lunedì 22 ottobre 2018

...come un poeta


Quotidianamente sono raggiunta da innumerevoli informazioni, visto che, come quasi tutti ormai sul nostro pianeta, sono iperconnessa grazie ai tanti strumenti di comunicazione, lo smartphone, ma anche la vecchia amica radio, una Tivoli Audio model one di legno laccato di bianco, che accendo insieme al fornello mentre mi preparo il caffè del buongiorno. 

Stamattina alle sei e un quarto è ancora buio quando, appena sveglia, entro in cucina e, prima della caffettiera, afferro, decisa, una pila di compiti da correggere e dal marmo della credenza li sposto sul tavolo, con la ferma intenzione di leggerli e valutarli tutti. Dopo aver sbirciato il primo, ho messo su il caffè, a radio spenta. Mentre l'aroma profuma il silenzio accogliente, preparo anche il rito della penna rossa. Poltrona e occhiali sono pronti. Mi accomodo sulla prima, inforco i secondi, verso l'elisir del mattino in una tazza capiente e comincio a sorseggiarlo mentre scorro con gli occhi le riflessioni fatte dagli studenti sulla Lettera a M. Chauvet, quella in cui Alessandro Manzoni argomenta il suo pensiero sulle unità aristoteliche nella tragedia.
Allora mi sorprende l'idea che in fondo la correzione dei compiti non è tanto noiosa se (come dice Manzoni a proposito del lavoro del poeta nella lettera a Chauvet e come gli studenti hanno ben compreso e rilevato) ci si attiene al “vero” della storia e in questa si cerca, dipanandolo, il filo conduttore che racconta l'altro da noi, silente nel testo scritto, ma rintracciabile persino in un compito scolastico nel quale, anche la grafia è un indizio della storia.

Tra una correzione e l'altra accompagnate dal mio pensiero errante, si sono fatte le sette e un quarto. È ora di accendere la radio, già sintonizzata sul terzo canale. Mentre leggo i lavori dei ragazzi, ascolto Giannantonio Stella che, a sua volta, legge le notizie del giorno dai quotidiani nazionali. Nessuna di esse attrae la mia attenzione, forse perché sono concentratissima sulla questione “storia e poesia” affrontata da Manzoni e spiegata dagli studenti. 

Si fanno intanto le otto. Da quasi due ore, grazie ai compiti dei ragazzi, medito ripetutamente sul testo manzoniano che, perciò, mi diviene sempre più ricco di senso.
Nel frattempo inizia il dialogo del giornalista con gli ascoltatori che hanno telefonato per focalizzare l'attenzione sulle questioni che stanno loro più a cuore. Sospendo la lettura due volte perché si parla di scuola. E questo, si sa, mi sta a cuore. La prima telefonata non è altro che una noiosa lamentela di un controllore contabile sullo scarsa considerazione in cui è tenuto il suo lavoro. La seconda è quella di una professoressa che recrimina sulle novità introdotte riguardo alla prova d'italiano del prossimo Esame di Stato. Secondo il parere della signora il cambiamento improvviso è inopportuno perché sul mercato editoriale mancano pubblicazioni di esercitazioni didattiche utili ad affrontare il nuovo tipo di prova.
Allora riguardo con stupore, o, se vi pare meglio, con stupidità, il testo e la traccia che ho proposto agli studenti e mi chiedo il perché del lamentarsi di non contare nulla nei destini della scuola se poi ci si percepisce come incapaci di preparare una prova di scrittura che attesti la padronanza logico espressiva dei maturandi. Ma soprattutto mi sorprende il sentimento frustrante che coglie quanti non riescono ad oltrepassare l'orizzonte grigio disegnato dalle consegne burocratiche.

Con lo sguardo ritorno ai compiti a me presenti. In essi è adombrata la verità. Dentro quei testi, compresa la traccia, c'è un filo conduttore da trovare e di cui si può aver cura per tracciare tanti sentieri di conoscenza e di vita.
Un altro barlume mi si accende, dopo tanti anni di insegnamento: come dice lo stesso Manzoni nella lettera a M. Chauvet, riferendosi al compito del poeta, a noi non tocca “inventare dei fatti” perché “questo genere di invenzioni richiede ben poca immaginazione […] mentre tutti i grandi monumenti poetici hanno a base avvenimenti tratti dalla storia”.

