domenica 3 gennaio 2021

Amore e Conoscenza

 O voi che siete in piccioletta barca,

desiderosi d’ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

    tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, ché forse,

perdendo me, rimarreste smarriti.

    L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;

Minerva spira, e conducemi Appollo,

e nove Muse mi dimostran l’Orse.


I versi sopra trascritti compongono l’incipit del secondo canto del Paradiso. Qui Dante ci invita a dotarci di strumenti sicuri per accedere a una conoscenza superiore a quella resa possibile dalla “curiositas” della “ratio” che indusse Ulisse al “folle volo”. La barca dell’eroe greco fu travolta dalla sua  ύβρις (tracotanza).

Quella del Sommo Poeta è condotta, invece, non solo dalla sapienza di Minerva e dall’arte delle Muse, ma dallo stesso Apollo, ovvero dall’Amore Divino.

Più avanti, nel medesimo canto, con un’argomentazione sublime, Beatrice prima confuta le ipotesi umane sulle macchie lunari, poi costruisce la sua tesi metafisica culminante in un passo entusiasmante:


Questi organi del mondo così vanno,

come tu vedi omai, di grado in grado,

che di sù prendono e di sotto fanno.

    Riguarda bene omai sì com’io vado

per questo loco al vero che disiri,

sì che poi sappi sol tener lo guado.

    Lo moto e la virtù d’i santi giri,

come dal fabbro l’arte del martello,

da’ beati motor convien che spiri;

    e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,

de la mente profonda che lui volve

prende l’image e fassene suggello.


Per chi volesse ascoltare l’incipit cantato, riporto in fondo un link ad un brano, amatissimo da mia figlia Marta che me l’ha fatto scoprire, composto dal polacco Zbigniew Preisner per il film La doppia vita di Veronica. 

Auspico, infine, che le mie riflessioni inducano coloro che vi si imbattono a leggere il secondo canto del Paradiso. “Poca favilla gran fiamma seconda”. 

Buona navigazione 🌟


https://youtu.be/7bHC8XEfEYk

lunedì 6 gennaio 2020

Etty e le altre

In ritardo rispetto alla sua pubblicazione, ho finito da poco di leggere La masseria delle allodole di Antonia Arslan. Il libro narra il genocidio degli Armeni e la loro diaspora nel 1915, tessendo i fili del racconto, avanti e indietro sulla spola della memoria ereditata. Antonia, in fondo al prologo, scrive infatti che per lei le grandi cupole della basilica sono come navi possenti, e veleggiano maestose da Occidente a Oriente, fino a posarsi su una piccola città della Turchia, in quello stesso territorio dal quale Antenore, esule da Troia, veleggiando da Oriente a Occidente, giunse in Italia e (luce straordinaria del racconto mitologico) fondò Padova.
E proprio a Padova, tremila anni dopo, fuggendo dalla Turchia come Antenore, era arrivato Yerwant, il nonno dell'autrice, Antonia, che porta lo stesso nome del Santo portoghese col fiore di giglio in mano.
Sul pano estetico, di una lettura conservo le sensazioni diventate parte di me. E così è stato anche questa volta. A libro ormai chiuso, l'odore della morte si mescola ai profumi esotici: le mani che sanno di cannella e di noci di Azniv, seduta sulla panchina del bersò a sfogliare un romanzo francese un po' audace sotto la volta profumata da cui pendono le grandi rose rosso-sangue, che fioriscono una volta l'anno, proprio alla fine di aprile; i colori cruenti dell'eccidio dei maschi presso la masseria e quelli cupi della inutile fuga delle donne cacciate ad Aleppo si confondono nella policromia scintillante di oggetti femminili: gioielli e pietre preziose custoditi da Shushanig, la grande madre dolorosa, icona splendida di una composta determinazione; gli occhi brillanti e furtivi di Ismene, la prefica greca devota e generosa, e i suoi misteriosi fazzoletti colorati, che a volte annoda e snoda velocemente in un gioco di destrezza mirabile.
Sul piano intellettuale, di questa narrazione della tragedia armena mi rimane la meditazione sulla Storia, che si ripete, attraversata dalla hỳbris, e sulla memoria, governata dalla vendetta, che di volta in volta sposta le accuse da un popolo all'altro, quando i genocidi accadono.
Sul piano emotivo, sono indotta a ricordare altre storie di donne. Perciò, sollecitata dall'annuncio che nel paese in cui vivo ci sarà una mostra sulla vita di Etty Hillesum,  altri fiori si sono dischiusi nella memoria e hanno unito il loro profumo a quelli delle donne armene.

