lunedì 11 agosto 2014

Riflessioni ispirate da "La storia di una bottega" di Amy Levy

“I romanzi non sono la vita”, perché l'imprevedibile è un falso voluto dallo sguardo illuso e illudente del narratore. Se così non è il racconto si riduce a cronaca, ma questa non ha la vita dell'ispirazione. Ispirazione. Che cos'è l' ispirazione? Un soffio vitale accolto e trasformato, una relazione tra mondo e soggetto individuale che anima di sé l'illusione di un mondo parallelo. Comunque si collochi, interno o esterno rispetto al racconto, o persino nascosto nella polifonia narrativa, un autore respira tra le parole, non solo significati, ma rivoli sonori carichi di emozioni, affreschi palpitanti, guizzi di luce del pensiero che tenta il vero. Come quando nell'attraversamento di un paesaggio naturale lo sguardo cattura una fuga di alberi, l'ondeggiare variopinto di campi o il passaggio delle nuvole nel cielo, celeste o no, o il sussurro stellato della muta notte. Forme della materia vibrante che la parola tenta di comprendere con la sua vibrazione. È qui la relazione. Nella parola che prova e riprova a riformulare la realtà. Giovanni Verga soffrì l'esperienza dello sparire nello sforzo supremo di un'imitazione della realtà attraverso l'energia di una parola emanata dal farsi “da sé” del mondo narrato.

L'arte allora deve essere celata, affinché la forma viva. È questo il mistero della vita e dell'arte. Dove si accende la scintilla non è dato sapere. L'analisi di un testo recupera i passaggi tecnici di una creazione artistica, ma nel fare questa operazione l'analista, alla stregua di chi esegue un'autopsia, si ritrova tra le mani frammenti inerti di materia che solo l'ispirazione di un soggetto vivo aveva fatto palpitare della sua stessa vita.

Questo mistero è tentato in un romanzo di una narratrice inglese di religione ebraica morta suicida nel 1889 a ventinove anni. Il titolo dell'opera è “La storia di una bottega”, l'autrice, poco nota, è Amy Levy. “La storia di una bottega” è la storia di quattro sorelle che, in seguito alla morte del padre, per vivere sono costrette ad inventarsi un lavoro. Mettono su uno studio fotografico, e, dopo aver superato stenti e difficoltà, si affermano negli ambienti artistici londinesi dello scorcio finale dell'Ottocento.
La protagonista porta un nome severo, carico di sofferenza nei colori del suono: Gertrude. La vita di questa creatura letteraria è segnata di austerità e audacia. Aspira alla letteratura ma, incompresa, si dedica alla fotografia. Gertrude è un personaggio pieno di verità nell'incarnare la dolorosa divisione tra ruolo storico, pulsioni naturali, e spinte liberatrici della donna e del suo genio creativo.

Ma al di là delle istanze di un femminismo d'avanguardia, con Gertrude Amy Levy tenta il mistero dell'arte e del suo rapporto con la vita. E il tramite è la fotografia. Come se l'arte dell'obiettivo mediasse con l'arte vera e propria. 
L'osservazione è, pertanto, il motivo ispiratore della scrittura di Amy Levy. L'arte narrativa è in sordina come centro di riflessione all'interno del romanzo. Gertrude, infatti, riscuote il successo come fotografa, mentre i suoi tentativi letterari sono segnati dal fallimento.

Il successo della bottega di Gertrude avviene, in principio, tramite l'invito a fotografare quadri di artisti in voga. Viene creato così un gioco di specchi, il racconto della riproduzione fotografica della riproduzione pittorica della realtà
In tale gioco Gertrude si imbatte nell'antagonista: Sidney Darrell. Nella trama quest'ultimo svolge il ruolo negativo per la vita delle protagoniste fino ad essere coinvolto nella morte prematura di Phyllis, la più giovane e la più bella delle sorelle Lorimer. Ma Darrell è soprattutto l'antagonista dell'artista autentico così come è concepito da Gertrude, ovvero da Amy.

Una mattina di Marzo Gertrude va nella dimora “avvolta di malinconia” di Darrell. Entra in un ambiente “arredato con tutto lo splendore confusionario che distingue lo studio di un nuovo artista alla moda”. Tra gli arredi spiccano oggetti veneziani, in particolare un vaso di vetro che contiene tuberose, della cui fragranza l'aria è impregnata. È l'odore di morte che emana dallo stesso Darrell, esteta mortifero.
Forse non a caso Oscar Wilde lodò l'arte di Amy sulla rivista The Womans' World, nel 1990, dopo la morte della giovanissima scrittrice.

Nel confronto tra Darrell e Gertrude Amy mette in scena la distanza tra aisthesis ed estetismo, ossia tra sensibilità dello sguardo che coglie la profondità del reale e tecnica artistica raffinata, sapiente, ma priva di vita. Da questo drammatico confronto esce sconfitto l'estetismo di fine secolo, il dandy narcisista. Risalta al contrario la sensibilità femminile dal cui sguardo promana un giudizio severo in cui è implicita la tensione di Amy verso un'autentica ispirazione: 
“Il suo fine intuito femminile, affilato forse dal rancore personale, aveva fatto centro sull'uomo e sulla sua natura di second'ordine. Sotto l'arroganza e la convinzione di riscuotere indubitabili successi, lei leggeva i segni di una fame quasi vile di preminenza; di un'autocoscienza morbosa; di un'insaziabile vanità. E quanto a tutte le eccellenti doti della sua abilità professionale, non riusciva a intravedere nel suo lavoro le tracce di quelle qualità che, combinate con una maestria anche minore della sua, possono fare la grandezza”. 

Con questa intuizione di Gertrude Amy pone la questione dell'ispirazione artistica che, dal suo punto di vista, non può separarsi dall'autenticità della vita, dalla sofferenza del reale, sofferenza che ispira l'illusione, il mondo parallelo della creazione artistica, che da se stessa è consolatrice.
 Forse, proprio nell'inseguimento di questa illusione, Amy Levy consumò la sua vita.