Ecco, nel corso del mio peregrinare didattico, giungo oggi a questo: non ho niente da inventare. Mi limito a prestare la voce alla tradizione letteraria per dare vita ai testi umani e per accoglierli, qui ed ora, insieme alla comunità classe.
Volgendo il pensiero alla situazione attuale più in generale, ritengo che ci si possa impegnare essenzialmente in questo, a far emergere la nascosta potenza della poesia attraverso molteplici voci, in maniera soggettiva ma non arbitraria, facendola brillare oltre la cortina polverosa di quelle tecniche che rischiano di soffocare la potenza di sentimento e di immaginazione di ogni lettore.
Chissà! Forse lungo il sentiero dell'ascolto aperto all'immaginazione, potranno sciogliersi molti nodi nella scuola, che attualmente è vissuta da tanti come una gabbia insopportabile.

venerdì 22 giugno 2018

Leggere con il cuore Il giardino dei Finzi Contini


“Perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove?" chiede la piccola Giannina al padre mentre con un'allegra brigata percorrono la strada verso la necropoli etrusca di Cerveteri, nel prologo di Giorgio Bassani al suo romanzo memoriale Il giardino dei Finzi Contini. "Si capisce  - rispose -. I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti […] che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti. […] Però, adesso che dici così – proferì dolcemente, - mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri. La successiva visita alla necropoli si svolse nel segno della straordinaria tenerezza di questa frase”.
Commosso dalla tenerezza di questo dialogo, mentre l' auto che trasporta la comitiva silenziosa ripercorre l'Aurelia verso Roma, il pensiero del narratore corre con la memoria al cimitero ebraico di Ferrara e sosta davanti alla tomba monumentale della famiglia dei Finzi Contini.
Il dialogo tra Giannina e suo padre ispira a Bassani questo romanzo malinconico, lieve e struggente per la giovinezza perduta, di cui è simbolo Micol Finzi Contini, bionda e prorompente di vita, giocosa e aspra, svanita nell'orrore di un lager.
La memoria dell'antica civiltà conservata nei tumuli erbosi di Cerveteri desta il ricordo di un giardino segreto, misterioso come i bocci acerbi dell'adolescenza, custode dei turbamenti di quell'età e custodito nella memoria più intima e perenne.
Ho letto tanto tempo fa questo romanzo e, se è vero che dell'incontro autentico con una storia resta non tanto una dettagliata narrazione quanto un sospiro vivo del cuore mentre d'improvviso alla mente tornano immagini e visioni, ecco che ai miei occhi si ripresenta vivida la scena in cui il protagonista, dopo aver visto, evidenziato in rosso, il cinque in matematica nei quadri dei risultati di fine anno scolastico, scappa in bicicletta per le strade di Ferrara e si ritrova presso il muro alto e inaccessibile del giardino, nel quale viene introdotto spavaldamente dalla bionda e sorridente Micol Finzi Contini.
Le immagini del giardino si ricompongono nella memoria: i campi da tennis, attraversati dalle snelle figure giovanili vestite di bianco, risuonano delle eleganti battute delle racchette; la biblioteca e le sale della dimora signorile spalancano le loro porte per accogliere i giovani ebrei esclusi per le leggi razziali dai circoli culturali pubblici di Ferrara.
Non il frastuono della violenza ostile del mondo esterno, ma il bisbiglio delle confessioni intime, manifeste o sottintese io ascolto, insieme al silenzio eloquente di Alberto, pallido e fragile, l'unico, tuttavia, dei Finzi Contini destinato a spegnersi di morte naturale e a riposare nella monumentale tomba di famiglia del cimitero di Ferrara.
Un'oasi nell'orrore è Il giardino dei Finzi Contini più che una testimonianza dell'antisemitismo. Un'oasi rivisitata con tenerezza in seguito alla domanda della piccola Giannina.
La storia remota, conservata nell'oasi di Cerveteri, proietta il protagonista in una storia recente che gli appartiene, purificata di ogni ideologia, nonostante l'esperienza dolorosa.
Prevale nel racconto l'ansia di vita, seppure minacciata da una folle ideologia. E in realtà il giovane ingegnere comunista Malnate è l'antagonista sentimentale più che ideologico nella rievocazione lirica dell'io narrante. Malnate è il giovane impegnato politicamente, forte e franco nelle sue convinzioni, al quale Micol, divorata da un'ansia di vita hic et nunc, concede la sua attenzione materiale, consapevole dell'impossibilità del sogno nel contingente storico.
Del resto alla palpitante e fuggitiva Micol non importa niente del futuro, neanche di quello “democratico e sociale” vagheggiato dal forte e convinto Malnate. Al futuro Micol preferisce il presente, “ le vierge, le vivace, et le bel aujourd'hui, e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato”.
Alla fine di queste annotazioni, scritte sull'onda della memoria di una lontana lettura, penso con malinconia al brano selezionato dagli esperti della Pubblica Istruzione per la traccia dell'Esame di Stato di quest'anno, e rabbrividisco al pensiero delle gelide domande rivolte ai giovani candidati, e mi chiedo se quei signori abbiano mai letto il libro di Bassani. Ma se pure l'avessero fatto, è certo che non l'hanno compreso, non con il cuore perlomeno. Non la poesia della memoria, che anima il racconto, ma le domande retoriche, a risposta pressoché univoca, e i ragionamenti astrusi sulle tecniche narrative, hanno ispirato la stesura della traccia d'esame.
E invece Bassani, concludendo il romanzo, suggella la storia proprio con il cuore, avendo scritto solo “quel poco che il cuore ha saputo rcordare”.