Allora da Oriente torno in Occidente, non a Padova però, ma ad Amsterdam, dove la giovane ebrea Etty Hillesum nel 1941, prima di essere confinata a Westerbork, il campo nazista olandese di transito per Auschwitz, distilla gocce di vita nel suo Diario.
Sole in questa veranda, e un vento lieve che fa fremere il gelsomino. […] Com'è esotico il gelsomino; in mezzo a quel grigio e a quello scuro color di melma è così radioso e così tenero. Non capisco niente del gelsomino. Del resto non c'è bisogno. Si può benissimo credere nei miracoli in questo ventesimo secolo. E io credo in Dio, anche se tra breve i pidocchi mi avranno divorata in Polonia.

Anche dal diario di Etty ho rubato fiori. Tante rose. I petali sparpagliati sulla scrivania tra Rilke e Dostoevskij. Mi sono riconosciuta nella sua imperfezione consapevole, nello stupore, nella femminilità: la sigaretta tra le dita, gli occhi sgranati sul mondo, l'acconciatura vezzosa, il piacere nel gustare i dolci seduta al caffè. Mi sono intenerita per la confessione spudorata della sua nevrosi, e per la relazione con lo psicochirologo Julius Spier, per la consapevolezza delle proprie disarmonie e per la franchezza con cui ne scrive. Mi sono specchiata nella tristezza di Etty, in quel riconoscersi, anche lei, responsabile del male nella Storia. Ho sentito la sua verità: spesso mi viene da dire: c'è un gran marciume in quel posto. Ma oggi, d'un tratto ho pensato: se dico sempre così quella parola, marciume, esso finisce per propagarsi nell'atmosfera e non la rende certo migliore.
Amare la disarmonia è infatti difficile. Ma è l'unico percorso possibile verso l'amore che non accusa e che, quindi, non ha niente da perdonare, né da farsi perdonare. Amore si svuota per diventare amore.
Ho amato Etty perché sono così scontenta e triste e irrequieta stamattina presto come non lo ero da tempo e non si tratta in questo caso del grande dolore, ma di piccole scontentezze personali e del mio disadattamento.
Ho amato Etty perché come lei mi sono chiesta (e continuo a chiedermi) se
fa gran differenza se in un secolo è l'Inquisizione a far soffrire gli uomini, o la guerra e i pogrom in un altro. […] Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell'altra. Quel che conta è il modo in cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita.

Ma Etty non è un modello di vita. Se la pensassimo così la trasformeremmo in una rappresentazione del bene, lei che invece era uno spirito fluido e visionario, capace di intuire nella realtà effettuale idee universali, emanazioni della vita avidamente amata, così com'è, senza nessun orientamento fanatico. E difatti Etty aspirava a quella vacanza per sempre di cui mi parlò, più di dieci anni fa, un'altra donna, Luisa Muraro, pensatrice ancora attiva, in un libro fatto di libri, Il Dio delle donne.
Tra le pagine di Luisa incontrai per la prima volta, indirettamente, Etty e tante altre come lei: Margherita Porete, la beghina bruciata viva a Parigi il primo di giugno del 1310, che scrisse Lo specchio delle anime semplici; Cristina Campo, imperdonabile autrice de Gli Imperdonabili. E tante altre ancora. Donne intente a fare e disfare il filo tessuto delle parole, non per costruire teorie che ingombrino la mente, ma per lasciare sempre aperti i discorsi, per creare passaggi e per aprire continuamente il varco alla relazione. Sono donne che usano una lingua che ammette la mancanza per riuscire a dire l'indicibile in una scrittura che diviene mediazione vivente. Perciò, col fare e disfare, la scrittura di Luisa, di Etty, di Antonia e di tutte le altre, priva dell'intromissione della volontà personale, si apre alla possibilità che accada anche il bene.

lunedì 22 ottobre 2018

...come un poeta


Quotidianamente sono raggiunta da innumerevoli informazioni, visto che, come quasi tutti ormai sul nostro pianeta, sono iperconnessa grazie ai tanti strumenti di comunicazione, lo smartphone, ma anche la vecchia amica radio, una Tivoli Audio model one di legno laccato di bianco, che accendo insieme al fornello mentre mi preparo il caffè del buongiorno. 

