martedì 12 febbraio 2013

“Quello sguardo sottile” che ci manca



Riscontro ancora una volta l'assenza di pietà sulla scena del mondo, ma non è una novità, sebbene il palcoscenico mediatico amplifichi rumorosamente la voglia umana di lasciarsi andare al giudizio della coscienza altrui. Questo comportamento ci dice quanto sia più facile giudicare che testimoniare, anche nel dialogo conflittuale, innanzitutto con la propria coscienza, la sostanza della fede. Davanti a un fatto di risonanza mondiale è normale che tutti ne cerchino una interpretazione. Ma nel frastuono generale prevale l'onda emotiva. E l'emozione può essere cattiva consigliera. L'emozione è infatti la reazione istantanea che, se non è sorretta da intuito empatico, non avendo il tempo di essere temperata dalla ragione, può indurre alla sconsideratezza. Quante tristi rappresentazioni hanno offerto le emozioni collettive! Non sono lontane le scene di moltitudini di uomini che si accaniscono sul cadavere del tiranno o che osannano la sofferenza umana, esibita come sfida alla fragilità e al silenzio del declino. L'emozione, priva di sentimento profondo, si compiace della ritualità, sospinge la folla in cerca di presunti eventi prodigiosi e può radunarla sotto la finestra di un vecchio papa sofferente che, fino alla fine, si aggrappa al plauso delle masse per fuggire la paura della solitudine e della morte.
Mi sembra che oggi prevalga a tal punto il desiderio di dominare la scena e di esibirsi, che abbiamo quasi perso del tutto capacità e volontà di considerare che solo il mistero intimo dell'uomo è sacro. L'acribia analitica distorce la comprensione, perché dissolve nella fredda disamina della logica l'essere inafferrabile della persona. Fermarsi a comprendere quali orizzonti sconfinati schiuda la percezione della propria impotenza sarebbe un esercizio ascetico e di misericordia. Penso specialmente a chi è avanti nel cammino della vita e non sempre tiene il passo con la velocità intricata del nostro tempo. “L’aspetto d’una città cambia più in fretta, ahimè! d’un cuore mortale”, leggiamo nella poesia “Il Cigno” di Charles Baudelaire, che nella sua Parigi in mutamento si sentì esule come un cigno in cattività. 
Accade la solitudine, accade la stanchezza, accade la pietà per la propria fragilità. Si tratta della pietà caritatevole, del momento in cui la resa è coraggio e la rinuncia è testimonianza di amore e speranza. “Ingravescente aetate”, è una dolcissima espressione, un sospiro sereno, che ci sfugge. Sfugge ad un mondo in cui la vecchiezza è considerata turpe, presagio odiato della fine. Eppure viverla è un atto di grande vitalità, una vitalità che non ha niente a che vedere con la cosmesi del corpo. Viene il momento per ogni creatura di sentire il richiamo di un ritiro nell'intimo dove voci silenziose cantano melodie cercate per tutta la vita. Melodie segrete e seducenti. Non ci si ritira dal mondo, ascoltandole. Vi si è diversamente presenti. Quella presenza della storia vivente nell'uomo che non vuole più affannarsi e che contempla con distaccata comprensione gli eventi che pure dovranno fare il loro corso. A volte, però, la memoria si ribella, scossa dalla sedimentazione di tante battaglie perse, dalla illusione indimenticabile dei sogni giovanili e dalle prove insuperate della vita. Stamattina dal vociare entusiasmato della radio mi è arrivato anche l'auspicio che il prossimo potrebbe essere un papa nigeriano, vicino alle idee della Teologia della liberazione. Ho pensato, nella mia ignara semplicità, che la liberazione è affidata esclusivamente alla nostra pietà. E mi sono sentita, in semplicità, vicina al papa del rigore fragile. Mi sembra che tanto chiasso teorico sulla liberazione non trovi riscontro nei comportamenti di fatto. Ho pensato a chi, per esempio, si trovi ad avere un familiare diverso e vive il dramma in prima persona. Ho pensato a un padre vecchio come il papa, e all'amoroso rifiuto, e ho sorriso all'immagine di tanti progressisti della chiesa e della politica , i quali, sventolando la bandiera della tolleranza e dei diritti, a volte solo per tenere o conquistare la scena, non hanno alcuna empatia coi drammi delle vite umane. Mi sono, poi, parse penosamente inadeguate le esternazioni che hanno voluto mettere in risalto il pesante retaggio toccato al papa tedesco, successore di quello polacco. Il papa delle folle osannanti o piangenti era un'icona molto più ieratica del potere di questo papa schivo e a disagio, che fugge gli assembramenti plaudenti, ma che è forse più attento all'ascolto del prossimo sofferente. E chissà che non sia stata la disponibilità ad un'attenzione più individuale a spingere Joseph Ratzinger ad affacciarsi sul mondo dei social network! Molto più delle domande politiche e culturali e di tutte le interpretazioni suscitate dalla scelta del Papa, sarebbe importante riflettere sulle possibilità offerte da questo evento. La più straordinaria sarebbe quella di scegliere la strada della fratellanza nello spirito, tacendo per sempre sulle scelte civili dei singoli Stati. Così dovrebbe essere anche per ogni credente. La fede non ha niente a che vedere con le leggi dello Stato. Ma certamente un seguace di Cristo, qualsiasi posto occupi nella Chiesa, saprà essere un cittadino al quale stanno a cuore i diritti dei consimili, e, come tale, in piena libertà farà le sue scelte politiche nella comunità statale di appartenenza.

