco "assoluto".




Indubbiamente il verbo latino “refero” nelle parole derivate dal supino “relatum” è oggi molto di moda: “relazione”, “relazionare”, “relazionarsi”, “relativo”, “relativismo”.
Guai a chi non le tenga sempre presenti! Sarà subito accusato di avere un'unica prospettiva, di essere incapace di convivenza, integralista e assolutista. - Tu non sai relazionarti! - ecco la temuta accusa! Ma, per sapersi relazionare al “relativo relativismo”, bisogna fasciarsi gli occhi e incerottarsi la bocca e annuire sorridenti che tutto è bene in nome di una libertina verità.
Un finto pacifismo impastocchia le coscienze. Sorridi, dai, sorridi! Vivi e lascia vivere! Tranquillo suvvia, va' d'accordo con tutti, ben accetto, bene accolto, in un'allegra brigata di individualisti sfegatati, unanimi nel badare ai fatti propri in bella compagnia!
Sissignori il conflitto è da evitare, sennò sei irrispettoso e pure guerrafondaio.
Senti spararle grosse? Taci! Non c'è niente da correggere, il tuo è solo uno dei tanti punti di vista. Sì, d'accordo, il bianco è bianco e non può essere nero. Ma devi imparare che nella relazione potrebbe essere grigio.
Oh! Ma è così bello il litigio, lo scontro, quell'azzuffarsi animato che non distrugge l'amicizia, e tanto meno l'amore! Caparbi, sì caparbi con sentimento, nel sostenere il proprio punto di vista! E non potrebbe forse succedere che in quelle baruffe tu, o l'altro, proceda oltre, fino ad intravedere che qualcosa di “assoluto” c'è e che, pur nel conflitto, è lì che tendete entrambi?
Oh! a te aspiro "assoluto"! “Absolutum”, “del tutto sciolto”, irraggiungibile eppure presente nelle coscienze “assolute”, ovvero “absolutae”, sciolte e leggere e senza paura. È in questo “assoluto” che risiede l'amore per i figli.  No, non i figli di famiglia, ma, alla greca ed evangelicamente, “tà tèkna”, ossia tutti “quelli che sono stati generati”, ben oltre la ristretta famiglia e i meschini interessi borghesi dell'orticello proprio.
Romanticismo? e perché no? 
In quest'epoca di “illuministi” che inneggiano alla “ratio e alla relatio”, che tutto confondono ed ammettono all'insegna del “relativo”, riammettere tra le parole d'uso l' “assoluto”, ed anche il “saper essere soli”, equivale ad invitare a spingere lo sguardo al di là della siepe, oltre il limite dell'orizzonte, fino ad immaginare, oltre il contingente e il relativo, “verità e giustizia assoluta” per tutti i figli della terra.

mercoledì 17 ottobre 2012

La prego, mi ascolti, ministro Profumo!

Il governo Monti ha ereditato una situazione politica ed economica disastrosa insieme ad un paese da rieducare al senso di civiltà, al rispetto delle regole ed alla responsabilità personale dei singoli nel compiere le azioni e le scelte quotidiane che riguardano la comunità intera. La decadenza italiana è, difatti, conseguenza della cattiva politica e dello scollamento della stessa politica dalla società, alla quale uomini senza scrupoli hanno offerto modelli etici e culturali egoistici, effimeri e volgari. Sedotti da questi modelli illusori, smarrito il senso della realtà, molti Italiani hanno preso ad ignorare che l'interesse privato è rovinoso anche per se stessi quando è perseguito con menefreghismo e in danno del bene comune.

Ma tralascio la questione generale e rivolgo l'attenzione alla scuola italiana, tornata in prima pagina in seguito alla proposta del ministro dell'Istruzione, proposta inserita nel testo della Legge di stabilità, di portare da diciotto a ventiquattro le ore di docenza. Al riguardo mi è capitato di ascoltare la risposta del ministro Giarda ad una interrogazione parlamentare, andata in onda proprio questo pomeriggio sul terzo canale della RAI, che, tra le altre, poneva la questione dell'aggravio di lavoro per gli insegnanti, aggravio non retribuito e non previsto dal vigente contratto di lavoro. Ebbene, rispondendo, il ministro Giarda ha dichiarato la disponibilità del collega Francesco Profumo a discutere ed eventualmente a rivedere tale proposta, a patto, però, che si trovi il modo di risparmiare qualche milione di euro (non ricordo esattamente la cifra menzionata) secondo i programmi di risanamento del bilancio del nostro povero – e carico di accorati sensi questo aggettivo - paese. Ascoltata questa dichiarazione, sono saltata dalla sedia e mi sono sentita la testa e il cuore in subbuglio, nonché un formicolio ai piedi che volevano correre, volare da Profumo. Mi agito per l'impossibilità di esprimermi su una questione che mi sta a cuore. No, non le ore di lavoro in più, ma la scuola martoriata e vilipesa.

Ora comincio a farneticare. Immagino di incontrare il ministro per l'Istruzione (ahimè l'aggettivo “pubblica” è stato cancellato dai tempi della Moratti!). Sì sì, sono proprio a quattr'occhi con lui, posso suggerirgli qualche buon taglio indolore.

La prego ministro, mi ascolti, c'è un modo per risparmiare molti milioni di euro senza mettere in croce ancora una volta i lavoratori appassionati e senza chiudere la porta in faccia ai giovani aspiranti all'insegnamento. Non so se lei è informato sui soldi sperperati nella scuola pubblica in attività inutili, quando non dannose, per l'educazione dei nostri giovani. Giri un po', ministro, per le scuole e parli con quei docenti (e sono tanti, mi creda!) che persistono nel credere che l'insegnamento amorevole delle loro materie sia l'esperienza vitale da far compiere agli studenti. Scoprirà, ministro, che questi maestri non cedono al guadagno coi progetti e neanche al gettone dei corsi di recupero (ritenuti del tutto inefficaci anche da indagini di autorevoli studiosi) pur di non demotivare ulteriormente i giovani, considerandoli come clienti da usare per arrotondare il magro stipendio. Dacché esiste il P.O.F., caro ministro, le scuole sono diventate vetrine di fumo, in piena consonanza con l'etica dell'apparenza della cultura dominane degli ultimi venti anni. Oh Ministro! Mi sono battuta contro l'avanzare, da sinistra e da destra, di questa politica degradante della scuola. Vent'anni di scioperi. A volte ero sola a scioperare nella scuola in cui lavoro. Scioperavo disperatamente, perché anche i discorsi dei sindacati mi suonavano falsi. Una Cassandra, sì ministro una Cassandra mi sentivo. Ma ora che il disastro è completo non mi resta che la compassione e l'eroica resistenza e la lucida partecipazione.  Io non sciopererò contro un governo che tenta, nella tragedia, di rifondare la dignità del mio amato paese. Non è il momento di scioperare questo, ma è il momento di cooperare proponendo azioni di miglioramento in ogni ambito della vita sociale, in attesa che anche le “cose” della politica, come tutte le altre, si rigenerino, per autopoiesi, come dice un mio fiducioso amico.

Con pochi e semplici tagli recupererà molti soldi, ministro, e riporterà equità nella scuola, impedendo che alcuni docenti incassino diverse migliaia di euro oltre lo stipendio. Se poi costoro hanno tanto a cuore i progetti extra, potrebbero, proprio loro, attuarli gratis lavorando fino a ventiquattro ore, senza oneri aggiuntivi per lo Stato. Ecco, ministro, i tagli che per ora propongo sono questi:

1. Eliminare il budget d'istituto spendibile in progetti extracurricolari, in corsi di recupero pomeridiani (difatti il recupero delle competenze interseca tutta la prassi didattica curricolare se questa è sapientemente progettata) e in ogni altra superflua attività (commissioni di vario genere, per esempio) . Coloro che ritenessero indispensabili le attività extracurricolari potrebbero attuarle gratis fino al raggiungimento delle proposte ventiquattro ore.