Stamattina alle sei e un quarto è ancora buio quando, appena sveglia, entro in cucina e, prima della caffettiera, afferro, decisa, una pila di compiti da correggere e dal marmo della credenza li sposto sul tavolo, con la ferma intenzione di leggerli e valutarli tutti. Dopo aver sbirciato il primo, ho messo su il caffè, a radio spenta. Mentre l'aroma profuma il silenzio accogliente, preparo anche il rito della penna rossa. Poltrona e occhiali sono pronti. Mi accomodo sulla prima, inforco i secondi, verso l'elisir del mattino in una tazza capiente e comincio a sorseggiarlo mentre scorro con gli occhi le riflessioni fatte dagli studenti sulla Lettera a M. Chauvet, quella in cui Alessandro Manzoni argomenta il suo pensiero sulle unità aristoteliche nella tragedia.
Allora mi sorprende l'idea che in fondo la correzione dei compiti non è tanto noiosa se (come dice Manzoni a proposito del lavoro del poeta nella lettera a Chauvet e come gli studenti hanno ben compreso e rilevato) ci si attiene al “vero” della storia e in questa si cerca, dipanandolo, il filo conduttore che racconta l'altro da noi, silente nel testo scritto, ma rintracciabile persino in un compito scolastico nel quale, anche la grafia è un indizio della storia.

Tra una correzione e l'altra accompagnate dal mio pensiero errante, si sono fatte le sette e un quarto. È ora di accendere la radio, già sintonizzata sul terzo canale. Mentre leggo i lavori dei ragazzi, ascolto Giannantonio Stella che, a sua volta, legge le notizie del giorno dai quotidiani nazionali. Nessuna di esse attrae la mia attenzione, forse perché sono concentratissima sulla questione “storia e poesia” affrontata da Manzoni e spiegata dagli studenti. 

Si fanno intanto le otto. Da quasi due ore, grazie ai compiti dei ragazzi, medito ripetutamente sul testo manzoniano che, perciò, mi diviene sempre più ricco di senso.
Nel frattempo inizia il dialogo del giornalista con gli ascoltatori che hanno telefonato per focalizzare l'attenzione sulle questioni che stanno loro più a cuore. Sospendo la lettura due volte perché si parla di scuola. E questo, si sa, mi sta a cuore. La prima telefonata non è altro che una noiosa lamentela di un controllore contabile sullo scarsa considerazione in cui è tenuto il suo lavoro. La seconda è quella di una professoressa che recrimina sulle novità introdotte riguardo alla prova d'italiano del prossimo Esame di Stato. Secondo il parere della signora il cambiamento improvviso è inopportuno perché sul mercato editoriale mancano pubblicazioni di esercitazioni didattiche utili ad affrontare il nuovo tipo di prova.
Allora riguardo con stupore, o, se vi pare meglio, con stupidità, il testo e la traccia che ho proposto agli studenti e mi chiedo il perché del lamentarsi di non contare nulla nei destini della scuola se poi ci si percepisce come incapaci di preparare una prova di scrittura che attesti la padronanza logico espressiva dei maturandi. Ma soprattutto mi sorprende il sentimento frustrante che coglie quanti non riescono ad oltrepassare l'orizzonte grigio disegnato dalle consegne burocratiche.

Con lo sguardo ritorno ai compiti a me presenti. In essi è adombrata la verità. Dentro quei testi, compresa la traccia, c'è un filo conduttore da trovare e di cui si può aver cura per tracciare tanti sentieri di conoscenza e di vita.
Un altro barlume mi si accende, dopo tanti anni di insegnamento: come dice lo stesso Manzoni nella lettera a M. Chauvet, riferendosi al compito del poeta, a noi non tocca “inventare dei fatti” perché “questo genere di invenzioni richiede ben poca immaginazione […] mentre tutti i grandi monumenti poetici hanno a base avvenimenti tratti dalla storia”.

