giovedì 23 settembre 2010

Sulla "sprezzatura" (da Baldesar Castiglione a Cristina Campo)

Ci si affanna per lo più nel corso dell'esistenza ad inseguire obiettivi svariati. Fantasmi di una felicità effimera, che ci rubano la vita. Capita poi, talvolta, di imbattersi in qualcuno che addita un “modo di essere” composto in se stesso, consistente di una levità sfuggente, di una “grazia” negligente, semplice e a un tempo nobilissima. Un vocabolo disusato esprime bene questa rara virtù: “sprezzatura”. Il suono della parola è duro e il senso è forte e associato al “disprezzo”. Se però ne studiamo la storia, scopriamo che la “sprezzatura” designa la qualità suprema del “Cortegiano” di Baldesar Castiglione, il cinquecentesco scrittore mantovano che nel suo trattato disegnò la figura del perfetto uomo di corte. La “sprezzatura” è la “grazia” senza “affettazione” che promana da un essere umano (Baldesar Castiglione, Il Cortegiano, I, 26). Colui che ne è dotato è completo in se stesso e trasvola la vita.

La “sprezzatura” consiste in un “essere pieni di vuoto”, e perciò lievi.

La pienezza lieve è la qualità della prosa di Cristina Campo, (Bologna 1924-Roma 1977). Quando leggo “Gli imperdonabili” non posso fermarmi. Volo. La densità del pensiero è un soffio di sollievo che “solleva”. Non chiede di essere capita questa scrittura, chiede l' “inspirazione”. Le parole penetrano come l'aria nei polmoni e sollevano il lettore in una regione più limpida e leggera.
Il capitolo intitolato “Con lievi mani” (Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, p. 97) è dedicato alla “sprezzatura”. Le frasi non descrivono, ma instillano gocce di grazia, con suoni e immagini simboliche. “Facilement, facilement” è la melodia dominante del testo. È la stessa melodia con cui Chopin invitava gli allievi a posare le mani sulla tastiera del clavicembalo, con grazia sciolta, quasi noncurante. E “facilement facilement” la voce di Cristina risuona dalla sua scrittura, "grafico" del suo cuore fibrillante. “Facilement, facilement” e “ con lieve cuore, con lievi mani / la vita prendere, la vita lasciare...” (Hofmannsthal).
La “sprezzatura” di Cristina è ancor più “facile” di quella di Baldesar Castiglione, che non riesce a superare un certo insistente estetismo. Per Cristina “prima di ogni altra cosa sprezzatura è infatti una briosa, gentile impenetrabilità all'altrui violenza e bassezza, un'accettazione impassibile,...un'ovvia indifferenza alla morte...la bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l'animo grande che ne è radice e l'umor lieto.”

“Grazia” rara la sprezzatura! Ma esercizio possibile in un'attenzione raccolta e penetrante in ogni “attimo fuggente”.
Della lettura di “Con lievi mani” serbo, inoltre, un'icona che amai moltissimo quando ero adolescente. Si tratta dell'immagine di un uomo - folletto, attore protagonista di storie avventurose e galanti, Gérard Philipe. Esile, con un ciuffo negligente sullo sguardo ridente in dolce sfida, segno della sua “sprezzatura”, come Cristina, Gerard trasvolò la vita in un sogno. http://www.youtube.com/watch?v=cxyg5-PUpKo

martedì 14 settembre 2010

La musica delle lingue, la poesia della traduzione e un esperimento per contestare la Riforma dei curricoli scolastici