2. Eliminare le spese per le Funzioni strumentali. Secondo una diffusa opinione esse sarebbero inutili.

 Con i tagli suggeriti, ministro, in ogni scuola Lei risparmierebbe parecchie decine di migliaia di euro, e senza danni, mi creda, raggiungerebbe l'obiettivo prefissato, favorendo persino l'ingresso in aula di giovani e fresche forze. Inoltre, se Lei e il Governo di cui fa parte riconoscessero la nobiltà del lavoro degli educatori incentivando, almeno simbolicamente, l'autoformazione e la ricerca metodologica disciplinare e interdisciplinare dei dipartimenti, contribuirebbero a ristabilire, finalmente, dignità e fiducia nel mondo della scuola per ora  “confusa, dispersa e scorata”.







martedì 4 settembre 2012

Economia e Gratuità

Ho trascorso tutta l'estate a casa, tra i lavori domestici e l'intreccio di fili colorati di parole. Fin dal mattino anelavo alla sera, a quel fresco che, finalmente, settembre ci ha regalato. Soltanto nell'ultimo scorcio di agosto, mi sono regalata qualche giorno di “divertimento”.

Sospesa tra la terra e il cielo dell'Umbria, ho ascoltato il cambiamento incessante della vita che si percepisce più distintamente quando in un intervallo di tempo, seppur minimo, si gode di un altro spazio. Mi sono allora ritrovata a Trevi, dove si teneva un convegno promosso dall'associazione Ore Undici http://www.oreundici.org/. Mi aveva trascinato lì il fascino delle parole chiave oggetto dell'incontro: Passione e Tenerezza. (http://www.oreundici.org/incontrin/2012/convegno_estivo_2012.shtml )

Tra le relazioni che ho ascoltato, tutte interessanti, una mi ha addirittura commossa. Quella dell'economista Luigino Bruni, che ha trattato “I bisogni e il desiderio dell'uomo al centro dello sviluppo economico”. Sappiamo tutti quanto l'Economia sia oggi l'argomento più discusso dei media e della vita quotidiana. Troppo in fretta sono andati in circolazione termini tecnici che non ci sono ancora chiari. Anzi, proprio l'incompetenza linguistica nell'ambito economico - incompetenza che in realtà equivale ad ignoranza e, quindi, a incomprensione dei fenomeni economici - alimenta in noi un senso di angoscia e di sfiducia.

Ebbene, il professor Bruni, con chiarezza e sentimento, ha raccontato l'economia come il luogo “delle passioni, dei bisogni, dei desideri, dei vizi e delle virtù umane”. La narrazione era appassionatamente sostenuta dal suo amore per la lingua e la letteratura. Proprio come un esperto narratore ha creato una storia con un punto di massima tensione: fino a pochi anni fa, nell'era dell'economia industriale, pur nella “eterogenesi dei fini”, tra il ricco e il povero sussisteva una reciprocità di interessi, in virtù della quale “il vizio del ricco diventava una virtù”. La Nuova Economia, invece, ha interrotto questo rapporto, generando lo squilibrio economico che attualmente ci spaventa. Ma Bruni non si è limitato ad una disamina storico - economica e ad illustrare come l'economia attraversi pure tutta la storia della Chiesa, a partire dall'idea del “giusto prezzo” sorta nei monasteri benedettini. Egli è stato anche in grado di individuare e spiegare con pacatezza e sentimento il fenomeno più doloroso del nostro tempo: “la dicotomia tra economia del dono ed economia del profitto”.

Occorre qui intendere che l'atto del “donare” è connaturato alla nostra vita, necessariamente protesa allo scambio. Senza il “dono” è impensabile la vita sociale. Anche il lavoro contiene un margine di “dono” che non potrà mai essere del tutto quantificato o ridotto a mero profitto. È il “plusvalore” della “gratuità” che ci fa umani.

L'affermazione di Bruni che mi ha commossa e ha rafforzato in me la convinzione che l'uomo non sarà mai ridotto a merce è, pertanto, questa: “L'uomo è gratuità”. A questo punto il relatore non ha tralasciato di ricorrere all'etimologia di “gratuità”. Il vocabolo deriva dal latino “Gratia”, greco “Χάρις (Chàris), e designa “Grazia, Bellezza, Armonia”. Inoltre, dal greco “Charis” è derivato il latino “Caritas” (con la perdita dell'aspirazione) che si divide tra il campo semantico dell'Economia e quello dell'Amore. Nel senso di Amore, Caritas equivale al greco ἀγάπη (agàpē), ovvero “amore incondizionato”.

Da questo momento in poi ho trascurato il taccuino e la penna e mi sono abbandonata all'ascolto con “passione e tenerezza” per me e per tutti gli esseri umani. Basta l'amore per cambiare il mondo. Se lavoro con amore, il mondo cambia, in qualsiasi mansione io sia impegnata. Ma quel di più che fa l'Amore non può essere quantizzato. Bruni ha detto bene: nessun dirigente o datore di lavoro dovrebbe rivolgersi ad un dipendente dicendogli: “che vuoi di più? per questo lavoro io ti pago”. Questa affermazione manca del riconoscimento di quella “gratuità”, ovvero “grazia” ovvero “amore” impagabili. Sicché, come ha ribadito Bruni, senza riconoscimento non c'è quella riconoscenza, della quale noi, esseri umani, abbiamo pur sempre bisogno, in nome di quella reciprocità del dono che dovrebbe rifondare il consorzio umano nell'era globale. Ma, per questa grandiosa opera, è necessario il contributo responsabile degli individui che, come ha affermato ancora l'economista, devono scoprire il loro δαίμων (dàimōn). Questo vocabolo greco unisce il campo semantico del sacro nel senso di “destino” inteso come “vocazione”, con quello economico della “giusta distribuzione” .

Si ritorna così ad un antico invito: “conosci te stesso”. E questa conoscenza, di per sé appagante, ci restituisce la sacralità della nostra unicità. Il senso di pienezza vissuto nell'atto di riconoscersi non verrà meno neanche se saremo costretti a svolgere un lavoro lontano dalle nostre aspirazioni a causa della contingenza economica. Ma non per questo smetteremo di ascoltare la nostra vocazione. Vorrei concludere però con questa postilla: al “conosci te stesso” corrisponde reciprocamente il “riconosci l'altro".
In una società fondata su “riconoscimento e riconoscenza” sarebbero valorizzate le vocazioni e le competenze per un benessere condiviso, ben più vantaggioso di quello ristretto ed iniquo della “economia del profitto”. Forse la nostra Italia, e non solo, soffre la decadenza per aver misconosciuto e disprezzato il sacro dàimōn di ogni essere umano.











giovedì 26 luglio 2012

“Da bambino volevo guarire i ciliegi”

Quest'estate rovente sarà indimenticabile! L'aria greve si addensa su un popolo sofferente, incerto ed incupito dalle notizie sulla crisi. Sul ventennio, all'incirca, di Berlusconi, è meglio non discutere più, e speriamo di avergli detto addio, per sempre. Eppure, questa scomparsa non basta a ridarci fiducia.
Oggi in televisione è riapparso Massimo D'Alema. Il pensiero è andato alla politica della Sinistra, dagli anni novanta in poi. Una china di degrado. Il tradimento degli ideali. La questione morale, già posta da Enrico Berlinguer alla fine degli anni settanta, è una ferita purulenta ulcerata dal comportamento sguaiato di politici mediocri, fanfaroni, che hanno pensato alla loro “dolce vita”, con dissennate scelte demagogiche. I sindacati sono intanto diventati sportelli informativi per cialtroni, grazie al susseguirsi di un coacervo di sindacalisti scioperati che hanno sguazzato nella demagogia per il loro tornaconto, per poi scoprire all'improvviso la crisi, in nome della quale, oggi, blaterano contro il governo Monti, mentre fino ad un anno fa, colpevolmente, lasciavano fare ad un manipolo di rozzi individui, sedicenti uomini di governo.