giovedì 7 febbraio 2013

Didone deve morire


Seduta alla tastiera del p. c., sento le Furie ispiratrici. Soffiano contro il Fato della Storia ingiusta, ruspa spietata dell'umiltà, scavatrice di fosse per i vinti, ai quali consacra poi giornate di imbalsamata memoria.
Questa giornata di pianto celeste voglio consacrarla a Didone, regina dei vinti dal fato della Ragion di Stato. La stessa Furia della regina Didone muove le mie dita contro il vincitore Enea. Un'altra interpretazione vi propongo dell'eroe troiano. Non è lui il simbolo dell'esule. Il pio Enea è il modello del Potere empio, di quei Romani “rapitori del mondo” che, “laddove hanno fatto il deserto, dicono di aver portato la pace”. Virgilio ne era consapevole, ma i tempi della Pax Augustea esigevano il conformismo degli artisti. Si è salvato, tuttavia, dalla cortigianeria ruffiana l'illustre mantovano, grazie alla narrazione tragica dell'espugnazione di Troia del secondo libro dell'Eneide e a quella lirica del dramma di Didone del quarto.
Nella mitografia antica Didone è la regina della città fenicia di Tiro, costretta a fuggire dalla patria col suo popolo per sottrarsi alla tracotanza del fratello Pigmalione che, dopo averle ucciso il marito Sicheo, vuole spodestarla. Approdata sulle coste dell'attuale Libia, Didone ottiene, dai re autoctoni, il permesso di fondare una città estesa quanto la pelle di un bue. Non si scoraggia l'esule regina. Taglia la pelle in sottilissime strisce e ne ricava una superficie grande abbastanza per edificare una città che diventi la patria del suo popolo. È fondata in questo modo Cartagine. Qui viene accolto Enea e da qui prende avvio il racconto virgiliano. L'eroe, figlio di Venere, è esule da Troia, e anche lui è in cerca di una nuova patria. Gli dei gli sono avversi, soprattutto Giunone, presaga che la stirpe di Enea un giorno distruggerà Cartagine, a lei più cara di ogni altra città che le è stata consacrata. Ma ad Enea non è avverso il Fato, “ciò che è stato detto” immutabilmente per il corso della storia. Enea è obbediente al Fato dei vincitori. Bello, forte e seducente narratore delle sue disgrazie, innamora di sé Didone, che per lui sente rinascere nel cuore l'ardore dell'“antica fiamma” dell'amore. Didone è combattuta tra la passione e la sua dignità regale. Anna, la sorella, la conforta e la incita a cedere all'amore per l'ospite straniero - una donna sola non può regnare, il suo popolo sarà più sicuro sotto l'egida di uno sposo re -. Cede Didone, al convincente discorso di Anna apparentemente, al sentimento “che vince ogni creatura” in verità. Credo che tutti sappiano come finisca il racconto virgiliano. Dopo che Mercurio, messaggero degli dei, è giunto da Enea a ricordargli di obbedire al Fato che lo vuole progenitore dei Romani, l'eroe saluta la regina e si allontana per sempre da Cartagine. Didone, allora, salita sulla pira, ingannevolmente eretta per festeggiare la partenza dell'ingrato amante, si trafigge con la spada donatale dallo stesso Enea.

Didone deve morire, come ha decretato il Fato, non per suggerire lacrimevoli melodrammi simili alla “Didone abbandonata” del cortigiano Pietro Metastasio. Didone deve morire perché è una donna, simbolo sacro di fragilità.
Ho letto poco nella mia vita, conosco poche cose. Ma quel poco che ho letto è inciso nell'esperienza vissuta della fragilità di donna che ha, perciò, appreso a leggere testi viventi. Tra i testi inscritti nella mia memoria c'è l'interpretazione del quarto libro dell'Eneide proposta dal latinista Antonio La Penna. Il mio ricordo di questo testo non è letterale, ma vivissimo. Del resto, chi dei miei due o tre lettori lo vorrà, potrà recuperare lo scritto esatto nel web, l'immenso labirinto di dati attraverso il quale, tuttavia, solo la memoria umana può rintracciare connessioni che abbiano un senso. L'insigne studioso sostiene che Didone si uccide non per l'abbandono di Enea, ma per la tragica consapevolezza della perduta dignità di donna e di regina. Didone, vinta ed esposta al ludibrio della storia, non può sopravvivere. Sentimento contro Ragione, in questo consiste il conflitto tra Enea e Didone. Il dono assoluto della femminilità è ridicolizzato dal potere maschile vittorioso nella Storia come unico modello possibile di una Pax Augustea violenta e sprezzante delle vittime da mietere. Didone deve morire, come Creusa prima di lei, come Antigone ancor prima e come tante altre creature che ostacolano il Fato. I ribelli al Fato, come scrisse Antonio La Penna, si macchiano dell'irrazionalità di un sentimento che non conosce i limiti di ciò che è “ragionevolmente” imposto. Nel quarto libro dell'Eneide, dedicato alla sfortunata Didone, è leggibile la poetica autentica di Virgilio, la sua visione della storia dominata da una ingiusta inesorabile ragione. Il cantore della grandezza dell'Impero Romano è in realtà il poeta dei vinti, che alle “genti svela di che lagrime grondi e di che sangue” l'iniqua Ragion di Stato.