Ecco, nel corso del mio peregrinare didattico, giungo oggi a questo: non ho niente da inventare. Mi limito a prestare la voce alla tradizione letteraria per dare vita ai testi umani e per accoglierli, qui ed ora, insieme alla comunità classe.
Volgendo il pensiero alla situazione attuale più in generale, ritengo che ci si possa impegnare essenzialmente in questo, a far emergere la nascosta potenza della poesia attraverso molteplici voci, in maniera soggettiva ma non arbitraria, facendola brillare oltre la cortina polverosa di quelle tecniche che rischiano di soffocare la potenza di sentimento e di immaginazione di ogni lettore.
Chissà! Forse lungo il sentiero dell'ascolto aperto all'immaginazione, potranno sciogliersi molti nodi nella scuola, che attualmente è vissuta da tanti come una gabbia insopportabile.

venerdì 22 giugno 2018

Leggere con il cuore Il giardino dei Finzi Contini


“Perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove?" chiede la piccola Giannina al padre mentre con un'allegra brigata percorrono la strada verso la necropoli etrusca di Cerveteri, nel prologo di Giorgio Bassani al suo romanzo memoriale Il giardino dei Finzi Contini. "Si capisce  - rispose -. I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti […] che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti. […] Però, adesso che dici così – proferì dolcemente, - mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri. La successiva visita alla necropoli si svolse nel segno della straordinaria tenerezza di questa frase”.
Commosso dalla tenerezza di questo dialogo, mentre l' auto che trasporta la comitiva silenziosa ripercorre l'Aurelia verso Roma, il pensiero del narratore corre con la memoria al cimitero ebraico di Ferrara e sosta davanti alla tomba monumentale della famiglia dei Finzi Contini.
Il dialogo tra Giannina e suo padre ispira a Bassani questo romanzo malinconico, lieve e struggente per la giovinezza perduta, di cui è simbolo Micol Finzi Contini, bionda e prorompente di vita, giocosa e aspra, svanita nell'orrore di un lager.
La memoria dell'antica civiltà conservata nei tumuli erbosi di Cerveteri desta il ricordo di un giardino segreto, misterioso come i bocci acerbi dell'adolescenza, custode dei turbamenti di quell'età e custodito nella memoria più intima e perenne.
Ho letto tanto tempo fa questo romanzo e, se è vero che dell'incontro autentico con una storia resta non tanto una dettagliata narrazione quanto un sospiro vivo del cuore mentre d'improvviso alla mente tornano immagini e visioni, ecco che ai miei occhi si ripresenta vivida la scena in cui il protagonista, dopo aver visto, evidenziato in rosso, il cinque in matematica nei quadri dei risultati di fine anno scolastico, scappa in bicicletta per le strade di Ferrara e si ritrova presso il muro alto e inaccessibile del giardino, nel quale viene introdotto spavaldamente dalla bionda e sorridente Micol Finzi Contini.
Le immagini del giardino si ricompongono nella memoria: i campi da tennis, attraversati dalle snelle figure giovanili vestite di bianco, risuonano delle eleganti battute delle racchette; la biblioteca e le sale della dimora signorile spalancano le loro porte per accogliere i giovani ebrei esclusi per le leggi razziali dai circoli culturali pubblici di Ferrara.
Non il frastuono della violenza ostile del mondo esterno, ma il bisbiglio delle confessioni intime, manifeste o sottintese io ascolto, insieme al silenzio eloquente di Alberto, pallido e fragile, l'unico, tuttavia, dei Finzi Contini destinato a spegnersi di morte naturale e a riposare nella monumentale tomba di famiglia del cimitero di Ferrara.
Un'oasi nell'orrore è Il giardino dei Finzi Contini più che una testimonianza dell'antisemitismo. Un'oasi rivisitata con tenerezza in seguito alla domanda della piccola Giannina.
La storia remota, conservata nell'oasi di Cerveteri, proietta il protagonista in una storia recente che gli appartiene, purificata di ogni ideologia, nonostante l'esperienza dolorosa.
Prevale nel racconto l'ansia di vita, seppure minacciata da una folle ideologia. E in realtà il giovane ingegnere comunista Malnate è l'antagonista sentimentale più che ideologico nella rievocazione lirica dell'io narrante. Malnate è il giovane impegnato politicamente, forte e franco nelle sue convinzioni, al quale Micol, divorata da un'ansia di vita hic et nunc, concede la sua attenzione materiale, consapevole dell'impossibilità del sogno nel contingente storico.
Del resto alla palpitante e fuggitiva Micol non importa niente del futuro, neanche di quello “democratico e sociale” vagheggiato dal forte e convinto Malnate. Al futuro Micol preferisce il presente, “ le vierge, le vivace, et le bel aujourd'hui, e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato”.
Alla fine di queste annotazioni, scritte sull'onda della memoria di una lontana lettura, penso con malinconia al brano selezionato dagli esperti della Pubblica Istruzione per la traccia dell'Esame di Stato di quest'anno, e rabbrividisco al pensiero delle gelide domande rivolte ai giovani candidati, e mi chiedo se quei signori abbiano mai letto il libro di Bassani. Ma se pure l'avessero fatto, è certo che non l'hanno compreso, non con il cuore perlomeno. Non la poesia della memoria, che anima il racconto, ma le domande retoriche, a risposta pressoché univoca, e i ragionamenti astrusi sulle tecniche narrative, hanno ispirato la stesura della traccia d'esame.
E invece Bassani, concludendo il romanzo, suggella la storia proprio con il cuore, avendo scritto solo “quel poco che il cuore ha saputo rcordare”.