In tempi in cui prevale il culto dell'immagine e la cura esasperata del corpo secondo stereotipi estetici che nulla hanno a che vedere con la bellezza, desidero soffermarmi sull'estetica e sulla bellezza dei suoni delle lingue, e sul valore che in tal senso assumono l'educazione linguistica in generale e lo studio delle lingue classiche in particolare, mediante il laboratorio di traduzione. L'ascolto polifonico della lingua educa il gusto e il senso dell'armonia in movimento nelle onde sonore delle parole, nella loro combinazione, e nella specifica bellezza di ogni lingua.
Mi è sembrato opportuno comunicare questi miei pensieri perché, con la Riforma dei curricoli dei Licei, lo studio delle lingue classiche e in particolare del latino, in cui affondano le radici culturali non solo italiane, ma dell'intera Europa (cfr. per esempio l'opera fondamentale di H. Curtius, Letteratura Europea e Medioevo latino) è stato drasticamente ridotto o addirittura eliminato, senza nessuna protesta degli intellettuali, senza alcun “chiasso pubblicitario” sui giornali o in televisione ad invocare le “radici linguistiche e culturali”, come per altri casi è strumentalmente avvenuto. E questo è un ulteriore segno della rozzezza culturale che impera ormai nel nostro paese.
Ma, senza attardarmi in vani discorsi di lode del passato o di lamento per l'ingiusto presente, dirò subito che ho tentato con i suoni delle lingue un piacevole gioco, non senza fatica, paragonabile forse alla gioia intenta del musicista quando traduce nelle sequenze di note le cose vissute e poi riascoltate nel cuore. Ho giocato con le immagini sonore della poesia, passando dall'italiano al latino, dai versi melodiosamente liberi di una poesia dannunziana di Alcyone, La sera fiesolana, all'esametro latino. L'ho fatto per invitare all'attenzione sull'esercizio di traduzione come esperienza multipla. La traduzione, infatti, oltre a sviluppare il linguaggio verbale e la competenza plurilinguistica, educa alla bellezza a partire dall'ascolto del suono della parola, il miracolo che ha generato tutte le meraviglie del sapere umano. E in principio la parola è puro suono. Non occorrono lunghi discorsi per dimostrare che la poesia è innanzitutto musicalità della parola. E nel suono stesso il “senso” è colto con un coinvolgimento sinestetico, ossia di tutti e cinque i sensi, e sentimentale. L'esperienza della traduzione, inoltre, insegna la pazienza e l'attenzione, educa la sensibilità e, mentre impone il rigore, spinge a trasgredire i limiti con l'immaginazione e stimola la creatività nel rimodulare in un nuovo testo i suoni e gli oggetti percepiti. È quindi importante che io tenti di riferire quanto sono riuscita ad osservare della mia esperienza. Mentre traducevo la poesia, seguendo lo schema metrico dell'esametro “mi trasformavo” nella concentrazione di un ascolto polifonico, in una attenzione consistente in un ad-tendere per accogliere un suono che evocasse il senso. Senza alcun dubbio la traduzione è un'attività poetica che trasforma chi la compie. È come se, nel tra-durre un testo, tra-ducessimo noi stessi oltre i limiti della comunicazione logico-espressiva, in una tensione di “comprensione” del tutto gratuita ed appassionata. Ho compiuto un' esperienza e mi piace comunicarla. Ho scelto l'esametro perché fu usato dai poeti greci e latini (tra gli altri ricordo Teocrito e Virgilio) nella composizione degli “idilli”, brevi e lirici “quadretti” di paesaggi naturali. L' “idillio” ha avuto grande fortuna nella nostra tradizione letteraria, conoscendo trasformazioni straordinarie, come è accaduto nella voce di Giacomo Leopardi, che negli “idilli” addensò il suo “pensiero poetante”.
“La sera fiesolana" io l'ho letta proprio come un ”idillio" in cui una voce panica promana dalle cose della natura intonando “una lauda” alla sera.
La traduzione naturalmente non è letterale. Il risultato dell'esperimento è imperfetto, ma grande è stato il piacere donatomi da questa “inutile” “eroica fatica”, la quale risulterebbe di certo incomprensibile, in ogni senso, per i ministri Gelmini e Tremonti. Perciò, in conclusione, mi piace trascrivere alcune frasi di Simone Weil: “L'intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio, devono esserci piacere e gioia. L'intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di apprendere è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori. Dove è assente non ci sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che al termine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere. ...Gli studi scolastici sono uno di quei campi in cui è racchiusa una perla. Per questa perla vale la pena di vendere tutti i propri beni, senza trattenerne alcuno, al fine di poter acquistare il campo”. (S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi , Milano 2008, pp. 196 e 201)

Per suggerire la lettura metrica, ho segnato gli accenti ritmici. Leggendo, bisogna ricordare che nel verso, quando una parola termina in vocale oppure in -m preceduta da vocale (-am, -em, -um. ecc.) e la successiva comincia anch'essa con una vocale, può verificarsi l'elisione (caduta) della vocale finale della parola che precede. Se la parola che segue è una voce del verbo essere cade la e- di quest'ultima.

Faesulànus Vèsper

Mòllia vèrba tibì mea sìnt ad vèsperem amìcum,
sìcut pér moròs agitàntur mùrmure fòlia
lèniter ìn manibùs cuiùsdam quì ea càrpit
sùspensùs tacitùs scalìs nigrescèntibus àpud
àrborem àrgenteàm subtèr silèntia clàra,
cùm luna àdvenit àlba ad caèrula lìmina coèli,
àdventùque suò velàmina càndida pàndit
quà somniàntibùs nobìs somnium iàcet et àgri
nòcturnòque gelù se mèrsos lùmine sèntiunt
spératàmque ab eà pacem ét haurìre vidèntur.

Làudatùs pallènte tuo òre, sis càndide vèsper
cùmque tuìs oculìs umidìs ubi coèli aqua tàcet .

Dùlcia vèrba tibì mea sìnt ad vèsperem amìcum.
Lànguidus ùt fugièns super hèrbis ìncidit ìmber
dùm lacrimàns guttìs levibùs ver dùlce salùtat.
Íncidit ìmber ulmòs, moròs, vitèsque virèntes.
Íncidit ìn pinì digitòs, ludèntes ad àuram.
Íncidit ìn frugès non adhùc flavàs neque acèrbas .
Íncidit ìn fenùm quod fàlcem iam pàtitur àcrem.

Làudatùs veste olènte tuà sis ròscide vèsper!
Cìnctus té cingìt, sicut iùnco cìngitur fènum.

Dìcam amorìs tibi règna ad quaè nos ìncitat àmnis
cùius aèternaè fontès e vetèribus ùmbris
àrborum orànt in mòntibus àltis, ét tibi dìcam
quò sanctò mystèrio còlles flectàntur ad àera
lìmpidum, ét tibi dìcam quaè dicèndi volùptas
còlles pùlchriorès faciàt humanìs desidèriis
òmnibus, ét sempèr adeò silèntiis gràtos
ùt videàtur eòs posse ànima màgis amàre.

Làudatùs proptèr mortèm, sis lìmpide vèsper!
Sìdera prìma micànt, in coèlo ardèntia sìgna.

La sera fiesolana (Gabriele D'annunzio)

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscío che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su 'l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su 'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne e l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incúrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!