Chi è oggi alle soglie dei sessant'anni, e non si è lasciato risucchiare il cervello dalla cultura dominante, ma si è fatto custode della memoria storica , non dimentica gli ideali della sinistra, di quei compagni che negli anni sessanta leggevano appassionatamente Marx e vagheggiavano un mondo più giusto. Intellettuali, operai, studenti, tutti insieme sorretti dalla voglia di costruire una società migliore. Ci si credeva davvero. E le città e i paesi erano fucine di progetti umani. La partecipazione alla vita politica chiedeva un progetto economico che garantisse la libertà nella giustizia, la conquista e la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, il rispetto della dignità della persona umana. Questi ideali alimentavano i sogni. Mai più manicomi, ghetti, discriminazioni. Di nessun genere. Ci si credeva davvero! O almeno quelli che partecipavano col cuore, quelli che credevano e credono che la felicità non conosce egoismo, ci credevano davvero e oggi soffrono del tradimento. E questa sofferenza è bruciante più ancora di quella diffusa dalle soffocanti notizie sulla crisi. Quando si vedono sfilare gli uomini e le donne della sinistra, ( ah, le attuali signore della Sinistra! Sempre agghindate ed intonate perfettamente, o abilmente truccate acqua e sapone!) penso al Sommo Poeta, Dante, al suo dolore e alla sua rabbia contro i “traditori di chi si fida”!

Quando, sul finire degli anni ottanta, Achille Occhetto smantellò il Partito Comunista con uno storico congresso grondante delle sue stesse lacrime dopo l'abbraccio di Pietro Ingrao, chissà se era consapevole che di fatto gettava la Sinistra nelle braccia del liberismo, o meglio che la spingeva ad abbracciare la causa del neoliberismo più sfrenato, con la scusa delle esigenze del mercato! Incominciò allora lo smantellamento dello Stato Sociale, connivente la stessa CGIL che, tra l'altro, con un nefasto e nefando Contratto di lavoro, nel 1995, spianò la strada alla scuola – azienda e a quelle riforme che l'hanno vilipesa.

Ma una lezione da questa Storia l'abbiamo appresa! Gli uomini non sono tutti uguali! Paradossalmente, proprio quelli che credono e lottano per l'uguaglianza e la dignità di tutti gli uomini non sono uguali. Costoro sono di Sinistra con il cuore. Nel modo di essere stesso di questi uomini vivono gli ideali di Sinistra, nella convinzione che la felicità è condivisione del benessere e che in una civiltà autentica non c'è bisogno dell'elemosina per garantirsi buona coscienza e Paradiso. Nell'album “Non al denaro, non all'amore né al cielo” di Fabrizio De André c'è una canzone emblematica per i traditori. Il testo racconta di un bambino che vuole diventare medico “per guarire i ciliegi, quando rossi di frutti li credeva feriti”. Ma, una volta cresciuto, quel bambino tradisce i suoi sogni, svendendo il suo amore per i sofferenti in nome di successo e denaro. Come quel bambino si sono comportati gli uomini e le donne della Sinistra, aiutati dalla superficialità di un popolo poco amante della Storia, e favoriti dalla diffusione di quella cultura “liquida" che ha bandito dal cuore umano Μνημοσύνη (Mnemosine) e le Muse sue figlie.

Certamente questa estate rovente finirà, trapassando nell'autunno, che oggi qualcuno auspica "caldo", riesumando una fraseologia vetero-comunista. È auspicabile un autunno "fresco", invece, di ideali rigenerati dai comportamenti civili, e da belle idee da realizzare per il bene comune. È auspicabile la nascita tempestiva di una nuova Sinistra che cancelli al più presto le facce blese e le voci strascicate, le alchimie linguistiche e le affettazioni rutilanti di una genia di traditori.
 


lunedì 4 giugno 2012

Il terremoto fra “termini e parole”


Il sisma recente che ha sconvolto L'Emilia Romagna e il territorio limitrofo ci induce a riflettere sulle decantate “magnifiche sorti e progressive” e sull' “aridità” dei cuori umani allorquando si affidino al de-terminismo pseudoscientifico. Il terremoto di Modena e Reggio Emilia ha smentito la definizione “a basso rischio sismico” riferita al medesimo territorio. Abbiamo poi appreso che la definizione di “territorio a basso rischio sismico” non è stata fondata su indagini geologiche, ma su statistiche geo-storiche calcolate su quella regione. Questa affermazione  dei geologi dichiara, difatti,  la pericolosa fallibilità di un'altra scienza oggi tanto osannata, la statistica, appunto.

Ma non per esternare pensieri negativi si scrive questa nota. Sarebbe, in tal caso, un opporre arroganza ad arroganza. Si vorrebbe piuttosto richiamare alla mente una annotazione di Giacomo Leopardi (Zibaldone 110), con la quale il poeta distingue le “parole”, che sono cariche di immaginazione e, quindi, sconfinate, dai “termini” che, appunto, “determinano e definiscono la cosa da tutte le parti”. Le prime, difatti, sono evocatrici di “arcani mondi”, e appartengono al poeta. Ma Leopardi non nega la “proprietà” delle “parole”, la quale è ben diversa dalla “nudità o secchezza, e se quella (la proprietà) dà efficacia ed evidenza al discorso, questa (la nudità o secchezza) non gli dà altro che aridità.”

E con questo non si vuole negare la validità e la specificità del linguaggio scientifico, ma si desidera riportare al centro la meditazione sull'uomo quale pellegrino della conoscenza nel cammino dei secoli. Tenendo a mente, infatti, che il progresso scientifico si è compiuto grazie alla incessante ripresa, correzione e, talvolta, rivoluzione dei risultati raggiunti, anche i termini scientifici rispetterebbero un margine di indefinibile aperto all'immaginazione di quell'impossibile dal quale la ratio rifugge impaurita.



lunedì 14 maggio 2012

“Si parva licet componere magnis”

