martedì 5 febbraio 2013

Meditazioni da un'assemblea sindacale



Stamattina, a scuola, ho partecipato ad un'assemblea sindacale della CGIL. Quando sono entrata nell'aula magna, pur essendo in ritardo di una decina di minuti, ho visto pochissimi lavoratori. Siccome avevano tirato le tende sui finestroni, la stanza semibuia, oltre che semivuota, mi ha accolta malinconica. Alla parete dietro il tavolo delle conferenze era già pronto lo schermo per il proiettore di slide. Due sindacalisti dallo sguardo spento attendevano, invano, che la stanza si affollasse. Mi sono seduta in prima fila, tra due pazienti colleghi. Ero impaziente, io, invece. Il fatto è che, nonostante l'età avanzata e i disinganni, non riesco proprio a capacitarmi dello sconforto supino dei lavoratori della scuola. Continuo a sperare in un risveglio civile che ridia linfa all'intellighenzia inaridita della cultura italiana. Penso infatti che i lavoratori della scuola celino una vitalità quotidianamente rinnovata dal dialogo con i giovani, e siano, perciò, molto più sensibili e lungimiranti di tanti intellettuali in primo piano sulla scena politico – culturale del nostro paese.

Finalmente viene acceso il proiettore. Sullo schermo bianco passano le slide con elenchi di cifre in blu. Uno dei due sindacalisti con voce monotona le legge e le commenta, prolissamente patetico, mettendo in rilievo la disapprovazione della CGIL riguardo ai tagli del fondo d'istituto per pagare gli scatti di anzianità. Un lamento autoreferenziale di circa due ore! Tento invano di intervenire. Ma lui, teatralmente, asseconda con cenni e con parole le lamentele accorate che qualcuno osa esprimere, e mi ignora. Dice di essere un insegnante che “fa” Italiano e Latino e che ora i soldi sono pochi anche per comprare “un pantalone”. Rivedo, allora, il volto ironico della mia maestra Ada mentre mi sottolinea con la penna rossa “pantalone” chiedendomi cosa c'entri mai la maschera di Pantalone con i calzoni. - Purista pedante! – (ecco, m'immagino pure l'accusa). Aspetto il momento del dibattito. Inutilmente. Il sindacalista che fa da spalla, tetro, distribuisce le schede per votare Sİ o No alla linea dura della CGIL. Il voto è segreto, ma io esibisco il mio NO, in piedi, decisa. Il sindacalista mi ignora ancora. Spero nel dibattito. Nossignori. La spalla raccoglie le schede nell'urna e ci congeda. Mi avvicino e dico loro, indignata, che il sindacato è finito. Mi guardano con arrogante indifferenza, grigi e senza battere ciglio, quando accenno loro che protesterò sul sito web del sindacato. Esco dall'aula e mi avvio verso le scale per recarmi in classe. Lungo i corridoi continuo il mio monologo rivolgendomi ai tolleranti colleghi che assentono sapientemente ridenti. Qualcuno esclama - che salute! -.
Entro in classe. Siamo alle prese con Sallustio. Ecco il ritratto parallelo di Cesare e Catone! Toh! Lggiamo della clemenza di Cesare e dell'ntegrità di Catone. “Caesar dando, sublevando, ignoscendo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est” - Cesare ottenne la gloria con le donazioni, la generosità e la clemenza, Catone, invece, senza fare nessun favore a nessuno -. “Esse quam videri bonus malebat”- Catone all'apparire buono preferiva l'esserlo -. E Catone non si fece sedurre dalla magnificenza di Cesare, voleva la libertà. E per la libertà “non gli fu amara in Utica la morte”.
Ritorno col pensiero allo squallore dell'assemblea. Penso che i lavoratori devono rifondare il sindacato senza delegare a rappresentanti, squallidi carrieristi autoreferenziali, la difesa dei loro diritti. Rimugino sulla speranza che gli italiani non si lascino abbindolare da imbonitori piazzisti. Ma non riesco a scuotermi del tutto da una insistente malinconia. Vago allora tra i suoni belli della poesia per riprendermi in compagnia dei grandi che sempre ci sostengono in fiducia.

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Ohimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale?
(G. Leopardi, All'Italia, vv. 1-12)

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