martedì 20 agosto 2013

L’arte di ritirarsi in “Io, tu e le rose”

Tardo pomeriggio d’agosto: dal finestrino dell’automobile guardo la campagna venirmi incontro ai lati di una stradicciola che unisce la piana di Nola a quella di Caserta. Il tramonto è ancora lontano. Se fosse un bel pomeriggio d’inverno, a quest’ora lo vedrei, all’orizzonte, cadere, rosso, oltre i rami spogli degli alberi. Ora, invece, irraggia di luce l’aria ferma e densa d’afa. Non si muove una foglia. I finestrini sono chiusi. Mi godo il fresco condizionato. La radio è sintonizzata su un’emittente locale. La voce di testa di Orietta Berti canta “Io, tu e le rose” e mi manda altrove.

Mi ritrovo nella vecchia casa di pietra del paesino cilentano che si snoda come un serpentello lungo il crinale di una collina argentata dagli ulivi e profumata di fichi. Sullo sfondo, verso sud, si erge il Monte Stella rivestito di foreste e di macchia mediterranea. Al limite nord del paesello, invece, presso la cappella di Santa Maria, dove la Statale delle Calabrie forma una ipsilon di manzoniana memoria con la strada che si inerpica verso Rocca Cilento, il cui castello domina maestoso sul mio paesello, si intravede il triangolo di mare che lambisce Agropoli. Nel fondovalle scorre l’Alento, che, d’estate, smette di essere fiume e diventa appena appena un rigagnolo che si insinua tra le petraie del suo letto.


Arretro di tanti, tanti anni. Ero bambina, dodici o tredici anni, e non vedevo l’ora di diventare grande. Mia madre, naturalmente, amò questa canzone così tradizionale del Festival sanremese. A me sembrava lamentosa e sdolcinata, per vecchi. Non è una bella canzone, lo penso tuttora. Ma ha la potenza di risvegliare ciò che fu, come se fosse ora. Non provo rimpianto. Anzi, mi accoccolo in me stessa e mi godo la vita piena, in un punto infinito. Niente passato o futuro. Solo presente nell'attesa di altra vita da accogliere. “Iooo, tuuu e le roseeeeeeeee, ioooo tuuu e l’amoreeeeeeeeee” continua a gridare Orietta. Certo, ci dovette rimanere male l’interprete delle canzoni di Suor Sorriso quando le dissero del biglietto trovato accanto al cadavere di Luigi Tenco: “Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt'altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale…”.


Ricordo il mio turbamento giovanile. Non riuscivo a capire la scelta di morire per una gara canora. Mi sembrava assurdo il suicidio “come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale”. Eh sì, ci deve essere un vuoto colmo di disperazione in fondo a una decisione simile! E i mass media allora, come fanno ancora oggi, sfamarono coi pettegolezzi l’inedia cerebrale della massa. Le riviste di gossip di quell'epoca, infatti, mutatis mutandis, non erano diverse da quelle che mi capitano tra le mani mentre da Hair’s Mode aspetto che Grazia mi tagli i capelli. Solo che, allora, per le ragazze non c’era molto da fare e da scegliere per svagarsi, specialmente in un paesino minuscolo situato lungo la vecchia Nazionale delle Calabrie, a una sessantina di chilometri da Sapri, nelle cui vicinanze Carlo Pisacane, poco più di un secolo prima, si era sacrificato nel tentativo di portare la rivoluzione socialista ai contadini che, in verità, non lo capirono affatto.


In seguito, frequentando il ginnasio in una cittadina vicina, conobbi, grazie alle mie compagne (la classe era solo femminile) altra musica. Mi ricordo che, oltre ai più famosi Beatles e Rolling Stones, andavano di moda i Bee Gees. Di questo gruppo – oh, portento della memoria! - Silvana, Rosellina e Pierangela mi regalarono il disco della canzone “Massachusetts”.


