sabato 28 dicembre 2013

Arte e Vita rinnovate a passo di danza

Il film L'Artista, con la raffinata eloquenza scenografica e la straordinaria mimica dei protagonisti scandita da una musica avvolgente, gioca con le ombre e le luci della crisi del 1929. Sulla doppia scena del cinema e della vita, recita e vive, (ma le due arti si confondono nelle sequenze della trama) un grande attore del cinema muto, George Valentin. George è assurto allo stato divino dell'artista in grado di tradurre nel volto e nella gestualità le storie contemplate nella vita. Gli occhi splendenti e il sorriso radioso catturano e seducono gli spettatori.

Ma l'avvento del sonoro incrina la fama di George Valentin che, turbato dal rumore delle parole, si ostina a proporre la rappresentazione della vita con l'eloquenza muta della mimica,  perché è convinto che l'arte dell'attore sia affidata esclusivamente all'intensità delle “smorfie” del volto e alla drammatica flessibilità corporea in grado di assecondare la sensibilità immaginativa.

Poi la Fortuna, mutevole dea che muta le sorti degli uomini e ne intrica le storie, annoda il declino di George all'ascesa trionfante di una giovane donna, Peppy Miller, già ammiratrice estasiata dall'arte di lui. Peppy ama George integralmente. Ne ha colto l'ingenua umana dedizione all'arte come amata compagna della vita.

Ma l'arte riconosciuta dalla fama è soggetta al tradimento. Non è così se essa è compresa dall'amore autentico. Gli amanti sono coloro che colgono l'essenza dell'amato e di quella nutrono il desiderio infinito dell'altro. E George Valentin è amato da tre creature, angeli che lo restituiscono a quel sé autentico che lui non riconosce più. Due di queste creature, il suo cane e il suo maggiordomo, gli restano accanto anche quando, spentesi le luci della ribalta, George rimane povero in canna. 
Ma è Peppy l'angelo salvifico. E non perché, dopo essere diventata famosa e ricca, sottrae alla perdita tutte le cose più care di George, acquistandole all'asta, ma perché gli dona la speranza, confidando in lui. La fede di Peppy persuade Valentin a vivere e a non temere le metamorfosi dell'esistente, attraendolo nella magia della danza, gioco corporeo, arte senza parole, quelle parole che George è convinto di non saper modulare. E così la storia si chiude con un gioioso tip tap. A passo di danza George varca sorridente la soglia del nuovo mondo, al quale può ancora regalare le gioie della sua arte.

L'Artista è un film lieve e appassionato, un film per gli amanti della vita bella. La vita bella non è la bella vita nel senso di dolce vita. È l'arte di dimenticare affinché sia concessa alla memoria la possibilità di fecondare i semi nel grembo dell'oblio, i quali, come quelli nascosti nel grembo della terra, germoglieranno verdi e fioriti all'eterno ritorno di Primavera. 

La struttura metanarrativa dona al film profondità filosofica, moltiplicando le prospettive della finzione, ma la scelta del regista di creare un'opera muta, per denunciare la crisi epocale che investì e rinnovò anche il cinema, è un poetico tributo d'amore al muto. La poesia del film L'artista racconta l'arte rimpianta da George Valentin e ne celebra quel valore ingenuo e grandioso che è proprio dell'arte poetica ai suoi albori, allorquando gli uomini artisti “avvertono con animo perturbato e commosso”, per dirla con le parole più note di Giambattista Vico. E del resto nella parola attore c'è tutto il senso di quest'arte. Infatti, l'attore agisce la vita sulla scena, incarnandola nel patimento del suo corpo, senza il rumore delle parole, ovvero senza il gelido lògos. In questa ri-creazione consiste la poesia del film L'Artista, che sono contenta di aver visto in ritardo, quando il rumore delle critiche, che sempre accompagnano la fama, si è spento, e, nel silenzio, si può riconoscere il segno eterno dell'arte che brilla oltre il passare del tempo, soprattutto di questo nostro tempo troppo rumoroso.

sabato 14 dicembre 2013

È ancora il tempo di “Cuore di tenebra”

L'aula magna del liceo “Enrico Medi” è gremita di studenti invitati ad ascoltare Sara, un'operatrice del Centro Astalli, e Beatrice, rifugiata politica in Italia. Sara illustra alla giovane platea chi sono i “rifugiati politici” e in cosa consiste la “richiesta di asilo”. Il Centro Astalli si occupa infatti di accogliere i rifugiati, di prestare loro il primo soccorso e, successivamente, di accompagnarli nella procedura della richiesta di asilo.

Dopo aver fatto luce nella confusione di parole con cui designiamo gli stranieri che arrivano nel nostro paese, Sara, limpida nel volto e nelle parole, presenta ai ragazzi la giovane rifugiata che è venuta a raccontare la storia del suo esilio.

Sorride appena Beatrice, esule dalla Repubblica Democratica del Congo. Ha chiesto e ottenuto l'asilo politico e ora è una rifugiata in Italia. I begli occhi luminosi e miti sono rivolti ai giovani. La voce, calma e ferma, racconta le vicende sofferte in un bell'italiano, gradevolmente modulato dall'intonazione del francese. Le parole sono in armonia con i gesti pacati di chi si è educato alla compostezza interiore, che si traduce in una forza dolce come l'acconciatura dei capelli trattenuti da mille treccine pazienti. Quando Beatrice termina il racconto della persecuzione, della fuga, dell'arrivo al CentroAstalli, e delle difficili condizioni della sua attuale vita in Italia, uno studente le chiede se tutti i suoi connazionali sono perseguitati come lei. - No, chi non esprime dissenso verso il regime, vive (ma sarebbe meglio dire sopravvive) tranquillamente, sebbene in miseria - .

- Mostruosamente in miseria -, penso, considerato il fatto che la Repubblica Democratica del Congo è un paese ricchissimo di materie preziose. Infatti, oltre ai diamanti e all'oro il Congo possiede riserve di coltan, un minerale ricercatissimo dalle industrie mondiali di prodotti elettronici. Perciò, a chi si è chiesto o si chieda perché il regime totalitario della Repubblica Democratica (l'ossimoro dà i brividi) del Congo possa mantenersi stabile nonostante la povertà della moltitudine appare chiaro che, ancora una volta, la sofferenza dei popoli è causata dagli interessi di pochi, un'oligarchia plutocratica dal volto sfuggente, quasi un' ombra diabolica come quel Kurtz, cereo predatore dell'avorio, protagonista inquietante di “Cuore di tenebra” di J. Conrad.

In verità, ignoravo l'esistenza del coltan prima dell'incontro con Beatrice. Non so se siano pochi o molti quelli che, come me fino a qualche giorno fa, non sanno che gli strumenti elettronici con i quali conviviamo, computer e cellulari, contengono quest'elemento pregiato che si trova in abbondanza in un paese il cui popolo vive in povertà. E inoltre, mi chiedo quanti, tra coloro che sono al corrente dell'importanza del coltan nell'economia attuale, si diano pena per la sorte di chi, come Beatrice, è perseguitato da un governo repressivo senz'altro sostenuto dai poteri occulti delle multinazionali dell'elettronica..

Perciò, in ascolto davanti a Beatrice, non mi sono commossa, ma ho sentito che percorriamo lo stesso difficile cammino su questo pianeta interconnesso. Ho pensato che i popoli europei più deboli sono oppressi dagli stessi poteri occulti e che, ormai, anche in Italia, chi si fa portavoce di un pensiero divergente rispetto alla cultura dominante vive in una sorta di esilio.


Fortunatamente non viviamo, almeno per ora, la persecuzione politica né siamo costretti a fuggire. Tuttavia, coloro che sono soliti testimoniare concretamente il dissenso, forse, sperimentano l'isolamento, e, se non sono dotati di forza d'animo e di fiducia, rischiano di essere sopraffatti da un mobbing strisciante. E mentre si agitano movimenti di “arrabbiati” pericolosamente strumentalizzati dai violenti e dai fautori dei poteri forti, più lacerante diventa la divisione tra i cittadini e le Istituzioni, più confusa e fuorviante l'informazione dei media. Ma, in questo rumore, più di tutto è temibile la perdita della memoria della concatenazione delle vicende, recenti e remote, che hanno determinato e determinano l'attuale sofferenza dei popoli - ahimè! - su tutto il pianeta.

martedì 26 novembre 2013

Gli usignoli torneranno

- Mi scusi professoressa, potrebbe spiegarmi che cosa vuol dire “usignolo”? Il dizionario mi traduce il latino “luscinia” con questa parola che io non conosco -.

Lì per lì resto attonita, quasi stranita, poi sorrido al mio quattordicenne allievo e gli spiego che cos'è un usignolo. Subito dopo, mentre gli alunni continuano a svolgere il loro compito, incomincio a vagare nella memoria, chiedendomi quando ho incontrato per la prima volta la cosa e la parola “usignolo”. Ma è inutile, non riesco proprio a ricordarmelo. Santo cielo! Non sono per niente certa di aver visto un usignolo reale nella mia vita! Possibile? Ma no, devo averlo incontrato da qualche parte perché riesco or ora ad evocarne i gorgheggi. Ma sì, confuso tra i passerotti, i merli, le rondini e le allodole, tra i rami degli alberi della mia vita avrò visto, perdinci, anche l'usignolo!
Eppure no, non ne sono certa. E, per giunta, penso che non saprei neanche dire quando ho compreso il piano simbolico della parola “usignolo”.