giovedì 8 marzo 2018

Il filo nascosto


Vorrei provare a raccontarvi la mia esperienza del film “Il filo nascosto” attualmente visibile nei cinema italiani. Riguardo alla regia, al cast etc... è tutto consultabile online. Di recensioni ne leggerete in abbondanza, se vorrete. Io non ne ho letta manco una.
Da dove comincio? Ecco sì, dall'attrazione esercitata su di me dalla visione casuale del trailer qualche mese fa. Una sartoria sfarzosa, un elegante sarto, e l'atmosfera rétro di un atelier con tante cucitrici industriose. E rutilanti stoffe pregiate d'altri tempi. E poi quel titolo misterioso, così carico di simboli! - lo vedrò – mi dissi. E così è stato.

Sono arrivata in sala mentre il film iniziava. Nel buio pesto, a tentoni, ho cercato il mio posto avanzando con cautela per non ruzzolare giù per le scale, indispettita, perché mi stavo perdendo la prima scena.
Eccomi finalmente seduta in un salottino inglese al tavolo imbandito per la colazione tra chicchere d'argento e di porcellana, davanti a un signore che rifiuta dolci succulenti, rivolgendosi con modi sgarbati alla bella giovane donna che glieli ha offerti, e che ora non si vergogna di mostrare i lucciconi nei suoi occhi imbambolati sotto lo sguardo vigile e imperturbabile di un'altra donna che assiste alla scena, la sorella dello schizzinoso protagonista.
Velocemente la telecamera si sposta sulla fuga verso la vecchia casa dell'infanzia e sulla sosta in un motel ristorante in cui accade l'incontro fatale con un'altra donna: una cameriera conturbante nel suo spartano abbigliamento nonché nella sua bellezza senza eccessi, a parte le labbra, che si schiudono o si stropicciano, mentre appunta diligentemente tutte le pietanze richieste dall'avventore, quasi come un invito a pregustarle, pietanze e labbra. Ed è subito relazione. Il tramite è il cibo. E il primo appuntamento, è fissato ad una cena nel corso della quale dita e labbra si intingono voluttuosamente, e si tingono, in una salsa scarlatta. E poi via in una soffitta a progettare un abito. Un canovaccio modello è indossato da Alma (questo è il suggestivo nome della protagonista), subito diventata modella ideale.