Qualche anno fa un amico, al quale sono molto grata, mi prestò un libriccino. Il diminutivo è adatto sia alle dimensioni che al contenuto: tratta, infatti, del campo semantico del “piccolo”, e del “prezioso” associato al “piccolo”. Questa operetta mi torna in in mente ogni qualvolta si alluda alla scarsa importanza delle minoranze. Il fatto è che a me sono sempre piaciute le minoranze.
Tanti, tanti anni addietro, al tempo in cui militavo in un piccolo schieramento politico, il “Partito di Unità Proletaria per il Comunismo”, sentii un signore affermare che scegliere di far parte di “piccoli” gruppi, dalla parte dei deboli, è un indizio di bontà del cuore. Mi piace ripensare a questo. E mi è gradita la connessione incessante del presente col passato. Niente va perso, se la vita è intensamente nelle nostre mani.
Che incanto mi fanno l' “intenso” e il “piccolo”! “Le piccole cose” sono preziose, e intense di emanazioni sensibili. Il libriccino in questione si intitola “La filosofia delle piccole cose”. L'ha scritto una donna, Francesca Rigotti. Passa in rassegna oggetti minuti e sminuiti. La rosa è il più gentile tra quelli narrati. Il più negletto è la scopa, nonostante la nobile funzione di fare pulizia. Ecco, “piccolo equivale a “pulito" e a "polito”. È la celebrazione di “nitore” e “leggiadria” contro “appariscenza”, “tronfiezza” e “calcolo macroscopico”. "Le piccole cose” diventano, allora, metafore di una permanenza del bene celato, amuleti salvifici che impregnano l'esistenza con le loro qualità sensibili, si tratti della “brocca”, del “ferro da stiro”, o persino dell' “infilascarpe” perduto e rimpianto, a cui Montale dedicò versi deliziosi. Defilarsi dal “prestigioso” e scegliere il “piccolo”, prendendosene cura, porta bene e bellezza.
Tra gli oggetti considerati da Francesca Rigotti c'è anche il sapone. Quel panetto di sapone che non è più di moda, perché è stato soppiantato dai più efficienti erogatori di detergenti liquidi. Del resto ci siamo abituati, oggi, all' “efficienza” e all' “efficacia”, sbandierate per la massimizzazione del profitto, a costo della “spremitura” dell' “umano” ridotto a “capitale”. Il sapone, che scivola cremoso sulla pelle, rilasciando schiuma e profumo durevole, mentre le mani lo girano e lo rigirano, è un piacere della lentezza, qualità interdetta nel tempo degli indici dello spread. Tra le cose invisibili, domestiche amiche che prestano silenziose la loro vita ogni giorno, il sapone è quella che si consuma per noi, fino a diventare una lamella sottile che sostituiamo allorquando non possiamo più rigirarla tra le mani. Ed è bello scartare un sapone nuovo. L'involucro emana il profumo che annuncia la forma sinuosa, intatta e liscia, che si consumerà per mondare le nostre mani sporche.
Nel libriccino di Francesca Rigotti, c'è l'acutissimo accostamento tra il sostantivo “mondo" e l'aggettivo “mondo” = “pulito” (cfr. il latino “mundare” e il dialettale campano “munnare”, “ammunnare”) : “Già sappiamo che ciò che è pulito è anche piccolo, bello, netto e ordinato. Potremmo cercarne conferma nel sostantivo italiano “mondo”; esso designa il globo terrestre ma anche, per estensione, l'universo, perché lo si pensava pulito, ordinato (e forse lo era; adesso un po' meno), e magari anche decorato e truccato come il cosmos greco. Il quale, prima di essere mondo, universo, ordine mondiale, è ornamento e abbellimento.” (Francesca Rigotti, La filosofia delle piccole cose, interlinea edizioni, Novara 2004).

Il sapone e il mondo! Di certo questo binomio, oggi, dà da pensare! Quante mani sporche da lavare! Questo mondo non è per niente “mondo”!

Nelle mattine del maggio odoroso mi piace levarmi quando il sole è sorto da poco e, nella piacevole frescura, spazzare e lavare il terrazzo e la scala. Mentre passo lo strofinaccio sui gradini di travertino, dopo aver irrorato i fiori nei cocci, mi sembra che le pietre e le piante mi siano grate. Il nitore intorno a me sa di bellezza. Gli uomini eletti per governare i popoli, ma anche tutti quelli che hanno responsabilità dirigenziali, dovrebbero ispirarsi al lavoro domestico, e operare con la stessa umiltà amorevole delle donne che si prendono cura della casa e dei cari. A volte mi appare tutto così semplice! Ma, come dice il poeta, “si parva licet componere magnis”, ovvero “se è lecito paragonare le piccole cose alle grandi”. Io... penso proprio di sì.


giovedì 19 aprile 2012

Quando cade una lucciola

"...Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d'olivi saraceni affacciata agli orli d' un altipiano di argille azzurre sul mare africano... Raccattata dalla campagna la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle... confesso che di tutte queste cose non mi sono fatta ancora né certo saprò farmi mai un'idea". (Luigi Pirandello)

Un frammento di stella cade. Una scia veloce nel cielo e poi la materia opaca si disperde. Ma una lucciola è un soffio di luce. È difficile immaginare la caduta di una lucciola. Eppure, in questo frammento autobiografico accade, e l'evento si addensa di domande sul mistero della nascita. Una caduta silenziosa, una goccia di luce dalla fonte. La levità di un lumicino intermittente è il respiro neonatale, che appena appena si ode nella solitudine notturna della campagna affacciata sul mare. E quel “caddi” contiene il dolore di venire al mondo. È il mistero della caduta del soffio di luce in una forma. La poetica del grande agrigentino si dibatte in questo mistero. Ci si affanna per lo più a leggere le opere di Pirandello sorretti dall'analisi impietosa di un' “arte che scompone il reale”. Ci si dimentica delle sue stelle e della sua luna, non meno poetica, anche se più conturbante, di quella leopardiana. Chissà se qualcun altro ha pensato a Pirandello come al poeta del soffio vitale! Eppure sono tante le parole che tentano il mistero e si sporgono sull'abisso insondabile della vita. Lui, glottologo e filologo, negò la verità delle parole per tessere il dubbio e lo stupore davanti all'accendersi improvviso di un geranio mentre “una lucciola” abbandona la forma (Novelle per un anno, Di sera, un geranio), o nel contemplare la vita ignara di un filo d'erba (Novelle per un anno, Canta l'epistola). Nella negazione di ogni possibile definizione è il senso della vita. Quasi un senso apofatico. La vita è oltre ogni parola. Un baluginio brulicante e indistinto che soffre di una forma. Per questo, la nascita è una caduta, una lucciola staccatasi dallo sciame e destinata alla prigione dell'identità. Lo scacco è qui. Nell'identificazione limitante. Da questo momento accade il gioco penoso dei ruoli, delle differenze, della verità affermativa. Ma Pirandello insinua pervicacemente il dubbio e spinge fino alla follia il tentativo di denudarsi, di riprendersi la vita autentica oltre “la nascita raccattata” da qualcun altro e “segnata” nei registri dell'anagrafe. Al “caddi” corrisponde il “raccattata”, anche nella durezza delle dentali allitteranti. In questo frammento autobiografico è denunciata la distanza incolmabile tra la vita autentica oltre la forma e l'identificazione anagrafica dell'individuo. Da quel momento si stringono i lacci, familiari o sociali o culturali che siano. Guai a lasciarsi andare, a contravvenire al rigore! Ma questo rigore, che, il più delle volte, noi stessi ci imponiamo, è più orrendo della morte, che scioglierà ogni laccio, perché ci condanna a perdere l' occasione di conoscere la bellezza e l'amore e di commuoversene. Quella bellezza e quell'amore che si svelano anche nel dolore e nel brillio delle lacrime proibite e trattenute, per paura o per pudore che traspaia la fragilità e lo stupore della lucciola sperduta nella solitudine del mondo.

giovedì 12 aprile 2012

"Trenitalia si scusa per il disagio"

Li rigiro tra le mani i due cartoncini bugiardi! Sono beige e celeste con le scritte in neretto. In alto a sinistra il logo delle Ferrovie dello Stato è seguito dal numero di serie evidenziato con l'arancione. Sono i biglietti di andata e ritorno della tratta Nola – Roma Termini, convalidati il 10 aprile, rispettivamente alle ore 6. 43 e alle ore 16. 58. Il prezzo è di euro 11,70 per ognuno. Costo complessivo del viaggio: 23 euro e 40.