Continuo a rimuginare.
Lentamente, pensa e ripensa, trovo il bandolo della matassa.
Ma sì, le fiabe! Ecco dove ho incontrato dapprincipio la cosa e la parola “usignolo”!
Le ho scoperte, insieme, negli innumerevoli boschi dei racconti per l'infanzia!

La fiaba è all'origine della mia esperienza della vita oltre l'orizzonte della casa e dell'angusto spazio circostante. Nei libri di fiabe, luoghi di iniziazione alla formazione di lettrice, prima ancora che nei testi specialistici, ho appreso i nomi delle diverse specie della categoria degli uccelli.

La confidenza con le narrazioni ha generato la conoscenza del mondo e la confidenza con le cose del mondo e con i loro nomi. Per questo l'usignolo è diventato familiare, perché nelle narrazioni fiabesche natura e cultura sono così avvinte nella parola mitopoietica da generare simultaneamente la conoscenza delle cose, la competenza linguistica che le rappresenta e, infine, la capacità interpretativa del loro piano simbolico all'interno delle narrazioni che ispirano.

Grazie a questa confidenza con la lettura, fin dalla più tenera età, a scuola, di soglia in soglia, avventurandosi nei linguaggi delle materie, si impara a educare e a raffinare, su testi di contenuto e genere diversi e via via più complessi, le facoltà analitiche ed ermeneutiche proprie della sensibilità e della intelligenza umana.

È accaduto così anche a me quando, dopo aver letto la prima storia in cui era nominato l'usignolo, ne ho conosciute tante altre. Ed è sorprendente scoprire che l'usignolo ricorre come protagonista in molte narrazioni della tradizione letteraria, dalla fiaba di Andersen (L'usignolo dell'imperatore), a quella di Wilde (L'usignolo e la rosa), dal racconto esiodeo (L'usinolo e lo sparviero), a “La sfida tra un cantore e un usignolo”, raccontata da Mercurio nel poema “Adone” di Giambattista Marino, fino all'invocazione lirica dell' “Ode all'usignolo” di John Keats, e alle tante altre storie che hanno fatto dell'uccellino - usignolo la “figura” stessa di bellezza e fragilità, generosità ed eroismo, bellezza e verità.
Sicché, l'usignolo sarebbe inseparabile dalla storia della mia vita anche se non l'avessi mai visto e sentito.

E allora, si potrebbe affermare che la cultura è conoscenza vasta e plurale della natura. La cultura (l'origine del termine è nel verbo latino “colere” ossia “coltivare”) è scavo profondo del territorio della vita, dentro e fuori di noi. Il territorio della vita è storia complessa di storie disseminate nei testi interconnessi della tradizione culturale o, per meglio dire, interculturale dei popoli della terra.

Penso che si possa concordemente affermare che la scuola è il luogo della educazione alla conoscenza e alla cultura e che, pertanto, il suo obiettivo irrinunciabile consiste nel rendere ogni individuo consapevole di sé e del mondo , affinché, da uomo libero inscriva la sua storia nella Storia.
Sicché, quando sento parlare di “certificazione” o di “valutazione” delle competenze sulla base di un sistema ispirato dal “pensiero unico”, non posso fare a meno di sussultare, sdegnata. E non riesco a capacitarmi della svalutazione dei contenuti che genera un prassi didattica indecorosa, orientata all'addestramento e non all'educazione.

L'accettazione indiscussa dei test proposti dall'istituto di valutazione, per il timore di esiti negativi, ha spostato gli obiettivi dell'insegnamento dai contenuti all'esercizio meccanico con soluzione univoca. Gli adepti al “pensiero unico”, senza battere ciglio e con ostentata sicurezza, ripetono immancabilmente che bisogna far esercitare i ragazzi affinché superino le prove INVALSI e i test di accesso al lavoro. La conoscenza dei contenuti non è importante, purché siano addestrati a scegliere la risposta esatta.
Non c'è scampo da questi neopositivisti della scienza dei grafici e delle slide di “power point”.
Ma, in quest'ebbrezza raggelata, senza storie, esaurita nella rappresentazione statistica dei dati, dove sono gli occhi stupiti dei giovani che scoprono, imprevedibilmente, traducendo un brano latino, l'esistenza dell'usignolo e delle sue narrazioni? Quale spazio potrà avere la ricerca dialogica su cui si basa l'autentico insegnamento?

Cedendo al “pensiero unico” si rischia di venir meno alla ricerca della verità.
I Greci nominarono “alètheia”, ovvero “svelamento”, la verità. Alètheia, infatti, si nasconde e, per svelarsi, ha bisogno dell'ombra. È nell'indefinito che la si intravede. Alètheia riluce di quando in quando, qua e là, lungo il cammino dell'umanità, grazie al pensiero e all'arte stessa degli uomini che la cercano, continuando a leggere nel “grande libro della natura” e in quello della cultura, non solo con l'ausilio del pensiero logico, ma anche di quello intuitivo e creativo del genio umano. E questo secondo libro ha infinite pagine bianche da riempire prima della fine della Storia. Sono le pagine riservate alle letture e riletture, alle prove e riprove, alle analisi e alle interpretazioni di innumerevoli cercatori di oggi e di domani.
Grazie a questi cercatori gli usignoli torneranno per inventare nuove melodie.



giovedì 14 novembre 2013

Una interpretazione della novella "Rosso Malpelo" di G. Verga


Mi capita spesso di affermare che la letteratura è il luogo dove si incontra l'intera esperienza della vita umana.
Stamattina mi sono svegliata in compagnia di Rosso Malpelo.
Rosso Malpelo è un “caruso” uscito dalla fantasia di Giovanni Verga. Si chiama così a causa dei suoi capelli rossi che per la gente del villaggio sono il segno di una cattiveria congenita.
“Persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo”.
È una novella tremenda. Il racconto spietato delle dinamiche di gruppo alleate contro una sorta di capro espiatorio dell'infelicità umana. 
Non so se tra i commenti a questa novella si trovi un'interpretazione del genere. 
A me sembra che Verga abbia riversato nel racconto il suo dolore di  uomo e di scrittore disadattato nella società della seconda metà dell'ottocento. Si potrebbe vedere in Malpelo l'artista maledetto incarnato dagli Scapigliati milanesi, alla cui poetica lo scrittore siciliano aderì nel corso del suo soggiorno nel capoluogo lombardo.

Malpelo lavora in una cava di rena, schiavo in compagnia di altri schiavi. Ma a differenza di Malpelo e di quella "bestia" ingenua che era stato suo padre, gli altri minatori si stringono in alleanza, e così raggruppati si sentono forti e perdono la coscienza della loro condizione. Di conseguenza, incoscientemente, trovano nel "diverso" Malpelo il soggetto su cui possono esercitare una sorta di supremazia. Risalta così l'oppressione del gruppo sull'individuo inerme, come la "rena traditora" del pilastro crollato su mastro Misciu, il padre di Malpelo.  

"La rena è traditora - diceva a Ranocchio sottovoce: - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui".

Questo è il pensiero tragico di Verga. Gli uomini fanno gruppo contro un “diverso” per sentirsi esistere. E il gruppo sociale è cieco.
Nella novella questa cecità è descritta, nella sua empia crudeltà, dallo stile oggettivo teorizzato dallo scrittore. Verga, infatti, facendo sua la poetica del Naturalismo francese, assegna al narratore il compito di rappresentare il “fatto nudo e schietto”.
In una narrazione siffatta “la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile […] l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé”.

Ma se è vero che la mimesi linguistica e il racconto corale riescono a celare la mano del grande scrittore verista, è ancora più vero che l'ispirazione verghiana sgorga da una straordinaria pietà umana. L'amore filiale di Malpelo si manifesta in quel suo scavare, rabbioso e disperato, nella rena sotto la quale è sepolto suo padre. Scava con le unghie senza sosta finché non gli si staccano dalle dita pendendo sulle mani insanguinate. Allora il cuore a noi si stringe in una morsa di pietà. E poi la pietà cede al dolore, mentre leggiamo i passi in cui Malpelo lucida accuratamente gli attrezzi appartenuti a suo padre e contempla e accarezza con lo sguardo le scarpe di lui.

Spietato, invece, è lo scrittore nell'annotare i comportamenti del gruppo sociale verso Malpelo
Eppure, fatta eccezione per il padrone e per l'ingegnere della cava, ai quali Verga fa appena cenno, quanto basta per farne gli emblemi del gelido interesse economico, e per Ranocchio, esponente della schiera dei fragili destinati a soccombere secondo la logica scientifica della selezione naturale, il gruppo sociale è costituito da miserabili come Malpelo. Ma i miserabili fanno gruppo per sentirsi forti e per trovare una sorta di gratificazione esistenziale nella miseria della sorte che tutti li accomuna. La sorte che tutti ci accomuna.