giovedì 8 marzo 2018

Il filo nascosto


Vorrei provare a raccontarvi la mia esperienza del film “Il filo nascosto” attualmente visibile nei cinema italiani. Riguardo alla regia, al cast etc... è tutto consultabile online. Di recensioni ne leggerete in abbondanza, se vorrete. Io non ne ho letta manco una.
Da dove comincio? Ecco sì, dall'attrazione esercitata su di me dalla visione casuale del trailer qualche mese fa. Una sartoria sfarzosa, un elegante sarto, e l'atmosfera rétro di un atelier con tante cucitrici industriose. E rutilanti stoffe pregiate d'altri tempi. E poi quel titolo misterioso, così carico di simboli! - lo vedrò – mi dissi. E così è stato.

Sono arrivata in sala mentre il film iniziava. Nel buio pesto, a tentoni, ho cercato il mio posto avanzando con cautela per non ruzzolare giù per le scale, indispettita, perché mi stavo perdendo la prima scena.
Eccomi finalmente seduta in un salottino inglese al tavolo imbandito per la colazione tra chicchere d'argento e di porcellana, davanti a un signore che rifiuta dolci succulenti, rivolgendosi con modi sgarbati alla bella giovane donna che glieli ha offerti, e che ora non si vergogna di mostrare i lucciconi nei suoi occhi imbambolati sotto lo sguardo vigile e imperturbabile di un'altra donna che assiste alla scena, la sorella dello schizzinoso protagonista.
Velocemente la telecamera si sposta sulla fuga verso la vecchia casa dell'infanzia e sulla sosta in un motel ristorante in cui accade l'incontro fatale con un'altra donna: una cameriera conturbante nel suo spartano abbigliamento nonché nella sua bellezza senza eccessi, a parte le labbra, che si schiudono o si stropicciano, mentre appunta diligentemente tutte le pietanze richieste dall'avventore, quasi come un invito a pregustarle, pietanze e labbra. Ed è subito relazione. Il tramite è il cibo. E il primo appuntamento, è fissato ad una cena nel corso della quale dita e labbra si intingono voluttuosamente, e si tingono, in una salsa scarlatta. E poi via in una soffitta a progettare un abito. Un canovaccio modello è indossato da Alma (questo è il suggestivo nome della protagonista), subito diventata modella ideale.

Ma dove mi trovo? Al cinema o a sfogliare le illustrazioni di un libro di fiabe infantili?
La stanza affollata nell'ombra  da vecchi bauli, i broccati e i velluti, tutto sa della scenografia per una fiaba seicentesca. E del resto, anche l'atelier, nella realtà situato negli anni cinquanta del novecento, ha sapore di fiaba. L'insieme delle abili cucitrici, linde e solerti, mi ha fatto pensare alle tante aiutanti sparse nei racconti di fate.

E per la verità l'ordito è proprio quello di una fiaba. Nell'ordito misterioso si intrecciano mille fili. Dove sarà quello nascosto? E chi può dirlo? A me le fiabe piacevano e piacciono proprio per questo. Non svelano niente eppure rivelano tutto, nell'ombra però. Infatti, appena tenti di spiegarle, l'incanto svanisce. Esci dalla fiaba e ti imbatti nei critici, o, peggio ancora, negli psicologi.
È divertente, invece irritarsi per il maniacale estetismo di Reynolds, che come tutti gli esteti è un annoiato bambino, o sentire l'ambiguità magica della protagonista, ora donna reale e determinata, ora strega sapiente che si inoltra nel bosco col paniere sotto braccio in cerca di piante per vivande fiabesche, velenose ma non troppo. E la cucina – antro e il tegame al fuoco in cui sfrigolano saporitamente nel burro gli aromi profumati del bosco immersi e miscelati sapientemente, come gli ingredienti nel paiolo di una strega. Come le mele di Biancaneve che nascondono la più bella e succosa, quella mela che avvelena, ma non è letale. E mi hanno incantata gli abiti, sontuosi fino all'inverosimile, sostenuti da tutorial segreti, che sollevino i fianchi o i seni delle clienti, tutte di alto lignaggio, tranne una, che viene indecorosamente spogliata, perché una viziosa riccona è indegna di un abito tanto bello.

Sono davvero infiniti i fili nascosti nelle fiabe. Ma è rilevante il fatto che in tutte le storie ricorrano la fame e il cibo, l'abito cencioso e la veste regale. Come in questa favola filmica, nella cui trama ogni spettatore saprà riconoscere il suo filo nascosto, e soprattutto ogni spettatrice potrà interrogarsi sull'ambiguità sempre viva degli stereotipi fata/strega, madre/matrigna. E potrà sorriderne.