Fa freschetto sul marciapiede del secondo binario della stazione di Nola. L'accelerato veloce (quante suggestioni in questa dicitura insensata!) arriverà alle sei e quarantanove.
Sono le sette e i passeggeri sbirciano le auto che attraversano il passaggio a livello ancora aperto.
Il cielo sereno diventa più chiaro, e le sagome della stazione si definiscono più nette, emergendo dal crepuscolo dell'alba.
Alle sette e cinque si ode il dlindlin che annuncia il treno in arrivo mentre si abbassano, finalmente, le sbarre del passaggio a livello.
Eccole le carrozze anzianotte trascinate dalla motrice!
È un trenino corto corto, ma, in meno di tre ore, mi porterà nella capitale, dalla mia amica che mi aspetta per le nove e quarantacinque a Termini. Forse mi accompagnerà alla mostra su Amore e Psiche allestita in Castel Sant'Angelo. Poi andremo a far visita ad una persona cara ad entrambe, e infine pranzeremo a casa sua tra discorsi fitti di affettuose cose. La saluterò dall' “accelerato veloce” alle diciassette e zero otto, circa.
Mi stringo nello scialle. Il treno stride e s'arresta. Ora si apriranno davanti a me le porte automatiche. Mi volto a guardare le altre entrate e i passeggeri che le attraversano. Avverto come un presagio nelle porte chiuse davanti a me. Un capotreno se ne accorge. Accorre. Monta e aziona manualmente il comando dell'apertura.
Sono sul treno. Mi accomodo sul primo sedile dello scompartimento alla mia destra, investita da un' aria calda e pesante. Lo scossone della partenza mi piace. Libero i pensieri, quieta, mentre la signora accanto squittisce sul ritardo in crescendo del treno.
Sono in trance.
Mi accorgo di un certo movimento davanti a me. Sento qualcuno dire che suo fratello ha vomitato. Alzo lo sguardo e vedo il giovanotto indicare il sedile imbrattato ai malcapitati passeggeri che intanto sono saliti a Maddaloni e cercano un posto per sedersi. Si invoca di ripulire il sedile. Due ferrovieri passano di corsa per lo scompartimento. Si spera che abbiano fretta di provvedere alla pulizia. Invano!
Il treno rallenta e si ferma in aperta campagna. Passa un quarto d'ora. Un odore rancido si diffonde. Mi lascio andare al pensiero amichevole di chi mi aspetta. Il motore riprende a borbottare. Ecco, si riparte. Lentamente.
Il treno si trascina alle porte della stazione di Caserta. Sussulta e si ferma di nuovo.
La signora accanto al finestrino squittisce più fittamente e indica trionfante due macchinisti che corrono avanti e indietro lungo il binario. Di sicuro si tratta di un guasto. Un po' più avanti un'altra signora intona il lamento per l'aereo perduto. Si leva un accorato brusio. Non mi scompongo, nonostante l'aria maleodorante. Mi rammarico solo un pochino di non avere in borsa la boccettina di fresca verbena.
Agonizzante, la motrice approda sul binario tre di Caserta. Il Capotreno fa capolino a capo chino e ci informa, sbrigativo, che i signori passeggeri devono scendere. Il treno è guasto. Sul primo binario un treno nuovo nuovo li porterà fino a Cassino dove li aspetta una corriera che li scorrazzerà fino a Roma. Un pensiero lucido velocemente si forma: “fermati qui e torna indietro”.
Vince il desiderio di rivedere l'amica.
Salgo sul treno e, in un silenzioso dondolio, scorro con gli occhi il susseguirsi delle fermate sul monitor del treno all'inglese: Capua...Teano...Vairano Scalo...Cassino.
Sono le nove e quarantacinque. A quest'ora sarei dovuta arrivare a Roma.
Non importa: quanto più sospirato, tanto più bello sarà l'arrivo.
Esco dalla stazione. Nel piazzale antistante non ci sono autobus. Vado nella sala della biglietteria e invano cerco uno sportello per le informazioni. Perentoriamente mi rivolgo a un bigliettaio che, senza alzare il capo, mi borbotta di prendere il treno che arriverà sul terzo binario alle dieci e un quarto. Bene, ho tempo per un caffè e una sigaretta. La accendo al sole. Poi attraverserò il sottopassaggio. La signora che squittiva è lì vicino visibilmente costernata. Un ragazzo sorridente estrae cartine e tabacco. Ci guardiamo tutto sommato divertiti.
Ed ecco arrivare trafelata una sconosciuta che si mette a parlottare con un ferroviere - a duecento metri due corriere per Roma. Una è già partita e un'altra è pronta -.
Alzo i tacchi e, insolitamente agile, sorpasso un minuscolo assembramento di malcapitati viaggiatori e conquisto un posto di seconda fila a destra, accanto ad una giovane e gentile signorina nera. Ci sorridiamo mentre l'autista con modi, ahimè, sgangherati minaccia di non partire se non sono tutti seduti. La signora del lamento per l'aereo perduto declama ora la levataccia alle cinque. Quella degli squittii annuisce. L'autista ribatte che anche lui è in piedi da quell'ora. Comincio a provare un po' di stizza verso Trenitalia e mi concentro per ricacciare le idee “qualunquistiche” sul declino italiano ammantato di “alta velocità”. Per consolarci, l'autista ammonisce che, traffico permettendo, arriveremo a Roma in un'ora e trenta, altrimenti...manco in tre ore! Mi lascio andare al paesaggio. Passano campi verdi, alberi in fiore, casette, cascinali, borghi in collina. Il traffico scorre anche sul temuto raccordo anulare. Alle dodici in punto in Piazza dei Cinquecento posso abbracciare la mia amica la quale, intanto, grazie al mio lungo viaggio, non ha saltato la lezione di Yoga. Le ammicco che ho tenuto un comportamento degno di una maestra di Yoga. La mostra su Amore e Psiche salta, invece. Saliamo a braccetto sull'autobus che ci porta dalla nostra comune amica. Una visita breve ma intensa di speranza. Voliamo, infine a casa sua. Mi accoglie un pranzo affettuoso, un pane coi semi di finocchio impastato da lei. Tutto sa di amicizia. La lungaggine del viaggio è bell'e dimenticata. Mi affaccio da un bel balcone semicircolare sui tetti di Roma, sotto il cielo d'aprile. Sfioro i rami dell'albero che dal giardino sottostante si leva amichevolmente fin lì.
Mi ricordo dei pensieri di Seneca sul tempo: Il tempo non è breve se sappiamo viverlo.
Ma arriva, comunque, il momento di andare. Alle diciassette e zero otto "l'accelerato veloce" parte per Nola. Fino alla stazione si continua a discorrere. Eccoci al binario del treno. Lo annunciano. Ma segue un avviso stentoreo nella confusione assordante della stazione: - il treno ha come destinazione Campobasso, i signori passeggeri che sono diretti sulla linea Caserta - Nola scenderanno a Cassino, dove li attende una corriera sostitutiva del treno. Trenitalia si scusa per il disagio -.

Trenitalia non ha un'altra motrice da utilizzare al posto di quella guasta!

È noto che nella tradizione letteraria, per rendere tangibile la situazione politica di un paese, viene usata la metafora della nave nel mare in tempesta. Del canto sesto del Purgatorio è famosa l'espressione “Nave senza nocchiero” per rappresentare l'Italia. Penso che i treni delle Ferrovie italiane svolgano, oggi, quella funzione simbolica. I vagoni vecchi e sporchi, la motrice in panne, il personale indifferente e incurante del decoro del proprio lavoro, la battuta di scuse grottescamente ripetuta, e infine i passeggeri sbandati, lamentosi e rassegnati raccontano lo stato di un paese malandato come il treno maleodorante del mio viaggio.
Non mi sono schierata nella polemica a tratti tragica sull'Alta velocità in Val di Susa. E in qualche momento le contestazioni mi sono parse pretestuose.
È innegabile, tuttavia, che un progetto tanto dispendioso appaia dettato da velleitarismo incosciente qualora si considerino le carenze dell'azienda Trenitalia. A meno che non si vogliano negare e calpestare i diritti fondamentali dei viaggiatori che usano il treno necessariamente ogni giorno.

lunedì 19 marzo 2012

Dal cielo di Venere

È sempre tempo di scelte. La vita è un viaggio in mare aperto sotto il firmamento. Lo sguardo si appunta agli astri per scegliere la rotta. Quale luce ci guiderà? È una delle domande della vita.

“Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo”.

Dal cielo di Venere Dante guarda il mondo “fuor di strada” mentre dialoga con uno degli spiriti amanti, Carlo Martello, figlio di Carlo d'Angiò, sugli errori compiuti dagli uomini nello scegliere i governanti. Carlo gli ha appena mostrato che la politica tributaria, avida ed esosa, di suo fratello Roberto è stata la causa della rivolta dei “vespri siciliani” e della conseguente cacciata degli Angioini dal regno di Sicilia. L'accusa di Carlo verso Roberto muove da una osservazione sulla “natura” degli uomini: “La sua natura, che di larga parca / discese, avria mestier di tal milizia / che non curasse di mettere in arca”. Con tali parole il principe angioino afferma che l'indole di suo fratello, pur essendo nata da una natura generosa, quella di suo padre Carlo I d'Angiò, si è formata “parca”, ossia incline all'egoismo e all'avarizia, e che, pertanto, avrebbe avuto bisogno di consiglieri dotati del senso della giustizia e dell'equità nell'amministrazione economica dello Stato. Roberto invece si era circondato dell' “avara povertà di catalogna”, ovvero di ministri catalani che avevano angustiato il popolo con tributi esosi ed iniqui.
In questo punto dell'ottavo canto del Paradiso, Dante è ispirato da quella passione politica che guidò il viaggio di tutta la sua vita. Ma l'ispirazione poetica brucia una materia infinita ed è alimentata dal dubbio e dalla “curiositas”. “Com' esser può, di dolce seme, amaro?” Come è possibile, cioè, che la natura sbagli e che, quindi, da un padre generoso nasca un figliolo avaro? Carlo Martello, da questo momento, disegna l'idea di un universo coerente ed armonioso, articolando un'argomentazione deduttiva, secondo la logica formale della Scolastica. La provvidenza del bene si dispiega nella natura per che quantunque quest' arco saetta / disposto cade a proveduto fine, / sì come cosa in suo segno diretta”. Indiscutibilmente, quindi, ogni creatura dell'universo è naturalmente dotata di un senso e di un'inclinazione al bene nell'ordine cosmico. E, conformemente alla sua natura, l'uomo è “civis”, cittadino, ricorda Carlo Martello a Dante appellandosi ad Aristotele. Il discorso di Carlo si anima ora della passione civile del poeta pellegrino, e diventa metapolitico. La polis si forma e si regge con l' aiuto scambievole di tutti i cittadini i quali, necessariamente, devono svolgere ruoli differenti. Accade così “ch'un nasce Solone e altro Serse, / altro Melchisedèch e altro quello / che, volando per l'aere, il figlio perse”. Ogni uomo nasce, pertanto, con un' indole ed una vocazione diversa. Nei versi appena citati, le antonomasie richiamano alcuni ruoli dei cittadini nella polis: Solone è il legislatore, Serse il re, Melchisedèch il sacerdote, Dedalo (quello che, volando per l'aere, il figlio perse) l'architetto-inventore.
Ed eccoci al momento cruciale dell'argomentazione. La natura, nel distribuire i suoi doni, non distingue una casa dall'altra, altrimenti i padri sarebbero identici ai figli. Pertanto, nella provvidenziale natura delle cose è iscritta la diversità e l'assoluta assenza di caste familiari, di classi, o di civiltà superiori, tant'è vero che Romolo nacque da un padre così umile che per nobilitarlo lo si immaginò figlio di Marte. Ma, “Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com'ogne altra semente / fuor di sua regïon, fa mala prova”, ovvero, se le inclinazioni naturali non sono riconosciute in virtù dell'umano discernimento, si diffonde il male e l'infelicità, perché quella natura individuale non si è pienamente realizzata.

Ogni volta che rileggo questo canto io mi commuovo per l'evidenza della verità che esso racchiude, e ne colgo tanti simboli attuali.
Oggi, il discorso di Carlo Martello mi fa pensare alla scuola, alle scelte che si dovranno compiere per il futuro imminente. È certo che una scuola asservita alle leggi del mercato produce effetti dannosi per la Polis. I giovani costretti a “torcere” la loro natura, schiavi del mercato, sono privati del bene più prezioso: la speranza nella realizzazione piena della personalità individuale.
Per non parlare poi dell'ingiustizia sociale che si aggraverà con l'immiserimento della scuola pubblica.
A causa del taglio sofferto dalle discipline umanistiche e sotto la persistente minaccia dei test di verifica, la scuola è di fatti molto più povera. L'obiettivo di queste scelte sembra consistere nella riduzione dell'uomo ad una macchina, proprio quando la complessità della globalizzazione richiederebbe progetti coraggiosi e lungimiranti. Di “teste ben piene” si può fare a meno, di “teste ben fatte” assolutamente no. Ma le “teste ben fatte” nascono dal piacere travagliato della ricerca del sé nello stare con gli altri, nello sperimentare che solo nella convivenza si realizza il senso della nostra umanità. Quest'umanità che è così preziosa nella specularità dialettica con l'altro, come è evidente nel patrimonio dei Classici, come si legge nell'ottavo canto del Paradiso!
E cosa c'è di più bello dell'accompagnare i giovani a conoscersi tornando al metodo antico di Socrate? Socrate, arguto indagatore della natura umana, ci invita ancora al dialogo con l'altro per “iniziare” il cammino della conoscenza, a quello stesso dialogo che i beati intrattengono con Dante. Ma noi sappiamo che è lo stesso poeta a drammatizzare la sua ascesa, che è in realtà una discesa penetrante nel più profondo sé, sul palcoscenico celeste in dialoghi maieutici di conoscenza. E i “maestri” beati sono le personalità pienamente realizzate che nulla più desiderano se non giovare al pellegrino della verità.

È tempo di riflettere per scegliere, quindi. Ed è il tempo di riconoscerci anche come adulti. Le circostanze ci costringono a ripensare anche alla nostra vocazione. Non è più il tempo di proroghe e di alibi. È il tempo della responsabilità personale.
Viene sempre il tempo in cui si fanno i conti con la vita. Ma nulla va cancellato. Ogni traccia configura il cammino, compresi gli smarrimenti e le cadute. E poi, chi potrà dire i termini esatti di una vocazione? Forse è proprio questa la speranza da testimoniare, oggi, anche nella scuola: saper camminare verso la meta liberi dall'ansia e dal timore di mostrare la nostra umana fragilità, l'unica verità inconfutabile, e il fondamento indispensabile per andare incontro agli altri con le mani tese.

giovedì 1 marzo 2012

"Luci" della "steppa"

Quando per lungo tempo guardi il cielo profondo, senza staccarne gli occhi, i pensieri e l'anima, chi sa perché, si fondono nella coscienza della solitudine. Cominci a sentirti irrimediabilmente solo, e tutto ciò che prima consideravi vicino e familiare diventa infinitamente lontano e privo di valore. Le stelle, che già da migliaia di anni guardano dal cielo, il cielo indecifrabile stesso e la foschia, indifferenti alla breve vita dell'uomo, quando resti a quattr'occhi con loro e cerchi di penetrarne il senso, opprimono l'anima col loro silenzio; ti viene in mente la solitudine che attende ciascuno di noi nella tomba, e l'essenza della vita ti appare disperata, orribile...” Anton Čechov, La Steppa.