A Malpelo, infine, non resta altro che la compagnia degli oggetti appartenuti a suo padre, quando decide di accettare l'incarico pericoloso di un'esplorazione nella cava, dove si smarrirà per sempre.
"Prese gli attrezzi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui".

lunedì 11 novembre 2013

Tu ne quaesieris, scire nefas

Caro Ministro dell'Istruzione,
Le scrivo mentre riascolto la Sua introduzione al convegno "Uno, nessuno, centomila. Libri di testo e risorse digitali per la scuola italiana in Europa", tenutosi presso la Scuola Normale di Pisa. È apprezzabile il Suo sforzo nel mettere a fuoco le idee, ma si avverte la fatica di annaspare nel vuoto ideale. Il Suo discorso segue la retorica disordinata, calcata dall'enfasi della captatio benevolentiae. Sono una insegnane anagraficamente vecchia, ma ancora giovane nella mente e nel cuore. Siccome non ho disdegnato l'alfabetizzazione digitale, sono in grado di avvalermi delle nuove tecnologie nello svolgimento del mio lavoro. Ancora non mi è consentito di andare in pensione, ma non me ne rammarico, perché mi piace insegnare.
Ministro, mentre la ascolto, avverto la Sua ansia di formare gli insegnanti, colgo il disappunto, da Lei espresso con gentilezza, nel denominare “più conservatori” quei docenti (ma sono veramente pochi, mi creda) ostili al digitale. Le Sue parole, il Suo tono mi trasmettono disagio e tristezza. Mi rendo conto di sembrare una sciocca, perché Lei non mi conosce, non sa neppure che io esisto, ma non posso fare a meno di sentirmi punta nel vivo. Lei, Ministro, è molto più giovane di me, quindi più confidente nel nuovo, ma , forse a causa della stessa giovane età, Le manca l'empatia, quella straordinaria capacità umana che, oggi, in seguito alle ricerche e agli esperimenti del neurobiologo Giacomo Rizzolatti, è stata riconosciuta, scientificamente (so che questo avverbio e tutto il suo campo semantico Le piace moltissimo), come una attività cerebrale promossa dai cosiddetti neuroni specchio. Ebbene, Lei, Ministro, non conosce e non comprende la situazione reale degli insegnanti e, come del resto i Suoi ultimi predecessori, è in grave difetto verso gli insegnanti, i quali si sono formati  sul campo, studiando e meditando su tutta la loro esperienza cognitiva, anche su quella di quando erano discenti, integrando quella parte del viaggio nel sapere con il percorso compiuto come docenti. Se di formatori c'è bisogno, questi devono essere reperiti sul campo e devono essere ascoltati sia da Lei, Ministro, che da quegli esperti che ogni tanto piombano nelle scuole e pretendono di insegnare ad insegnare, quando, magari, non vivono l'insegnamento da anni o, addirittura non l'hanno mai vissuto. E a questo punto interviene la questione basilare della comunicazione tra Istituzioni e cittadini, tra Ministeri e lavoratori. In tale questione è rilevante il problema della presenza di filtri che impediscono la conoscenza della realtà. Questi filtri possono essere i vari staff vicini alle dirigenze, gli stessi dirigenti, o le agenzie di monitoraggio e valutazione, che trasmettono soltanto dati numerici, inadeguati ad illustrare la complessità del reale. Nelle stesse scuole, Ministro, si lavora ipocritamente sul burocratico, perché, in verità, i dipartimenti disciplinari non funzionano come sarebbe necessario,  ma si limitano ad una produzione meramente burocratica. Pertanto è urgente, innanzitutto, la conoscenza della realtà, per capire come sono e che cosa fanno realmente gli insegnanti sul campo, dei quali non si comprende nulla se ci si ferma ad esaminare i risultati tabellati dalle agenzie di monitoraggio.  È difficile, lo so. Tuttavia si potrebbe tentare qualcosa. Penso all'incentivazione, non formale, della ricerca dipartimentale e interdipartimentale, e alla produzione di veri e propri diari di bordo da trasformare in materiale didattico condivisibile mediante quella digitalizzazione che Le sta così a cuore. Inoltre, ritengo ineludibile la necessità di rivedere la legge dell'Autonomia Scolastica che ha depauperato culturalmente la scuola, favorendo un protagonismo docente generalmente svuotato di contenuti autentici, e ha creato fratture nocive tra gli insegnanti, la maggior parte dei quali partecipa alla vita scolastica con silenziosa frustrazione, e subisce ormai passivamente le scelte oligarchiche.  Prima dell'Autonomia e delle "innovazioni" di Luigi Berlinguer e dei suoi successori – mi sia concessa la nostalgia – quando si incontravano, animati dal desiderio di confrontarsi, gli insegnanti si raccontavano le esperienze, i problemi, si chiedevano scambievolmente pareri sui compiti assegnati, sulle verifiche, sulle metodologie, si confidavano persino le scoperte delle ultime letture. A quel tempo nella scuola c'era vivacità dialogica. Dai discorsi si percepiva il sentimento comune  di svolgere un lavoro importante per la vita dei singoli ragazzi e per tutta la società civile. Oggi, invece, nelle scuole si ascolta un balbettio di acronimi e si assiste a un annoiato girare e rigirare di griglie, tabelle e test a crocette. E il risultato di tutto questo è il disastro dell'eloquenza e, pertanto, del pensiero, in tutte le sue possibilità, soprattutto quella creativa, da Lei ritenuta importanissima, di insegnanti e allievi.
Infine, sono convinta, come Lei del resto, Ministro, che la scuola può molto per risollevare le sorti dell'Italia. E proprio per questo ritengo che non ci si possa basare su analisi sommarie, per conoscere la realtà. Concordo con Lei anche quando afferma che non si può avere un feedback “diretto, empirico, immediato delle scelte che facciamo”. E allora, cara Ministro, le chiedo come si possa conoscere  hic et nunc, con un test a crocette, il feedback dell'azione didattica.
Quante volte ci interroghiamo sulla validità del lavoro svolto! L'etica del ruolo ci impone questo interrogativo.
Quante volte ci capita di essere contenti e di sussurrare - sì, oggi la lezione è stata efficace, abbiamo lavorato bene -. Quante altre, presi dallo sconforto e dal dubbio, temiamo di non essere stati in grado di intercettare la mente e il cuore dei nostri allievi! In queste occasioni mi sale alle labbra quel verso famoso di Orazio:
 “Tu ne quaesieris, scire nefas...”.
 Ecco, Ministro, non sarebbe male tessere ogni tanto un elogio della imperfezione didattica.

Cordiali saluti

Giuseppina Imperato
(docente di Italiano e Latino presso il Liceo “E. Medi” di Cicciano)



sabato 26 ottobre 2013

Il Rancore? Figlio di Ingiustizia e Dolore


Recentemente mi è capitato di ascoltare e di leggere che i cittadini italiani sono diventati rancorosi. Brutto sentimento il rancore. Rima con livore. Ci si presenta agli occhi un'Italia rabbuiata e ghignante. Mi fa davvero grande tristezza questa immagine. Eppure, se dovessi rappresentare me stessa, oggi, mi dipingerei livida di rancore. Da dove nasce questo brutto sentimento che fa ribrezzo a quell'altra me stessa, incline al sorriso e alla pietà, che oggi scopre l'altra immagine di sé con le labbra increspate da una piega amara e gli occhi lampeggianti di ira a stento repressa?

Non credo che le elucubrazioni degli psicosociologi riuscirebbero a dare una risposta soddisfacente a questa angosciosa domanda. A meno che non tentino la strada che scende nel profondo del sé, dove è nascosta la complessità dell'umano, giù in fondo, nei meandri più torbidi della coscienza.

Si capiscono gli aspetti tragici della Storia solo allorquando la si rivive in qualche modo,  anche attraverso  un racconto che risvegli l'immaginazione e il sentimento empatico della tragedia dei vinti e del sacrificio di coloro che si è soliti chiamare eroi. È noto, tuttavia, che nel corso delle crisi epocali, tanto più dolorosa va in scena la tragedia della moltitudine dei deboli. Ma ai miseri è sempre mancata la voce e la visibilità nei libri di storia. Non se ne saprebbe nulla, se non ci avessero pensato i poeti ad immortalarli. La pagina analitica delle congiunture economiche e politiche non scuote le coscienze come quella di Giovanni Verga, quando narra delle plebi meridionali, o di Carlo Levi, quando dipinge la desolazione del mondo lucano, dei Sassi di Matera, quel locus horridus oggi tanto ammirato, forse proprio per quello stupendo orrore di verità che esso evoca.

Anche per dare una spiegazione degli animi invasi dal rancore ci sarebbe bisogno di narratori possenti, come quelli prima nominati, o come i grandi Russi, in grado di risvegliare Pietà, il “sentimento ormai stracco ed ammortito nei cuori”. Dovrebbero rinascere i racconti epici di poeti sapienti nello scavare nella loro immaginazione, e di scolpirvi la decadenza italiana, dopo averla contemplata, questa decadenza, dentro ai luoghi ordinari della “civitas”. Non serve a niente, infatti, imprecare contro le Istituzioni  o gridare nel frastuono della massa contro i Politici corrotti.