Ma dove mi trovo? Al cinema o a sfogliare le illustrazioni di un libro di fiabe infantili?
La stanza affollata nell'ombra  da vecchi bauli, i broccati e i velluti, tutto sa della scenografia per una fiaba seicentesca. E del resto, anche l'atelier, nella realtà situato negli anni cinquanta del novecento, ha sapore di fiaba. L'insieme delle abili cucitrici, linde e solerti, mi ha fatto pensare alle tante aiutanti sparse nei racconti di fate.

E per la verità l'ordito è proprio quello di una fiaba. Nell'ordito misterioso si intrecciano mille fili. Dove sarà quello nascosto? E chi può dirlo? A me le fiabe piacevano e piacciono proprio per questo. Non svelano niente eppure rivelano tutto, nell'ombra però. Infatti, appena tenti di spiegarle, l'incanto svanisce. Esci dalla fiaba e ti imbatti nei critici, o, peggio ancora, negli psicologi.
È divertente, invece irritarsi per il maniacale estetismo di Reynolds, che come tutti gli esteti è un annoiato bambino, o sentire l'ambiguità magica della protagonista, ora donna reale e determinata, ora strega sapiente che si inoltra nel bosco col paniere sotto braccio in cerca di piante per vivande fiabesche, velenose ma non troppo. E la cucina – antro e il tegame al fuoco in cui sfrigolano saporitamente nel burro gli aromi profumati del bosco immersi e miscelati sapientemente, come gli ingredienti nel paiolo di una strega. Come le mele di Biancaneve che nascondono la più bella e succosa, quella mela che avvelena, ma non è letale. E mi hanno incantata gli abiti, sontuosi fino all'inverosimile, sostenuti da tutorial segreti, che sollevino i fianchi o i seni delle clienti, tutte di alto lignaggio, tranne una, che viene indecorosamente spogliata, perché una viziosa riccona è indegna di un abito tanto bello.

Sono davvero infiniti i fili nascosti nelle fiabe. Ma è rilevante il fatto che in tutte le storie ricorrano la fame e il cibo, l'abito cencioso e la veste regale. Come in questa favola filmica, nella cui trama ogni spettatore saprà riconoscere il suo filo nascosto, e soprattutto ogni spettatrice potrà interrogarsi sull'ambiguità sempre viva degli stereotipi fata/strega, madre/matrigna. E potrà sorriderne.

domenica 31 dicembre 2017

La statuetta, il vassoio e la fiaba

L'ultimo giorno dell'anno è carico di bilanci e di aspettative. Si fa una cernita degli eventi e, perlopiù, si scartano tutti i momenti brutti e dolorosi e si conservano i successi e tutto ciò che ci è parso bello, nella speranza che il nuovo anno sia colmo solo di felicità. Ed è giusto che sia così.

Ma io nelle ultime ore di quest'anno ho negli occhi e nel cuore tre oggetti che porterò con me per l'avvenire: una statuetta di Maria con le mani aperte e teneramente protese; un vecchio vassoio ovale d'acciaio; e, infine una fiaba dei fratelli Grimm, “Fratellino e sorellina".

Questi tre oggetti sono un filo rosso nella mia vita.
Il primo e il secondo provengono dalla mia casa di ragazza, una casa di campagna alle falde del Vesuvio dalla quale lo sguardo può abbracciare l'intero golfo di Napoli e le sue isole, o perdersi oltre l'orizzonte, tra mare e cielo.
Il terzo è custodito nel cuore, nei ritmi dell'infanzia, il tempo in cui si ignora il confine tra il reale e il fiabesco.

Ma questi tre oggetti rappresentano soprattutto il legame con mio fratello, il quale teneramente ha salvato dalle rovine del tempo sia la statuetta che il vassoio, e me li ha lasciati in preziosa eredità.
In questa eredità, infatti, c'è il valore inestimabile della speranza nell'accoglienza e nell'ospitalità. La statua e il vassoio testimoniano che da una perdita indicibilmente dolorosa sono germogliati due segni di amore. 
Mi sembra, quindi, che questi due oggetti dicano che niente va scartato dalla nostra vita, né  dall'anno che sta per finire. Neanche il dolore.
Sicché, per il nuovo anno mi immagino braccia protese a sorreggere vassoi colmi di tenerezza per gli ospiti.