Sul comodino ogni sera mi attende “La steppa”. Un lungo racconto da centellinare, se si vuole attraversare la steppa in compagnia di Egóruška, l'incantato viaggiatore protagonista, se si vuole sconfinare e bere il firmamento, sdraiati, da un carro trascorrente tra le ombre e i brusii della steppa.
Mi è occorso il caso, ieri sera, di soffermarmi, per poi fermarmelo nella mente e nel cuore, sul passo che ho trascritto sopra.

Stamane, poi, Marzo mi ha abbracciata.
Nitido il cielo definiva ogni cosa. Avresti potuto contare ad uno ad uno gli aghi del pino gorgheggiante. Le primule sorridevano ai garofani sulla scala d'oro.
La steppa era solo un sogno stellato, bellissimo, e conturbante. Ora trionfava il giardino del sole.

Ed ecco la notizia: Lucio Dalla è morto. È morto un amico.

Qualche mese fa un altro Lucio, ricercatore lucido ed appassionato di una terza via del comunismo, anch'egli emiliano, anch'egli amico mio, è morto, ma di sua volontà. Lucio Magri. non ha retto la solitudine del cielo, non è riuscito a parlare alla luna, a lasciarsi confortare dal suo manto nelle sere calanti sulla steppa.

Che strano! In questo luminoso primo giorno di Marzo risplendono gli ideali della mia giovinezza nella malinconia del saluto agli amici che hanno raggiunto Itaca.

Stasera, quando riaprirò le pagine che mi riportano al cielo sulla steppa mi farò accompagnare dalla voce di Lucio Dalla, che della luna era intimo confidente.

l'ultima luna
la vide solo un bimbo appena nato,
aveva occhi tondi e neri e fondi
e non piangeva
con grandi ali prese la luna tra le mani
e volo' via e volo' via
era l'uomo di domani
l'uomo di domani “
http://www.youtube.com/watch?v=7hFfF2Qy-FM

mercoledì 15 febbraio 2012

Suggestioni di un viaggio “All'ombra dell'altra lingua"

“Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E i color vari suscita
Dovunque si riposa;
Tal risonò moltiplice
La voce dello Spiro:
L'Arabo, il Parto, il Siro
In suo sermon l'udì.”
(A. Manzoni, La Pentecoste, vv. 49 – 56).

È un miracolo il soccorso della poesia negli stati febbrili della mente, come una sorgente ristoratrice nell'anelare ad una essenza intravista nella penombra. Una unità perduta. Schegge di materia viva trasportate dal caso al loro destino aspirano all'unità, ad una unione impossibile quanto desiderata. Schegge che urlano la loro finitezza, l'incompiutezza da risolvere. C'è sempre questo dolore nella poesia.
Torno or ora da un viaggio tra le parole. Quelle di Antonio Prete
, con cui ho in comune l'amore per un poeta, il cantore dell' “arcana felicità”, degli “ameni inganni” della “silenziosa luna giovinetta immortal”, ma anche il fingitore acuto di dialoghi impossibili, di favole paradossali e il rivelatore impietoso del deserto che solo il senso della nostra finitezza può infiorare.
Il libro di Antonio Prete si intitola “ALL'OMBRA DELL'ALTRA LINGUA per una poetica della traduzione”. Si tratta di un saggio, ma la lingua in cui è scritto è lirica. È un saggio poetico, o meglio, è un “pensiero poetante”, per usare il titolo di un lavoro dello stesso Prete sul poeta degli “occhi ridenti e fuggitivi”.
Non si tratta infatti di un manuale per traduttori, ma di una tensione lirica al senso dell'esistere vissuta nell'ascolto e nel dialogo che il traduttore intrattiene con un testo. È un ascolto oltre la lingua, un atto di “imitazione” amorevole di chi presta la sua voce ad un altro, destandolo dal silenzio e diffondendone il canto nello “stare tra le lingue”.

Mi frulla ora nella mente che la parola traduzione è vitale. La vita stessa è affidata ad un codice linguistico, il DNA che nel nucleo cellulare contiene le informazioni da trascrivere e tradurre affinché la vita prenda forma.

La lingua è imitazione della vita, la traduzione della muta natura di cui la voce umana riecheggia la verità nel suono delle lingue. L'atto del tradurre comporta un distacco da se stessi, quasi un donarsi per accogliere l'altro. E l'ospitalità vuole discrezione e delicatezza. Con tale disposizione si traduce l'altro, un testo, accogliendolo in sé e nel suono della propria voce, della propria lingua. Nei suoni è adombrata la verità, soprattutto nei suoni della lingua poetica. La lingua poetica ha la forza di una fede, al punto che, come afferma Antonio Prete evocando Mallarmé, "la cosa, facendosi lingua, suono e idea nella lingua, fa esperienza di una disparition in quanto cosa, diviene appunto parola, con la sua energia, la sua singolare nuova presenza, possiamo dire con il suo proprio profumo (quel'antico dantesco profumo della lingua come “pantera profumata”): e tuttavia c'è in questo processo una vibrazione, una sorta di eco e di ombra dello stadio precedente, del prima della parola"( Antonio Prete, ALL'OMBRA DELL'ALTRA LINGUA, Bollati Boringhieri, p.42).

Parola e luce sono al centro dei versi manzoniani che introducono questa mia “traduzione”. La luce è la metafora della parola sacra, “la voce dello Spiro”, la verità, che è una all'ombra del “molteplice” suono delle lingue. La verità, che è “semplice”, risuona “molteplice”: “L'Arabo, il Parto, il Siro / In suo sermon l'udì” nello stesso modo in cui la luce, che è bianca, “Piove di cosa in cosa, / E i color vari suscita / Dovunque si riposa”.

Ecco la poesia, miracolo, speranza sempre verde per gli uomini in cammino nel villaggio globale. Ed ecco la traduzione, non come teoria e pratica dei dotti, ma come un esercizio dello spirito che si mette in ascolto dell'altro, della verità, “oltre le lingue “, “all'ombra delle altre lingue”, e la respira, e la trasfonde e la custodisce nella melodia nuova della sua voce.

domenica 29 gennaio 2012

Esilio e Nostalgia

Il cigno
A Victor Hugo
I
Penso a voi, Andromaca! – Proprio quel fiumiciattolo
umile e triste specchio dove rifulse un tempo
l’immensa maestà dei vostri dolori di vedova,
che ingrossasti di lacrime, quel falso Simoenta,

ha fecondato a un tratto la fertile memoria
mentre passavo per il nuovo Carrousel.
– La vecchia Parigi non c’è più (l’aspetto
d’una città cambia più in fretta, ahimè! d’un cuore):

solo in spirito vedo quel vasto accampamento
di baracche, coi capitelli sbozzati, colonne,
erbe, massi inverditi dall’acqua di pozzanghere
e alle vetrine il confuso ciarpame variopinto.

Là c’era un serraglio una volta. Là un mattino
nell’ora in cui sotto il cielo freddo e chiaro
il Lavoro si sveglia e sospingono gli spazzini
per l’aria silenziosa un torbido uragano,

vidi un cigno fuggito dalla sua gabbia:
con i piedi palmati sfregando il secco selciato
sul terreno ruvido trascinava il bianco piumaggio.
Presso un rigagnolo asciutto col becco spalancato

Tuffava nervosamente le ali nella polvere,
e diceva, il cuore colmo del bel lago natale:
“ Acqua, quando cadrai? Quando tuonerai, folgore?”
Rivedo quell’infelice, mito strano e fatale,

a volte verso il cielo, come l’uomo d’Ovidio,
verso il cielo ironico e crudelmente azzurro,
protendere l’avida testa sul collo convulso,
come se rivolgesse il suo rimprovero a Dio!