Entrate in un luogo della Sanità pubblica, quanti sfaccendati bighellonano rubando lo stipendio? Entrate nelle scuole o in un qualunque ufficio della pubblica amministrazione, vi imbatterete in parecchi imboscati, che magari hanno anche il coraggio di lamentarsi. Provate a chiamare il vostro medico di base per una visita, si farà descrivere frettolosamente i sintomi e vi prescriverà il farmaco. Se poi vi decidete a recarvi nel suo studio, è cosa rara che vi visiti. Nella migliore delle ipotesi vi spedirà via con un elenco di analisi da fare. Nessun ascolto o contatto umano, come ha insegnato lo stesso padre Ippocrate. E se poi vi dovesse capitare di acquistare un immobile, o di rivolgervi ad un imprenditore qualsiasi, o di ricorrere ad un qualsivoglia specialista, ditemi - in quanti riuscirete ad evitare l'imbarazzo di doverla chiedere la fattura, se non avrete preferito far finta di niente e se avrete potuto evitare un vile ricatto, impudentemente dichiarato o miseramente suggerito? - .

Roberto Saviano è diventato ricco e famoso raccontando di camorra, e oggi è addirittura considerato come un eroe. Ma c'è qualcuno che ha il coraggio di raccontare la proterva, strisciante, egoistica, irresponsabile quotidianità piccolo borghese?
E il piagnisteo piccolo borghese fa rabbrividire. La sventura e il dolore possono abbattersi su ogni uomo. Ma, quanto maggiore è il loro peso nella casa dei poveri! L'operaia precaria a raccogliere pomodori, i giovani sfruttati e malpagati, le badanti, gli emigrati e gli immigrati, gli esuli, hanno lo stesso sostegno, gli stessi conforti in una sventura della vita? 

Se nasceranno narratori di questa tragica epopea, questi considererò i miei eroi. Loro sapranno raccontare il rancore degli uomini onesti, derisi come ingenui anche dagli uomini dabbene, esperti navigatori del fango. Mi fa ormai orrore la coltivazione dell'orticello piccolo borghese, provo un disprezzo profondo per i caritatevoli che tacitano la coscienza ma che, al momento opportuno, scelgono di appoggiare quei demagoghi che li sgraveranno delle tasse sulle loro proprietà, piccole o grandi che siano. 

“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”, perché dove sono necessari gli eroi, proprio lì imperano l'ingiustizia e la sofferenza!
 Sicché, eccola la risposta alla domanda iniziale: in quel Paese in cui regnino ingiustizia e dolore, lì attecchiscono il rancore, e la discordia.
La strada della santità è difficoltosa e percorsa da radi passi, come quella dell'eroismo.

È auspicabile che si agisca in tanti per la giustizia sociale, in ogni luogo della comunità civile. È urgente che ogni cittadino si assuma le responsabilità del proprio ruolo, in ogni istante. Non si può più rimandare, o sorvolare. E coloro che hanno compiti di presiedere autorevolmente, in qualsiasi ambito della società, se non hanno competenza e cuore di sostenere un fardello pesante, siano responsabili almeno nel lasciare il posto a qualcuno più capace! Di questo un Papa è stato esempio, appena qualche mese fa.  

sabato 19 ottobre 2013

Maestri e Materie



Si chiamava Eugenia, da “eughenès”, vocabolo greco che significa “di buona stirpe”. E in verità, Eugenia era una nobile signora, nubile. Non si volle sposare, forse perché, essendo un chimico, aveva troppo da fare per capire la legge che “sposa” l'idrogeno all'ossigeno “senza farli scoppiare”. Eugenia era alta e slanciata; incedeva con lenta sprezzatura, posando lo sguardo glaciale e penetrante sulla realtà circostante. Sorrideva, ma più spesso beffardamente, dall'alto della sua sapienza magica, mentre penetrava i recessi della materia con la forza acuminata e magnetica dei suoi occhi azzurri. Ma quegli stessi occhi sfavillavano d'amore quando, scomponendo la materia nei suoi elementi essenziali, intuivano gli atomi fino alle particelle subatomiche, fino al volteggiare invisibile degli elettroni nei loro orbitali. Lei stessa, in quei momenti, diventava un fascio di invisibile ma potente energia, beata della sua “materia”. - Quanto è pregnante e colmo di affetti questo vocabolo, che ha l'etimologia nel latino “mater” (madre), e che oggi è perlopiù sostituito dall'astratto e asettico “disciplina”! - La chimica, per Eugenia, era la scienza di esplorare la realtà prima: a questa scienza lei voleva sedurre i suoi studenti, per iniziarli alla conoscenza dei misteri della “natura delle cose”. 

C'è una terzina della Divina Commedia che racconta visibilmente l'ardore della conoscenza. In tre versi viviamo l'esperienza del pellegrino Dante quando, guidato da Virgilio, arriva sul ciglio della valle infernale brulicante delle fiamme dei fraudolenti, tra i quali incontrerà Ulisse: 

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù senz’esser urto. (Inferno, XXVI, vv. 43-45 )        
Il poeta si è levato su un ponte a guardare in fondo al burrone in maniera tale che, se non si fosse afferrato alla sporgenza di una roccia, sarebbe finito di sotto senza esservi spinto da nessuno. 

Così viene rappresentata l'emozione della curiosità di osservare quelle fiamme e di scoprirne il misterioso “furto”. C'è una sorprendente corrispondenza tra le fiamme disseminate nella valle infernale e il fuoco del desiderio che muove il pellegrino a sporgersi verso l’oggetto da conoscere, nonostante il pericolo di precipitare nel vuoto. Con questo stesso ardore Eugenia desiderava guidare gli studenti a capire la chimica. Aveva lei, inoltre, una inaspettata passione per certe parole della filosofia. Ogni tanto, infatti, sorridendo, chiedeva agli scolari se conoscessero il significato di “trascendente” e di “trascendentale”, forse perché sentiva che con la sua “materia” si poteva esplorare la materia dell'universo, fino ad intuire nei “semina rerum” (semi delle cose) il principio trascendente dell'antimateria. 

Se provo ad immaginarmi Eugenia nella scuola di oggi, la scorgo beffarda più che mai nei suoi occhi azzurri. Poserebbe quello sguardo sprezzante sui test e le griglie di valutazione. Passerebbe con distacco disgustato oltre tutte le pratiche e le ingerenze invasive di "esperti" di vario genere, i quali, oggi, mortificano la scuola e, a poco a poco, la distruggono. Riderebbe amaramente, Eugenia, di quei politici ignoranti e dei sindacati che hanno svenduto la scuola al mercato. 

Non posso fare a meno di pensare a Eugenia in questo tempo di crisi! 

Non la crisi mi angustia, ma l'assenza di discernimento che avverto intorno a me. Mi sembra paradossale il fatto che, mentre domina ovunque la parola chiave “progetto”, si proceda invece alla cieca, riducendo ogni cosa all'elencazione di cifre insignificanti collegate a sigle oscure. Ogni questione umana è ridotta ad un numero. Conti aridi che non tengono conto della umanità! Elenchi di sfaceli! Rivendicazioni numeriche! E slogan obsoleti e insensati! La “civitas” è disgregata, la solidarietà tirata di qua e di là come simbolo da sbandierare. La corruzione è messa in vetrina per audience. Persino le tragedie umane diventano un'occasione truculenta di teatro per i buoni e per i cattivi. 

Forse è tempo di tornare a “madre terra” e a considerare che è lei che “ci alimenta e ci sostiene coi suoi frutti, i fiori e l'erba”. È tempo di ricostruire un consesso umano di narrazioni naturali di esperienze; è tempo di baratto di cose buone in uno scambio libero dall'ossessione del profitto. 

Ed è tempo, finalmente, di tornare a considerare gli insegnanti come Maestri, come Virgilio e Beatrice, amanti - mediatori della conoscenza.







giovedì 22 agosto 2013

Pensando a Moritz Erhardt, lo studente tedesco morto a Londra

Un mattino d’aprile, la osservo mentre, smilza e agile, si muove al check-in dell’aeroporto di Capodichino. Si imbarcherà per Londra. Vuole lasciare l’Italia. Gli studi li ha finiti, ormai. Ha concluso di corsa anche il biennio per la laurea magistrale. I capelli di un castano dorato ondeggiano sul cappuccio orlato di pelliccia del piumino. Il bel viso mobile tradisce l’ostinazione di dire addio a Napoli, che lei è determinata ad odiare per i problemi antichi che tutti conoscono. Londra è per lei l’isola che non c’è, il luogo della realizzazione, o, forse, della liberazione. Evita di guardarmi. Anche se non l’ho trattenuta, lei sa che io penso che tornerà presto, dopo un’esperienza lontano da casa, un’esperienza che, sono sicura, le gioverà. Mi imprimo nella mente i suoi movimenti di esperta viaggiatrice, soprattutto quando si china sui bagagli, mentre i capelli setosi le scivolano sul viso. Fino a quando non passa la barriera della polizia non provo nulla. Quando non posso più vederla, esco dall’aeroporto. In auto, non riesco a immaginare nient’altro se non il suo volto bellissimo e determinato, quasi fino alla durezza. Appena varco la soglia di casa, mi precipito al computer. Cerco una canzone che mi è risuonata in testa dal momento in cui l’ho salutata. Eccola: “Prendi il mio cuore…”, è il tema da “In un mercato persiano” di Albert Ketelbey.
Mi lascio sommergere dalla melodia. Non sono ormai nient’altro che sentimento materno. Quando lei era piccina piccina, inventavo filastrocche musicali – “pei tuoi capelli ho reciso l’oro del grano, per i tuoi occhi ho rubato un pezzetto di cielo…”

Sono passati due anni e quattro mesi, e lei è ancora a Londra, da Mc Donald’s. Mi stupiscono la sua forza e il suo ottimismo. – In Italia non ci torno – ripete di continuo. Ma mi telefona tutte le sere. Ogni tanto viene per qualche giorno. E sono giorni esasperati dalla sua irritazione. Ogni volta mi do da fare per confutare i suoi argomenti sulla situazione disastrosa dell’Italia. Ma lei non si convince e se ne torna a Londra, da Mc Donald’s.

