martedì 5 ottobre 2010

Il bacio dell'uomo libero

Ci sono nella letteratura pagine brucianti di verità. In esse ogni parola è materia prima, fuoco ardente che rapisce e illumina i nodi essenziali della storia umana. Una di queste pagine è “La leggenda del Grande Inquisitore”, costruzione drammatica di un dialogo tra due fratelli, Ivàn, tormentato cercatore, ardente della sua logica di ghiaccio, e Alëša, mite viandante dal cuore puro, che, sospendendo ogni giudizio sull'umanità, procede sereno e lieve per le strade della vita. “La leggenda del Grande Inquisitore” è un racconto drammatico incastonato come una gemma nel romanzo I Fratelli Karamazov, sintesi poetica dell'immenso Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Ho usato l'aggettivo “drammatico” perché il racconto è costruito da Ivàn sulla scena del dialogo con Alëša. La storia è quindi metanarrativa e contiene drammaticamente il pensiero dell'autore in un denso e complesso intreccio di piani del racconto. Tempi e spazi dell'immaginazione e della realtà si intersecano, in un gioco di specchi che moltiplicano i punti di vista, disorientando il lettore costretto a salire sul palcoscenico del dramma. Dostoevskij affida ad Ivàn le domande sul destino della vita umana e sull'ordine del mondo. Ivan prova orrore per il disordine e il male. Intelligente, colto, brillante, egli è oppresso dalla vergogna del padre, Fëdor Pàvlovič, vizioso impenitente, e dei fratelli Dmìtrij e Smerdjàkov, istintivo e violento il primo, sordido frutto di un vile stupro il secondo. Dal profondo del cuore il disgusto e l'astio opprimono Ivàn. Da questo disgusto nasce in lui l'idea che con il potere di una superiore ragione si possa stabilire un ordine in nome del quale ad un uomo “tutto è lecito”. Perciò Ivàn si vota interamente alla ragione e giunge a formulare ambiziosi teoremi, la cui logica ferrea si rivela in definitiva come una gabbia intollerabile per la coscienza.
Come può ergersi nella grandezza l'uomo? Come può eliminare il male e il dolore dal mondo? Sfidando Dio. Arrogandosi il potere determinante la vita stessa degli esseri umani. C'è in Ivàn questo desiderio di far tornare a tutti i costi i conti della vita. Egli immagina l' “onnipotenza” dei grandi uomini ai quali “tutto è lecito” e la incarna in un fantastico Grande Inquisitore. È così che Ivàn dà corpo alla sua idea e inventa una storia che racconta ad Alëša.
Ecco in breve la trama.
Nel sedicesimo secolo, a Siviglia, nel corso di un autodafé in cui “ bruciavano gli eretici” per volere del cardinale “grande inquisitore”, il Re Celeste “nella sua immensa misericordia torna nuovamente tra gli uomini in quella sua forma umana in cui quindici secoli prima era vissuto tra gli uomini per trentatré anni”. La folla che assiste ai roghi spietati voluti dall'inquisizione Lo riconosce immediatamente e riprende a sperare. L'amore si risveglia nei cuori stracchi e spenti. La forza dell'amore agisce anche manifestamente nel ritorno alla vita di una bimba giacente in un bara sommersa di fiori. Il Grande Inquisitore scorge Cristo e subito è colto e impietrito dal terrore. Lui è tornato. La presenza di Cristo può rinnovare negli animi degli uomini il desiderio di quella libertà in nome della quale Egli offrì la sua vita. Il vecchio cardinale sente che il suo potere è in pericolo. Immediatamente ordina l'arresto di Cristo. Lo visita in carcere. Gli rivolge domande incalzanti. Perché è tornato? Perché vuole turbare la pace faticosamente stabilita dagli uomini grandi e potenti sugli uomini bambini che hanno paura di essere liberi? Gli uomini hanno terrore della libertà. Liberi, si aggirano sulla terra oppressi dalla fame, dal mistero della morte, dalla fatica della coscienza che li pone davanti alle scelte più angustianti nel consesso dei simili. Il potere del Grande inquisitore ha fondato la pace accogliendo in sé la forza onnipotente “dello spirito penetrante” che nel deserto pose a Cristo le tre domande che racchiudono tutta la storia dell'umanità. È la storia drammatica dei bisogni materiali, della paura del dolore e della morte, della necessità di prostrarsi innanzi ad una autorità suprema. Accogliendo quelle tre domande, ovvero mutando le pietre in pane, buttandosi giù dal tempio, accettando il potere nel prostrarsi al potere, Cristo sarebbe stato davvero seguito docilmente dagli uomini. Ma Lui era venuto a sovvertire l'ordine, a sconfiggere ogni paura, a testimoniare la libertà della coscienza rispetto ad ogni potere. Perciò Il Grande Inquisitore inveisce contro il prigioniero silenzioso, e lo accusa con parole tremende: “Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l'hai ulteriormente accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e persino la morte è più cara all'uomo della libera scelta tra il bene e il male? Non esiste nulla di più seducente per l'uomo della libertà di coscienza, ma nulla è altrettanto straziante”. Ed ora Cristo è tornato a turbare l' ordine faticosamente stabilito, quell'ordine che garantisce per sempre la separazione del bene dal male. Che importa se a quest'ordine gli uomini sacrificano la libertà? La schiavitù è garanzia della felicità!
È da brivido il grandeggiare dell'inquisitore che si erge a vittima onnipotente per garantire la felicità degli uomini schiavi. La lettura ci fa vibrare per l'altezza tragica del discorso del vecchio inquisitore, esangue nel volto, estenuato dal fuoco del suo pensiero e della sua orazione. E il lettore è scosso dal dramma universale inscenato dalla fantasia febbricitante di Ivàn.
Si rivede, il lettore, ora in quell'oscuro “potere” che smania di onnipotenza, ora nella fragilità degli uomini “deboli che sono solo dei poveri bambini”. Ma vibra di orrore e pietà per se stesso, il lettore, ascoltando le parole rivolte a Gesù dal Grande Inquisitore: “Oh noi consentiremo loro anche il peccato, certo, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso con il nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo, e che, quanto al castigo per tali peccati, lo assumeremo noi sulle nostre spalle. Così faremo ed essi ci adoreranno come benefattori che si sono fatti carico dei loro peccati dinanzi a Dio. … Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi guarderanno alla nostra decisione con una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dover decidere liberamente e in prima persona... Essi moriranno in pace, in pace si spegneranno nel Tuo nome e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto e per la loro stessa felicità li culleremo nell'illusione di una ricompensa celeste ed eterna”.