II

Parigi cambia! ma niente nella mia malinconia
s’ è mosso! Palazzi nuovi, impalcature, blocchi,
vecchi quartieri, tutto per me diventa allegoria
e pesano più di macigni i miei cari ricordi.

Così davanti a questo Louvre un’immagine m’opprime:
penso al mio grande cigno, con i suoi gesti insensati,
come gli esiliati ridicolo e sublime,
corroso da un desiderio che non ha tregua! E a voi,

Andromaca, dalle braccia del vostro grande sposo
caduta in mano al superbo Pirro, povero agnello,
curva ed estatica presso un sepolcro vuoto;
vedova di Ettore, ahimè! E moglie di Eléno.

Penso alla negra, denutrita e tisica,
che scalpiccia nel fango e cerca, l’occhio smarrito,
gli alberi assenti di cocco della superba Africa
dietro la muraglia infinita della nebbia;

a chiunque ha perduto quello che mai, mai
più si ritrova! A quanti si abbeverano di pianto
e succhiano il Dolore come una buona lupa!
Ai magri orfani, appassiti come fiori!

Così nella foresta dove il mio spirito s’ esilia
Un vecchio Ricordo suona il corno a pieni polmoni!
Penso ai marinai dimenticati in un’isola,
ai priogionieri, ai vinti!…a quanti altri ancora!
(C. Baudelaire, Il cigno, in I fiori del male, trad. di Luciana Frezza, Rizzoli, Milano 1980)

La lettura non va in esilio

“La lettura non va in esilio” è una frase breve ed intrigante . È suggestivo l’accostamento di “esilio” a “lettura”. In una stanza silenziosa, un uomo legge in un esilio beato, mentre fuori si svolgono i drammi del mondo. Penso a voi, Andromaca! Ed ecco che all’improvviso, uno di quei drammi dalla pagina del libro entra nella stanza a “fecondare” la memoria del lettore. E la memoria parla al cuore e gli instilla un sentimento: la nostalgia. Allora “ La lettura non va in esilio” potrebbe essere l’eroica risposta ad un ordine di mettere al bando la lettura, o un moto di ribellione ad una realtà di fatto. In ogni caso, la frase si traduce in immagini di sofferenza e trasmette nostalgia.
Nostalgia è una parola intensa. Allude al nóstos, il “ritorno” in patria degli antichi eroi epici, ma è stata coniata da pochi secoli fondendo nóstos con álgos, il “dolore”, per esprimere il desiderio ardente di ritornare ad un luogo amato, e, più in generale, a quella primigenia condizione felice della quale è impressa indelebilmente nell’ anima una traccia che segna il percorso di ogni utopia e che i miti letterari rappresentano variamente nelle “favole” che dipingono una beata età eternamente rimpianta. Sicché il procedere implica un ritornare. E di questa nostalgia non possiamo fare a meno. La ricorrente evocazione fantastica di un’era felice dimostra che gli uomini non smetteranno mai di aspirare al migliore dei mondi possibili in virtù di azioni che siano dettate da ciò che è buono e da ciò che è bello. Che straordinaro intreccio di significati in quattro parole! Lettura, esilio, nostalgia, utopia. E tutt’e quattro riguardano la Scuola dov’è diffuso il desiderio di ritornare alla traccia ideale di una Scuola possibile, migliore di quella di ieri e di questa di oggi.

Nella Scuola di oggi, il lessico dell’economia prevale su quello della formazione, al punto che la parola “spendibilità” può essere riferita sia agli obiettivi didattici che al budget economico, secondo la logica mercantile dell’utile quantificabile che non tiene in gran conto gli esseri umani come soggetti di azioni buone e belle, le uniche in grado di produrre l’utile per il vivere civile.

Da insegnante esiliata nella scuola del POF, ho colto nel progetto della Fondazione Centro Astalli l’invito alla lettura per tornare alla traccia ideale, che oggi può essere quella che mostra il sentiero dell’intercultura come percorso verso una nuova età dell’oro. Un libro, infatti, ne contiene tanti altri, è una sinfonia di pensieri prodotta dall’eco di mille voci diverse, è un dipinto i cui colori risultano dalla mescolanza, inconsapevole ed insieme sapiente, di infinite tonalità. Il libro è, allora, una finestra aperta sul nostro mondo sempre più polifonico e multicolore. Educarci ed educare all’intercultura ci permetterà di comporre l’armonia, e di impedire che gli interessi economici ed imperialistici, in nome dei quali si possono sfruttare gli sventurati, prevalgano sui valori della conoscenza, dell’incontro e della cooperazione…

La Scuola è lo spazio in cui questi valori possono essere vissuti, proprio attraverso la lettura delle opere letterarie. La letteratura, infatti, è uno dei luoghi in cui è possibile conoscere e riflettere sulle eperienze umane, liete o tristi, fortunate o tragiche come quella dell’esilio. I più antichi poemi di tutte le civiltà narrano di un errante che anela al ritorno. Gran parte della lirica intona il lamento dell’esule. L’esilio è la condizione naturale del poeta che è “re dell’azzurro” , esule sulla terra. Nella Poesia, quindi, ogni esule può sfogare il suo pianto. Per questo, nell’anno scolastico in corso, insieme agli altri testi da proporre ai miei alunni, ho scelto anche la lirica di Baudelaire, sopra riportata, accostandola al passo virgiliano che ha ispirato il poeta dei Fiori del male.

Dai fiori di Baudelaire possono sbocciare altri fiori. Lo spaesamento del poeta davanti alla Parigi che cambia è il nostro smarrimento in questo mondo il cui aspetto “cambia più in fretta, ahimè! d’un cuore” . E Andromaca “ingrossa ancora di lacrime un falso Simoenta” perché ancora Pirro imperversa furente…

Da adolescente, Baudelaire forse incontrò gli esuli per la prima volta proprio leggendo le storie degli antichi eroi . Nutrì di queste favole antiche la sua umanità e le tradusse nel suo canto del cigno. Da questa lirica si effondono la solidarietà con gli esuli, il dolore di chi è strappato dalla propria “superba” terra, il rispetto per civiltà diverse ma non meno splendide. E questo canto io l’ho trasmesso agli adolescenti affinché anche la loro memoria sia fecondata dalla lettura, non per rimpiangere il passato, ma per andare incontro al mondo futuro senza pregiudizi.

No, la lettura non va in esilio! Ancora i miei pensieri germogliano dalla traccia lasciata da un libro. Mi ricordo dell’Antigone di Maria Zambrano, di quando l’eroina, ripensando al suo errare insieme al padre cieco, supplica gli ospiti di accogliere gli esuli non tanto per colmarli di doni, quanto per lasciare che siano loro a dare qualcosa. E proprio con queste parole mi piace concludere “… noi chiedevamo che ci lasciassero dare. Perché portavamo qualcosa che né lì né altrove, dove che fosse, nessuno aveva; qualcosa che solamente ha chi è stato strappato alla radice, l’errante, colui che un giorno si ritrova senza nulla sotto il cielo e senza terra; colui che ha provato il peso del cielo senza terra che lo sostenga” .
(Queste riflessioni sono state scritte nella primavera del 2006 in seguito alla collaborazione con l'associazione Centro Astalli che si occupa dell'accoglienza dei rifugiati politici.)
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