E io resto qui a ripensare a come l’ho tirata su. Con i sacrifici colmi di grandi speranze, come ogni altra mamma della terra.

Il ricordo di mia figlia emigrante s’è svegliato forte, oggi, col pensiero della madre di Moritz Erhardt, lo studente tedesco ventunenne che è morto a Londra, dove stava facendo uno stage nella sede britannica della Bank of America, dopo aver lavorato per 72 ore di fila.
 Lascio le disamine sociologiche, economiche e politiche ai professionisti dell’informazione. Da parte mia vorrei testimoniare soltanto lo stato d’animo di una madre al tempo della crisi. Mentre nei Palazzi del potere si ciancia di crescita, ripresa, occupazione giovanile, sciorinando numeri senza senso, io penso a mia figlia emigrata da Mc Donald’s e la signora Erhardt piange suo figlio morto di speranza, e tante altre madri del mondo sono in ansia per i loro figli.

E intanto, l’Italia è prigioniera dei capricci di un vecchio egotista e manipolatore, giudicato reo di frode fiscale, al quale, ahimè, tanti cittadini, che hanno smarrito il senso della realtà, continuano a dare il loro consenso. E intanto, l’intera classe politica italiana, del tutto priva di limpidezza di pensiero e di parola, si barcamena in una palude di sofismi.



martedì 20 agosto 2013

L’arte di ritirarsi in “Io, tu e le rose”

Tardo pomeriggio d’agosto: dal finestrino dell’automobile guardo la campagna venirmi incontro ai lati di una stradicciola che unisce la piana di Nola a quella di Caserta. Il tramonto è ancora lontano. Se fosse un bel pomeriggio d’inverno, a quest’ora lo vedrei, all’orizzonte, cadere, rosso, oltre i rami spogli degli alberi. Ora, invece, irraggia di luce l’aria ferma e densa d’afa. Non si muove una foglia. I finestrini sono chiusi. Mi godo il fresco condizionato. La radio è sintonizzata su un’emittente locale. La voce di testa di Orietta Berti canta “Io, tu e le rose” e mi manda altrove.

Mi ritrovo nella vecchia casa di pietra del paesino cilentano che si snoda come un serpentello lungo il crinale di una collina argentata dagli ulivi e profumata di fichi. Sullo sfondo, verso sud, si erge il Monte Stella rivestito di foreste e di macchia mediterranea. Al limite nord del paesello, invece, presso la cappella di Santa Maria, dove la Statale delle Calabrie forma una ipsilon di manzoniana memoria con la strada che si inerpica verso Rocca Cilento, il cui castello domina maestoso sul mio paesello, si intravede il triangolo di mare che lambisce Agropoli. Nel fondovalle scorre l’Alento, che, d’estate, smette di essere fiume e diventa appena appena un rigagnolo che si insinua tra le petraie del suo letto.


Arretro di tanti, tanti anni. Ero bambina, dodici o tredici anni, e non vedevo l’ora di diventare grande. Mia madre, naturalmente, amò questa canzone così tradizionale del Festival sanremese. A me sembrava lamentosa e sdolcinata, per vecchi. Non è una bella canzone, lo penso tuttora. Ma ha la potenza di risvegliare ciò che fu, come se fosse ora. Non provo rimpianto. Anzi, mi accoccolo in me stessa e mi godo la vita piena, in un punto infinito. Niente passato o futuro. Solo presente nell'attesa di altra vita da accogliere. “Iooo, tuuu e le roseeeeeeeee, ioooo tuuu e l’amoreeeeeeeeee” continua a gridare Orietta. Certo, ci dovette rimanere male l’interprete delle canzoni di Suor Sorriso quando le dissero del biglietto trovato accanto al cadavere di Luigi Tenco: “Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt'altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale…”.


Ricordo il mio turbamento giovanile. Non riuscivo a capire la scelta di morire per una gara canora. Mi sembrava assurdo il suicidio “come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale”. Eh sì, ci deve essere un vuoto colmo di disperazione in fondo a una decisione simile! E i mass media allora, come fanno ancora oggi, sfamarono coi pettegolezzi l’inedia cerebrale della massa. Le riviste di gossip di quell'epoca, infatti, mutatis mutandis, non erano diverse da quelle che mi capitano tra le mani mentre da Hair’s Mode aspetto che Grazia mi tagli i capelli. Solo che, allora, per le ragazze non c’era molto da fare e da scegliere per svagarsi, specialmente in un paesino minuscolo situato lungo la vecchia Nazionale delle Calabrie, a una sessantina di chilometri da Sapri, nelle cui vicinanze Carlo Pisacane, poco più di un secolo prima, si era sacrificato nel tentativo di portare la rivoluzione socialista ai contadini che, in verità, non lo capirono affatto.


In seguito, frequentando il ginnasio in una cittadina vicina, conobbi, grazie alle mie compagne (la classe era solo femminile) altra musica. Mi ricordo che, oltre ai più famosi Beatles e Rolling Stones, andavano di moda i Bee Gees. Di questo gruppo – oh, portento della memoria! - Silvana, Rosellina e Pierangela mi regalarono il disco della canzone “Massachusetts”.


Molto è cambiato nel giro di mezzo secolo. Non tanto perché i lettori di compact disk hanno sostituito il giradischi, o perché la televisione ha moltiplicato all'infinito i suoi canali! Ma perché siamo immersi in infinite possibilità di comunicazione. Mentre scrivo, dal terzo canale della radio mi arrivano le notizie lette dal giornalista di Prima pagina. Se voglio, posso recuperare nel web l’articolo che mi interessa. Tutti i giornali ormai sono leggibili on line. E, se mi piace, posso ascoltare da quel pozzo senza fondo che è YouTube qualsiasi musica, di ogni tempo e paese. - Ma che noia! – vero? Tutte queste cose si sanno e sono fonte inesauribile di un’infinità di riflessioni molto articolate da parte degli intellettuali d'oggi. Ciò non toglie che le testimonianze del vissuto di una persona hanno un sapore più gustoso. E io ora sono qui, testimone che incarna i mutamenti accaduti nel mondo, narratrice che incarna un'altra memoria, secondo un mutato avvertimento del tempo. La linearità cronologica è una costruzione artificiale. Nella vita delle creature, infatti, il tempo è un intricato andirivieni. Ma anche questo fenomeno è stato raccontato, al punto che i romanzieri hanno dovuto infrangere del tutto le categorie tradizionali dell'arte del narrare, soprattutto quella del tempo. Qualcosa di simile accadde in seguito alla Rivoluzione copernicana. Ma, dopo la legge della relatività, siamo precipitati nella visione e nel racconto di frammenti, sebbene si tratti di frammenti volteggianti in infinite possibilità di connessioni spaziotemporali. Le nuove tecnologie hanno potenziato straordinariamente la facoltà di spostamento spaziotemporale e moltiplicato all'infinito le prospettive. E pensare che, fino a non molti anni or sono, questa facoltà sembrava appartenere solo agli artisti, perché loro sanno dominare i linguaggi e possono, dunque, tradurre in forme percepibili i viaggi della loro memoria, sia storica che fantastica. Infatti, sebbene l'andirivieni nella memoria capiti a tutti, non molti sono in grado di esprimere questa esperienza. Per poterlo fare è necessario coltivare un’arte in grado di dare una forma ai viaggi della memoria.


Al tempo di “Io tu e le rose” tenevo un diario che ho smarrito nei traslochi della mia vita. Il diario è una specie di blog molto privato con la funzione di sfogarsi raccontandosi. Infatti, i diari degli adolescenti sono segreti. Invece i blog sono dei diari aperti, di ogni genere di contenuto e stile. Sono frammenti narrativi scritti nell'etere. Con l'avvento dei blogger potremmo dire che in ogni istante, in tempo reale, si scrive la storia del globo in tanti tasselli di infiniti colori. Anche il rapporto causa effetto di tipo lineare è saltato. Uno zigzagare di eventi di ogni tipo ripercuote i suoi effetti imprevedibilmente su ogni dove. C’è davvero da ridere al pensiero di quelli che credono di essere determinanti per le sorti del loro paese, o del mondo addirittura.


L’avevo abbandonato questo post. Mi sembrava insulso ed incoerente. Nel frattempo, però, mi è capitato di andare in libreria e di ritornare allo scaffale dove giaceva un volume più volte contemplato e sfogliato. Per due mesi ho resistito all'impulso di comprarlo: “diciotto euro … quattrocentocinquantaquattro pagine!”.