Come non sentire un moto di ribellione a tanta iattanza? Come non rabbrividire nel gelo di una ragione tiranna che disegna un mondo senza disubbidienza, popolato di bambini irresponsabili e schiavi soddisfatti di miseri trastulli? Come non sentire il segno della sacra responsabilità di ciascuno di noi nella libertà sacra che ci fa uomini?
E poi, d'un tratto, il nostro orrore si tramuta in compassione. IL grande inquisitore ha paura del suo silenzioso prigioniero. Teme che gli uomini possano svegliarsi dal loro infantile letargo. E conclude perentoriamente il suo discorso dicendo : “Domani ti farò bruciare: Dixi”.
Ma a questo punto mutano i nostri sentimenti. Anche noi, come Alëša,. avvertiamo che il discorso di
Ivàn non è una condanna, ma “un elogio di Cristo” e, aggiungo io, della nostra libertà.

E come non essere toccati dal duplice epilogo di questa emblematica sacra rappresentazione! Alle domande incalzanti del vecchio Inquisitore Cristo non risponde parola, ma gli si accosta e “lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui”.
Ho esordito accennando che Il Grande Inquisitore è un racconto in divenire sulla scena di un dialogo. Un racconto nel racconto costruito come un gioco di specchi. Specularmente, infatti, anche Alëša bacia Ivàn.
Il duplice bacio è un suggello d'amore a placare il tormento delle domande smaniose di un cuore senza pace.

Quando ripenso a quest'opera mi invade un senso di gratitudine e la voglia di diffonderne la lettura come un dono inesauribile per l'umanità. Quanti commenti ne sono stati fatti! Critici e filosofi ne hanno dato miriadi di interpretazioni. Io non volevo aggiungere commenti, né mi azzardo a dimostrazioni attualizzanti. Avrei voluto far balenare un assaggio della mia commozione. Scrivere lo scuotimento che la scena provoca. Voleva questo il grande Fëdor Michajlovič: strattonarci fino in fondo all'anima pietrificata dal ghiaccio di Ivàn. Misero Ivàn! Nella folle smania di onnipotenza, reprime la sua fragilità bambina e seppellisce nel ghiaccio del ragionamento la compassione e l'amore. Asserendo che “tutto è lecito”, e meditando freddamente il parricidio, egli manipolerà la coscienza del misero Smerdjàkov e farà di lui un assassino e un suicida.

Ma, specularmente al Cristo innanzi al Grande Inquisitore, davanti a Ivàn c'è Alëša. Come il vecchio cardinale, anche Ivàn sente ardere nel cuore il bacio ricevuto. La smania di onnipotenza per un po' si incrina. Il ghiaccio del cuore sembra disfarsi. La Leggenda termina col Grande Inquisitore che, come tramortito, lascia andare il suo Prigioniero “per le oscure vie della città”. Finito il drammatico racconto, anche Ivan si separa da Alëša prendendo una strada opposta a quella di lui. Ma nel salutare Alëša, Ivàn, con voce implorante, dichiara il suo bisogno di amore: “A me basta che tu sia qui, in qualche luogo, per non perdere la mia voglia di vivere”.