Infine, ritorno alla lettura della fiaba, nella quale, come in tutte le fiabe, c'è  qualcosa di vero, sebbene nella realtà non sempre le sorelle riescano a salvare il capriolo dalle insidie del bosco.
Lo svolgersi della vita nel tempo è difatti disegnato nei limiti della fragilità umana. Per questo, auguriamoci che, nell'anno che verrà, la prima amorevole accoglienza, il primo dono ospitale siano offerti alla nostra fragile umanità.



domenica 11 dicembre 2016

Elogio della “frivolezza”

Due giovani sorridenti l'altro giorno sono venuti ad installarmi un televisore nuovo che, malgrado me, ora trionfa sul ripiano marmoreo del mio mobile prediletto, dopo aver spodestato le gloriose ceramiche di Faenza e di San Lorenzello.
Mentre erano all'opera si chiacchierava di lavoro. “Ma lei ancora non è ancora in pensione?” mi ha chiesto, quasi stupito, uno dei due giovanotti. - Siamo alle solite - ho pensato, e mi sono limitata a rispondere di no. Ovviamente da lì il discorso è scivolato sul futuro delle pensioni e dei giovani, col prevedibile tono catastrofico. 
Per un po' sono stata zitta, anche perché la pensione come traguardo agognato della vita e del lavoro non m'ha mai attratta, come del resto non m'ha mai solleticata l'ansia di una meta da raggiungere. Godo di scivolare inconsapevole nel tempo. Anche da giovane non capivo quelli che cominciavano a lavorare calcolando gli anni che li separavano dalla pensione. Ma si sa che a questo mondo ci sono gli incoscienti, e io ne faccio parte. 
Tuttavia, l'altro giorno, non ho potuto fare a meno di correggere quelle predizioni apocalittiche sul futuro e, “via - sono intervenuta – non sbagliano anche i meteorologi nelle previsioni del tempo? E allora perché chiudere l'orizzonte al futuro? I due ragazzi sono scoppiati a ridere, e mi hanno guardato con evidente simpatia, mentre io sospiravo tra me - “avessi la vostra età! - Me ne fregherei di tutte le “Fornero” di questo mondo”. E, difatti, me ne frego. Frivola e incosciente, mi voglio divertire, a modo mio. 
La frivolezza, tanto vituperata, è lieve in se stessa. La frivolezza è leggera, frufrù, un frullo di volo. Dove? Nel “vano”, dentro e fuori di noi. Nel “vano” dentro la materia del mondo.
Il bello consiste proprio in questo: la materia è piena di leggerezza, come la vanità di un “fiocco di neve di Helge von Koch”. Il fiocco di neve è “l'isola” che ha “una figura geometrica finita con un perimetro infinito” (Shantena Augusto Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto).
La materia è piena di infinito come dimostra l'introduzione di un concetto nuovo nella geometria, “la dimensione frattale” di Benoit Mandelbrot, al quale dobbiamo l'oggetto più complesso della matematica (e secondo molti anche il più bello!). Estremamente complesso (infinitamente complesso), ma anche semplice: generato da un meccanismo iterativo di disarmante semplicità” (Shantena Augusto Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto).
Stando ai frattali di Mandelbrot, se noi segmentassimo il tratto di una costa, per esempio della Gran Bretagna, i segmenti conterrebbero una infinità di numeri, ovvero di segmenti. Tuttavia la loro somma ci restituirebbe il perimetro finito dell'isola (finalmente mi si spiega il famoso paradosso di Zenone e anche la sua aporia!).
Nel caos indistinto e infinito emerge la forma, come dal fondo caotico del nostro cervello si auto-organizzano pensieri, sensazioni, ricordi. L'ordine emerge dal caos, ma sul crinale di confine, “si trova un massimo di potenziale creativo” imprevedibile (Shantena Augusto Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto).
Se è così, e mi piace che così sia, mi affido a questo “potenziale creativo” con un frullo d'ali...“e lasciatemi divertire”!