Ma il giorno di Ferragosto cedo alla voluttà. Me ne vado a casa col libro tra le mani.


Sono presa dall'ebbrezza della vacanza immobile. La vita fluisce beata, senza gli impedimenti della consuetudine.


Mi immergo nella lettura. L’autore parla di come diventare amici di se stessi, di come ritrovarsi per scoprire che il "sé!, ovvero ”l’io dato", è una molteplicità di altri “io”, tra i quali “l’io rappresentato”, se si vuole bene, si dà da fare per stabilire una relazione amichevole. Sembra che il “sé” sia in realtà una sorta di polis da organizzare. Pertanto, se ci adoperiamo per mettere d’accordo tutti i nostri “sé” senza risentimento, - quel risentimento che Luigi Tenco finì col rivolgere contro se stesso - mi dico ora, ci incammineremo per la via dell’autodeterminazione e dell’autonomia, dopo aver sperimentato il percorso che porta alla liberazione da quanto e da quanti nella nostra esperienza del mondo ci soffocavano. Bisogna, infatti ritirarsi in se stessi, per aprirsi, quanto più gradevolmente possibile, al mondo.


Ora ripenso al momento in cui mi sono accoccolata in me stessa. Trovo diversi nessi tra il libro e il mio racconto. “Io tu e le rose” è una metafora narrativa della vita in ricerca…tra rose e… pure spine. Ciononostante la narrazione mitiga le angustie e gode del roseto.


La vita, si sa, sporge su un abisso che sgomenta. Da questo abisso risuonano le domande sul senso della vita che conosciamo e di quella che ignoriamo, sull'andirivieni delle stagioni e sul farsi e disfarsi della materia in metamorfosi eterna. Accade talvolta che a queste domande preferiamo restare sordi, a causa dell’angoscia che ci attanaglia. Ma può anche succedere che esse ci invitino a vivere in ricerca lungo la via che ora scende nell'interiorità e ora, da lì, riemerge per aprirsi al mondo.


Nel libro comprato a ferragosto si ribadisce, tra l’altro e non senza attingere al pensiero classico, che la vita è un’arte e che “le arti sono ponti sugli abissi”. Quest’arte si spinge fino all'ascesi nel senso del greco “àskesis”, ossia “esercizio”.  La vita intera è un “esercizio” artistico che mira al perfezionamento, fino all’”eccellenza”.


A ciascuno la sua “àskesis"!


Tuttavia, secondo l’autore del mio libro, uno degli esercizi di “arte come ponte sull'abisso" è proprio l’arte del raccontarsi, esplorando la memoria. Come faceva qualche adolescente al tempo di “Io tu e le rose”.


E in fine, eccovi il mio libro di Ferragosto!


mercoledì 7 agosto 2013

Cattedrali in libreria

“Ognuno scrive un libro per sé, ognuno ha il suo libro. Non c’è un libro per tutti”. Queste affermazioni mi hanno trovata in disaccordo. Ho ribattuto che non è vero, che ci sono libri per tutti, architetture immense ed immortali. Ma come le grandi cattedrali questi libri richiedono la pazienza di raccogliersi in silenzio per ore, per giorni, in qualche caso anche per mesi. E una pazienza tale è virtù rara di questi tempi. I libri di cui parlo, infatti, sono i grandi romanzi, gli affreschi minuziosi delle vicende umane. Pensate che in queste narrazioni alla descrizione di un luogo, interno o esterno, possono essere dedicate pagine e pagine. Fin quando non diventa familiare a tutti i sensi. Fin quando al lettore non paia di essere proprio lì, e dentro quella storia. In queste cattedrali dello spirito si dispiega la sapienza universale.
Non sono trattati di botanica ma vi si conoscono tutte le piante e i fiori. Asfodeli, genziane, pervinche, giaggioli, nontiscordardimé, rosolacci. E poi le brughiere di erica bianca e violetta, e le steppe desolate. Olmi, querce, betulle, aceri e pioppi. Boschi e selve di ogni specie. I nomi fanno essere l’infinita varietà del regno vegetale.
Non sono trattati di mineralogia queste cattedrali, ma contengono tutte le concrezioni della terra, le pietre più comuni, e le gemme più preziose: agate e lapislazzuli, onici, smeraldi, diamanti, porfidi ed alabastri.
 E vi si possono attraversare tutti i paesaggi del pianeta. Si sale sulle vette più maestose. Si percorrono le pianure fertili o le malsane paludi. Si va per strapiombi scoscesi o per litorali sabbiosi. Si affrontano tutti i mari, con la bonaccia o in tempesta. E si patiscono e si godono tutti i climi della terra. Si sperimentano i monsoni con le grandi piogge, le bufere di sabbia e l’aridità delle zone desertiche, il gelo e le nevi perenni degli estremi del globo, le brezze dei paesi temperati.
E che dire dell’esperienza del giorno e della notte, di ogni aspetto del cielo alla luce del sole o a quella delle stelle! E la luna? In quelle cattedrali si impara a conversare con la luna dopo averla conosciuta in tutte le sue fasi, stupiti dai suoi effetti misteriosi sul mare e sulla vita.
Né sono, queste cattedrali, trattati di anatomia, ma vi è nominato ogni organo del corpo umano, laddove si scolpiscono figure indimenticabili nella loro individualità. E neppure vi si discute di psicologia, e tuttavia un soffio potente anima quelle sculture e genera l’infinita vita dell’anima umana.
Prima ancora di viverli in me o su di me, in queste cattedrali ho conosciuto tutti i sentimenti.  Ogni manifestazione dell’amore, l’odio e la gelosia, l’ira e la mitezza. Lì ho appreso a vincere la disperazione e a nutrire la speranza. Sono scesa negli stati più abbietti e sconsolati e ho pianto. Mi sono sollevata nelle regioni della gioia e ho esultato.
E ancora, in queste cattedrali si diventa consapevoli delle vicende politiche e sociali, senza che si debbano affrontare lunghe trattazioni teoretiche. Lì si sperimenta il disgusto per la tirannide e si impara a guardare la realtà con discernimento e ad alimentare il desiderio della libertà e della giustizia.
E per di più, in queste cattedrali si apprende a conoscersi. Là dentro vediamo come siamo e come vorremmo essere. Si fa palestra introspettiva ed esercizio di comportamento. Incominciamo a raccontarci mentre ci ascoltiamo raccontati. Giungiamo persino ad arrossire di pudore se ci scopriamo svergognati. Ci sono anche, in queste cattedrali, passaggi e rifugi pietosi, dove il cuore può lenire le ferite, e alleggerirsi dei pesi. Ma non si tratta di terapie psicoanalitiche.  
Quando si entra in una di queste cattedrali il “falso” diventa potente immaginazione, l’ ”errore” ricerca, domanda, scoperta del mondo. La fantasia degli architetti di queste cattedrali ha qualcosa di divino, un’ispirazione che di per sé induce ad interrogarsi sul mistero dello spirito umano.
Quando penso alla fatica che i grandi narratori di storie hanno sofferto per costruire queste cattedrali, sento un misto di gratitudine e di venerazione. Loro non potevano avvalersi dei nostri comodi strumenti tecnologici. Scrivevano a mano, di giorno e di notte, al lume delle candele quando non c’era la luce elettrica. Scrivevano ora di getto sotto l’onda impetuosa delle emozioni, ora lentamente, analizzando l’esperienza e condensandola nella riflessione. Con minuziosa scansione, registravano fedelmente le loro osservazioni della realtà. Descrivevano luoghi sconosciuti contemplati nella mente, dei quali avevano sentito raccontare da altri e che mai avrebbero visitato. Come tanti lettori, del resto, e come me stessa! Quante città conosco, quanti paesaggi, che non ho mai visitato! E quanto del cuore umano ho appreso, prima ancora di farne esperienza diretta.  Accade, in queste cattedrali, di previvere la vita, al punto che in seguito ci capita di esclamare:"ma io questo lo sapevo digià, l’avevo già visto!”.  Ed è in quelle cattedrali che probabilmente si apprende l’empatia, la capacità di comprendere l’altro, sentendolo in se stessi.