martedì 5 febbraio 2013

Meditazioni da un'assemblea sindacale



Stamattina, a scuola, ho partecipato ad un'assemblea sindacale della CGIL. Quando sono entrata nell'aula magna, pur essendo in ritardo di una decina di minuti, ho visto pochissimi lavoratori. Siccome avevano tirato le tende sui finestroni, la stanza semibuia, oltre che semivuota, mi ha accolta malinconica. Alla parete dietro il tavolo delle conferenze era già pronto lo schermo per il proiettore di slide. Due sindacalisti dallo sguardo spento attendevano, invano, che la stanza si affollasse. Mi sono seduta in prima fila, tra due pazienti colleghi. Ero impaziente, io, invece. Il fatto è che, nonostante l'età avanzata e i disinganni, non riesco proprio a capacitarmi dello sconforto supino dei lavoratori della scuola. Continuo a sperare in un risveglio civile che ridia linfa all'intellighenzia inaridita della cultura italiana. Penso infatti che i lavoratori della scuola celino una vitalità quotidianamente rinnovata dal dialogo con i giovani, e siano, perciò, molto più sensibili e lungimiranti di tanti intellettuali in primo piano sulla scena politico – culturale del nostro paese.

Finalmente viene acceso il proiettore. Sullo schermo bianco passano le slide con elenchi di cifre in blu. Uno dei due sindacalisti con voce monotona le legge e le commenta, prolissamente patetico, mettendo in rilievo la disapprovazione della CGIL riguardo ai tagli del fondo d'istituto per pagare gli scatti di anzianità. Un lamento autoreferenziale di circa due ore! Tento invano di intervenire. Ma lui, teatralmente, asseconda con cenni e con parole le lamentele accorate che qualcuno osa esprimere, e mi ignora. Dice di essere un insegnante che “fa” Italiano e Latino e che ora i soldi sono pochi anche per comprare “un pantalone”. Rivedo, allora, il volto ironico della mia maestra Ada mentre mi sottolinea con la penna rossa “pantalone” chiedendomi cosa c'entri mai la maschera di Pantalone con i calzoni. - Purista pedante! – (ecco, m'immagino pure l'accusa). Aspetto il momento del dibattito. Inutilmente. Il sindacalista che fa da spalla, tetro, distribuisce le schede per votare Sİ o No alla linea dura della CGIL. Il voto è segreto, ma io esibisco il mio NO, in piedi, decisa. Il sindacalista mi ignora ancora. Spero nel dibattito. Nossignori. La spalla raccoglie le schede nell'urna e ci congeda. Mi avvicino e dico loro, indignata, che il sindacato è finito. Mi guardano con arrogante indifferenza, grigi e senza battere ciglio, quando accenno loro che protesterò sul sito web del sindacato. Esco dall'aula e mi avvio verso le scale per recarmi in classe. Lungo i corridoi continuo il mio monologo rivolgendomi ai tolleranti colleghi che assentono sapientemente ridenti. Qualcuno esclama - che salute! -.
Entro in classe. Siamo alle prese con Sallustio. Ecco il ritratto parallelo di Cesare e Catone! Toh! Lggiamo della clemenza di Cesare e dell'ntegrità di Catone. “Caesar dando, sublevando, ignoscendo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est” - Cesare ottenne la gloria con le donazioni, la generosità e la clemenza, Catone, invece, senza fare nessun favore a nessuno -. “Esse quam videri bonus malebat”- Catone all'apparire buono preferiva l'esserlo -. E Catone non si fece sedurre dalla magnificenza di Cesare, voleva la libertà. E per la libertà “non gli fu amara in Utica la morte”.
Ritorno col pensiero allo squallore dell'assemblea. Penso che i lavoratori devono rifondare il sindacato senza delegare a rappresentanti, squallidi carrieristi autoreferenziali, la difesa dei loro diritti. Rimugino sulla speranza che gli italiani non si lascino abbindolare da imbonitori piazzisti. Ma non riesco a scuotermi del tutto da una insistente malinconia. Vago allora tra i suoni belli della poesia per riprendermi in compagnia dei grandi che sempre ci sostengono in fiducia.

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Ohimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale?
(G. Leopardi, All'Italia, vv. 1-12)