Viviamo nel tempo di Sua Maestà il Mercato, che detta le sue leggi ciniche anche nell’editoria. Ma questo è anche il tempo della scrittura accessibile a tutti e da tutti divulgabile. Gli strumenti a nostra disposizione solleticano ambizioni e velleità. Tutto questo non è un male di per sé. Ma potrebbe diventare un fenomeno negativo se ci si smarrisse del tutto in questa editoria “liquida”, incolore e insapore col rischio di diventare scettici e relativisti assoluti, tali da non essere più in grado di distinguere una casupola da una cattedrale.
Infine, non mi va di fare nomi di queste cattedrali immortali, per diverse ragioni. Prima perché non le ho visitate tutte e poi perché, mio malgrado, di sicuro ne dimenticherei qualcuna. Posso però invitare i frequentatori di librerie, specialmente quelli più giovani, a sostare tra gli scaffali dei classici. Sono lì le cattedrali che hanno già vinto sul tempo. Eh sì! Questa chiosa è banalmente ripetitiva. È noto che uno scrittore, chiamato ormai “un classico”, in un suo famoso saggio  li ha già argomentati tutti, o quasi, i motivi validi sul “Perché leggere i classici”.








giovedì 1 agosto 2013

La trappola della visibilità

Si racconta che tanto tempo fa, una sera d’estate, in un teatro di un paese dell’Europa si scatenò una strana baruffa tra gli strumenti musicali di un’orchestra che era già pronta sul palco per suonare. Una moltitudine di appassionati spettatori attendeva ansiosa l’inizio del concerto, mentre si udivano gli accordi isolati di prova. Il direttore non era ancora al suo posto. Si aggirava tra gli orchestrali sussurrando qua e là qualche richiesta. A suo comando vibravano gli Archi, rullavano i Tamburi, ondeggiava il Pianoforte. Infine si avvicinò ad uno sconosciuto strumento a corde che aveva la cassa di risonanza ricavata dalla metà di una zucca rivestita di pelle di vacca e invitò l’orchestrale, nero come la pece, a far vibrare le ventuno corde della Kora. Così si chiamava quello strumento (e, chissà, forse così si chiama ancora e si suona tuttora, magari costruito con materiali moderni, in qualche remoto paese del mondo). Il suonatore della Kora all’invito del direttore, magro, alto e pelato, sorrise negli occhi luccicanti.  Dopo un cenno di assenso si accovacciò sullo sgabello, sistemò davanti a sé lo strumento e, afferrate le maniglie ai lati della cassa, incominciò a pizzicarne le corde.  Zampillarono gocce sonore per tutta la sala incuriosita. Centinaia di occhi fissarono il suonatore nero che si dondolava all'effondersi della nenia pacata. Tutti ormai si aspettavano una sinfonia nuova da uno spettacolo nuovo. Il direttore annuì soddisfatto, andò al suo posto e, dopo un inchino al pubblico in attesa, salì sulla pedana e si voltò verso l’orchestra. La bacchetta si agitò e accennò al suonatore di Kora, che già teneva le dita sulle corde, quando d’un tratto, inopinatamente, il Controfagotto dall'ultima fila dell’orchestra, seminascosto dalle Trombe e dai Tromboni emise un borbottio sgangherato. Il direttore gli fece gli occhiacci per zittirlo e tornò alla Kora che beatamente vibrò una melodiosa sequenza. Ma il Controfagotto, ostinato a farsi notare, emise un suono rancido e prolungato, come uno sberleffo maleducato, puntando il muso in direzione della Kora sbigottita. Nell'agitazione il Controfagotto perse il suo grave equilibrio e batté le canne su una Tromba che svettava in aria accanto a lui. Allora la Tromba si dimenò e squillò con striduli acuti di accusa. Lì vicino si trovava un Clarinetto, invidioso della Tromba, alla quale non vedeva l’ora di mostrare la potenza delle sue chiavi. Con un Si soprano prolungato, il Clarinetto sovrastò gli stretti acuti della Tromba. A questo punto il direttore con le braccia al cielo fu travolto dallo scompiglio generale. Anche la mite Kora si era irrigidita con le ventuno corde attonite. La confortavano gli altri strumenti a lei simili. Arpe, Viole, Violini e Violoncelli, vibravano di sdegno. Ma anche loro facevano un gran chiasso, infuriando con urla laceranti contro gli strumenti a fiato e a percussione, che intanto sberciavano senza ritegno contro la sconosciuta, alla quale si dedicava tanta attenzione. La sala era sgomenta e cominciava a dividersi. Ognuno voleva dire la sua e invitava questo strumento o quell’altro a far sentire più forte la sua voce. Il tumulto cresceva, e persino la Kora, che aveva esordito con tanta pacatezza, squittì risentita. Al povero direttore erano cadute le braccia ed era corso a rannicchiarsi in un angolo, aspettando che qualche evento straordinario sedasse quel tumulto. Ma non si veniva a capo di nulla. Quello zoticone del Controfagotto aveva ottenuto la visibilità che voleva, spalleggiato da altri tangheri come lui e favorito dalla dabbenaggine, dal conformismo, ma soprattutto, ormai, dalla smania di essere notati che si era impadronita di tutti i convenuti al concerto, i quali, adesso non volevano proprio saperne di restare in sordina.  La sala ondeggiava e risuonava di alti e di bassi accusatori. Il controfagotto ormai se la rideva facendo vibrare a più non posso le ance nelle canne. Aveva teso una trappola nella quale c’erano cascati tutti.
 Un momento, no, non tutti, per fortuna!
 In prima fila, al centro dell’orchestra troneggiava lucente nella sua coda maestosa il Pianoforte. Non aveva battuto tasto né bianco né nero per tutta la durata dello scompiglio sonoro. Se ne era stato muto in mezzo a quel baccano. Raccolto in un silenzio malinconico il Pianoforte aveva trattenuto nei suoi congegni nascosti le meravigliose scale che avrebbe dovuto far risuonare, quando fosse toccato a lui, nella polifonia del concerto andato a monte.
Ma è noto che i tumulti finiscono con lo sfiancare anche i più coriacei. E andò così anche nella guerra tra gli strumenti musicali. Gli Archi avevano le corde allentate. Qualcuna si era addirittura spezzata per la grande tensione. I Fiati erano arrochiti per l’inesausto soffiare. I Tamburi laceri ormai emettevano voci accartocciate. I Piatti si dolevano delle ammaccature. Allo Xilofono erano saltati quasi tutti i dentelli di legno e non trillava più. Dopo un rotolio sgangherato di voci diverse nella sala piombò il silenzio.  
Musica , finalmente, per le orecchie assordate!
 Passò un tempo indefinito. Ad un tratto, per incanto, come trascorsi da una mano misteriosa, i tasti d’avorio e d’ebano del Pianoforte liberarono un brillio di note lievi, una melodia che rinasceva dal silenzio. Lo spaurito direttore si alzò in piedi attonito e si mise ad ascoltare.
 Ed ecco che per prima la Kora con discrezione e dolcezza rispose all'invito sonoro. Subito le fecero eco gli Archi, a turno. A tempo debito, poi, si inserirono i fiati. Le Percussioni batterono il ritmo all'occasione opportuna. Persino l’ostile Controfagotto ritrovò una certa compostezza e si limitò a borbottare gravemente, rispondendo ai fagotti suoi cugini, senza guastare l’insieme armonioso. Ma, quando il Pianoforte gorgheggiava come un usignolo, tutti gli altri smorzavano le loro voci, e trattenevano le vibrazioni, lasciandosi andare agli accordi soavi di quel maestoso strumento. La sala, invasa da una sconosciuta dolcezza, si chetò. Accompagnata da quella musica straordinaria una moltitudine di dame a cavalieri danzò gioiosa per tutta la notte. 
E Kora?

 Kora dopo quella notte di tumulti, aiutata dal suono avvincente del Pianoforte, fu riconosciuta, finalmente, come uno strumento alla pari degli altri cordofoni, e da allora, di diritto, partecipa dell’armonia dell'orchestra in tutti i concerti di quel paese d’Europa.






domenica 9 giugno 2013

Suggestioni da "Iniziazione"


Per comprendere il termine Iniziazione possiamo rievocare i misteri eleusini di Demetra,[1] i riti iniziatici che implicavano la rivelazione di segreti e l’ammissione nell'associazione misterica, e che erano volti ad allontanare il terrore della morte e a garantire vita beata nell’aldilà. Cerimonie iniziatiche sono presenti in tutte le culture umane. Attraverso il compimento di tali cerimonie l’adolescente veniva iniziato alla vita adulta.  Iniziazione deriva dal verbo latino inire che significa entrare. Sicché essere iniziati vuol dire entrare in un luogo sconosciuto e divenire in grado di comprendere cose misteriose. È chiaro quindi che l’iniziato è colui che subisce una trasformazione tale da permettergli di intraprendere il cammino della vita. Come questi riti si svolgessero rimane tuttora un mistero. La parabola dei riti iniziatici è contenuta nelle narrazioni fiabesche, nelle quali un eroe affronta  prove attraverso le quali struttura la sua identità e diventa adulto.
Come esempio si può ricordare la fiaba di Andersen che si intitola Mignolina.  Nelle fiabesche peripezie dell’eroina è celata l’iniziazione ai misteri della vita. Ecco la trama. Una donna sterile riceve un chicco d’orzo da una strega e lo interra in un vaso. Dal seme spunta subito un bellissimo fiore, simile a un tulipano che al bacio della donna si schiude e, mostra seduta sul pistillo, “ una fanciullina piccina piccina, molto delicata e graziosa, non più alta di un mignolo”[2], la quale perciò viene chiamata Mignolina.”  Mignolina, mentre dorme in un guscio di noce, tra petali di fiori  che le fanno da coltre e cuscino, viene rapita da una rospa che vuole darla in sposa a suo figlio. Cominciano da qui le peripezie di Mignolina. Viaggia lungo un fiume adagiata su una ninfea, poi scende sotto terra, nella tana di una talpa, dove con cure amorevoli riesce a far tornare in vita una rondine esanime. Sulle ali della rondine, quando torna Primavera, sfugge alle nozze con un ripugnante talpone ed approda infine in un giardino di fiori bianchi, bellissimi, tra i larghi petali dei quali vivono gli angeli dei fiori. Su di essi regna un principe che “era bianco e trasparente come se fosse di vetro, e sulla testa aveva una graziosissima corona e sulle spalle delle bellissime ali lucenti; di statura non era più alto di Mignolina. …Si tolse subito dal capo la coroncina d’oro, la pose sul capo di lei e le chiese come si chiamava e se voleva essere sua moglie…”[3] Mignolina  diventa così la sposa del principe dei fiori ricevendo il nome di Maia. Maia  in greco vuol dire mamma ed è uno dei nomi della dea della natura vivente.
Demetra e Mignolina/Maia. Iniziazione-rito-mito-mistero. Comunque sia, l’iniziazione implica una trasformazione della persona che acquista facoltà superiori e inizia, appunto, la conoscenza della vita. Va da sé che la conoscenza è un’attività che coinvolge l’intera persona. Conoscere quindi vuol dire trasformarsi nella relazione con il mondo. Se questo passaggio non avviene non si dà conoscenza, ma solo registrazione più o meno chiara ed ordinata di dati che prima o poi saranno dimenticati. 
Iniziazione  -  rito  -  mito  -  mistero. E’ impossibile sapere quando l’iniziazione si compia, specialmente quella di un altro. Non possiamo neanche chiedercelo. Iniziare qualcuno vuol dire schiudergli le porte su mondi misteriosi…e poi…silenzio.






[1] M. Howatson, Dizionario delle letterature classiche, Einaudi, Torino1993, Trad. it. F. Mencacci, G. Aquaro, L. Beltrami, sub voce misteri
[2] H. C. Andersen, Fiabe scelte e presentate da G. Rodari, Einaudi, Torino 1970, trad. it. di A. Manghi Castagnoli e M. Rinaldi
[3] Andersen, op. cit.



giovedì 9 maggio 2013

Lettera a Maria Chiara Carrozza, Ministro dell'Istruzione


Gentile Ministro Maria Chiara Carrozza,
Le scrivo sulla decadenza della scuola italiana causata dalle riforme attuate negli ultimi quindici anni e in particolare dalla cosiddetta autonomia scolastica.
Stamani partecipando all'assemblea sindacale, convocata dalle R.S.U. per discutere la ripartizione del Fondo d'Istituto, per l'ennesima volta ho assistito alla squallida rappresentazione del disinteresse degli insegnanti riguardo a tutto quello che accade alla scuola.
Pur essendo state licenziate le scolaresche con due ore di anticipo rispetto al regolare orario delle lezioni, per offrire a tutti i docenti l'opportunità di partecipare alla riunione, l'aula magna era semivuota, disertata da almeno il novanta per cento degli aventi diritto. Sa perché Ministro? Perché la quasi totalità dei docenti ritiene che il Fondo venga speso in attività aggiuntive ritenute poco o per niente necessarie alla educazione ed alla formazione degli alunni, e che esso, comunque, serva solo ad impinguare lo stipendio di pochi, e, per giunta, i soliti. Gli insegnanti sono ormai rassegnati ad ogni evento che piomba dall'alto di qualsiasi istituzione, sia essa il Ministero, o anche lo staff dirigenziale dell'Istituto. Non discutono più di nulla i professori. Basta che siano almeno lasciati tranquilli. Hanno appena appena alzato la testa quando il Suo predecessore, Francesco Profumo, con un colpo di mano, sostenuto dalla pessima idea che l'ex Primo Ministro Mario Monti ha degli insegnanti, tentò di portare a ventiquattro ore l'orario settimanale di cattedra, violando ogni regola contrattuale. Dopo quel momento di riscossa, ahimè, i docenti sono ricaduti nella passività abituale. In effetti essi vivono ogni provvedimento sulla scuola come una minaccia o una punizione, mentre si piegano sotto il peso di giudizi squalificanti che la sottocultura dominante, nonché l'azione devastante di alcune riforme, ha instillato nel sentimento generale della società italiana. 
 A me sembra, Ministro, che nella scuola si rispecchi la separazione, tragicamente evidente,  tra Istituzioni e Popolo, tra Partiti e Base, e, persino, tra Sindacati e Lavoratori, perché, difatti, da qualche decennio, i sindacalisti lavorano solo per mantenere i loro privilegi.
La scuola azienda è drammaticamente divisa come ha voluto, del resto, la prassi riformatrice del “divide et impera”. Da una parte c'è una maggioranza che ritiene importante l'attività curricolare e l'aggiornamento disciplinare continuo, anche riguardo alle strategie di recupero in itinere, avendo sperimentato che gli interventi didattici integrativi sono inefficaci, come del resto hanno sostenuto diversi studiosi di questa prassi di sostegno dei processi di apprendimento. Dall'altra è emersa una minoranza, da alcuni definita oligarchica, rampante e spregiudicata, che difatti attua il P.O.F. sostenendo, senza andare molto per il sottile, la mentalità aziendalistica che ha mutato gli studenti in clienti. Le assicuro, Ministro, che di questioni culturali, di rivoluzione del sapere, di sfida alla complessità della relazione tra i saperi, di apertura all'apprendimento continuo e alla conoscenza di altre culture, di istituire spazi e tempi nei quali potersi confrontare sulla urgenza di mettere a punto nuovi percorsi metodologici non se ne parla proprio. Ci si limita soltanto ad ottemperare alle esigenze burocratiche, con copia e incolla frettolosi nel corso delle insufficienti riunioni dei dipartimenti, alle quali i docenti partecipano distrattamente, anche perché un eventuale impegno nella produzione di idee e progetti non sarebbe remunerato né in alcun modo riconosciuto e gratificato. Talvolta, tuttavia, sorgono gruppi di autoformazione, spinti ad incontrarsi dal piacere di conoscere e di scambiarsi idee ed esperienze. Si tratta, però, di minuscole avanguardie resistenti, e non pagate, che devono accettare supinamente, comunque, i dettati dell'INVALSI, ritenuti inadeguati a sondare la preparazione dei giovani anche da molte personalità autorevoli nel campo della paideia e dell'istruzione. Ma non sia intesa questa lettera come un lamento amaro. Sia accolta come una richiesta di ascolto e di promozione del coinvolgimento degli insegnanti nella progettualità che riguarda la scuola. E sia intesa anche come una richiesta di impiegare il Fondo d'Istituto per riconoscere equamente il lavoro dei docenti, tenendo presente anche il blocco quadriennale dei contratti, e di studiare, mediante una discussione estesa e condivisa, un sistema di valutazione il più veritiero possibile, nella consapevolezza che la verità assoluta è inarrivabile. Le sarei grata se, ad esempio, aprisse nel sito del Ministero dell'Istruzione un forum. Sarebbe così offerta a tutti gli insegnanti l'opportunità di narrare la propria esperienza sulle questioni che ho posto, e di proporre positive soluzioni. In conclusione, esprimo un desiderio: sia concessa quanto prima agli insegnanti un'aggiunta  stipendiale, destinata alla possibilità di andarsene, almeno una volta all'anno, in ritiro per pochi giorni in qualche ameno convento - albergo! Forse anche loro, fuori dalla sede istituzionale, potrebbero “inventare” una bella scuola, favoriti dallo stabilirsi di amichevoli relazioni conviviali.

Cordiali saluti
Giuseppina Imperato 
(docente di Italiano e Latino presso il Liceo “E. Medi” di Cicciano)

giovedì 2 maggio 2013

Farfalle sugli abissi




Quanto più un uomo è consapevole della bontà della vita tanto più assume su di sé il dolore del mondo. “Agnus qui tollit peccata mundi” è “l'agnello che prende su se stesso la sofferenza del mondo”. Questo “prendere” non è volontario, è iscritto nella storia del destino umano, tragico e, pertanto, nobile, nella infinita distanza tra l'amore della bellezza, segnata nell'essere stesso, e il limite del contingente che costringe e crocifigge la forma divisa dall'essenza.
C'è scampo?
Un amico, di recente, mediante un aforisma di Nietzsche, ha detto che, per vivere in pienezza, è necessario apprendere a “danzare sugli abissi”.
Allora, per non precipitare, bisogna che avvenga una metamorfosi, come succede ai bachi da seta. Del resto, lo dice anche il Sommo Poeta “che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla”,  quando saremo al di là del bene e del male!
Eppure, hic et nunc, il destino umano si svolge ai due capi di un medesimo filo. L'uno conduce al centro del sé, dopo ave reciso i legami coi pesi; l'altro si snoda dallo sguardo, quanto più limpido possibile, verso il mondo, per comprenderlo e assumerne responsabilmente il carico che gli tocca. Questo duplice percorso è necessario all'uomo di oggi.
Pertanto, ci sembra che l'immagine del “danzare sugli abissi” convenga a vite siffatte. Come librata sulle ali della farfalla, la vita non teme il precipizio dei giorni futuri, né l'incombere del passato come di un macigno schiacciante. 
E questa capacità di librarsi si addice tanto al singolo quanto alla polis e ai suoi governanti.
Il mondo non necessita di eroi, ma di uomini liberi e in grado di già, qui ed ora, di andare un po' oltre l'orizzonte del bene e del male, oltre gli stessi sogni di un mondo migliore. Nella leggerezza della danza delle farfalle si disegna, qui ed ora, un'altra forma possibile della vita e della convivenza umana.