Molto è cambiato nel giro di mezzo secolo. Non tanto perché i lettori di compact disk hanno sostituito il giradischi, o perché la televisione ha moltiplicato all'infinito i suoi canali! Ma perché siamo immersi in infinite possibilità di comunicazione. Mentre scrivo, dal terzo canale della radio mi arrivano le notizie lette dal giornalista di Prima pagina. Se voglio, posso recuperare nel web l’articolo che mi interessa. Tutti i giornali ormai sono leggibili on line. E, se mi piace, posso ascoltare da quel pozzo senza fondo che è YouTube qualsiasi musica, di ogni tempo e paese. - Ma che noia! – vero? Tutte queste cose si sanno e sono fonte inesauribile di un’infinità di riflessioni molto articolate da parte degli intellettuali d'oggi. Ciò non toglie che le testimonianze del vissuto di una persona hanno un sapore più gustoso. E io ora sono qui, testimone che incarna i mutamenti accaduti nel mondo, narratrice che incarna un'altra memoria, secondo un mutato avvertimento del tempo. La linearità cronologica è una costruzione artificiale. Nella vita delle creature, infatti, il tempo è un intricato andirivieni. Ma anche questo fenomeno è stato raccontato, al punto che i romanzieri hanno dovuto infrangere del tutto le categorie tradizionali dell'arte del narrare, soprattutto quella del tempo. Qualcosa di simile accadde in seguito alla Rivoluzione copernicana. Ma, dopo la legge della relatività, siamo precipitati nella visione e nel racconto di frammenti, sebbene si tratti di frammenti volteggianti in infinite possibilità di connessioni spaziotemporali. Le nuove tecnologie hanno potenziato straordinariamente la facoltà di spostamento spaziotemporale e moltiplicato all'infinito le prospettive. E pensare che, fino a non molti anni or sono, questa facoltà sembrava appartenere solo agli artisti, perché loro sanno dominare i linguaggi e possono, dunque, tradurre in forme percepibili i viaggi della loro memoria, sia storica che fantastica. Infatti, sebbene l'andirivieni nella memoria capiti a tutti, non molti sono in grado di esprimere questa esperienza. Per poterlo fare è necessario coltivare un’arte in grado di dare una forma ai viaggi della memoria.


Al tempo di “Io tu e le rose” tenevo un diario che ho smarrito nei traslochi della mia vita. Il diario è una specie di blog molto privato con la funzione di sfogarsi raccontandosi. Infatti, i diari degli adolescenti sono segreti. Invece i blog sono dei diari aperti, di ogni genere di contenuto e stile. Sono frammenti narrativi scritti nell'etere. Con l'avvento dei blogger potremmo dire che in ogni istante, in tempo reale, si scrive la storia del globo in tanti tasselli di infiniti colori. Anche il rapporto causa effetto di tipo lineare è saltato. Uno zigzagare di eventi di ogni tipo ripercuote i suoi effetti imprevedibilmente su ogni dove. C’è davvero da ridere al pensiero di quelli che credono di essere determinanti per le sorti del loro paese, o del mondo addirittura.


L’avevo abbandonato questo post. Mi sembrava insulso ed incoerente. Nel frattempo, però, mi è capitato di andare in libreria e di ritornare allo scaffale dove giaceva un volume più volte contemplato e sfogliato. Per due mesi ho resistito all'impulso di comprarlo: “diciotto euro … quattrocentocinquantaquattro pagine!”.


Ma il giorno di Ferragosto cedo alla voluttà. Me ne vado a casa col libro tra le mani.


Sono presa dall'ebbrezza della vacanza immobile. La vita fluisce beata, senza gli impedimenti della consuetudine.


Mi immergo nella lettura. L’autore parla di come diventare amici di se stessi, di come ritrovarsi per scoprire che il "sé!, ovvero ”l’io dato", è una molteplicità di altri “io”, tra i quali “l’io rappresentato”, se si vuole bene, si dà da fare per stabilire una relazione amichevole. Sembra che il “sé” sia in realtà una sorta di polis da organizzare. Pertanto, se ci adoperiamo per mettere d’accordo tutti i nostri “sé” senza risentimento, - quel risentimento che Luigi Tenco finì col rivolgere contro se stesso - mi dico ora, ci incammineremo per la via dell’autodeterminazione e dell’autonomia, dopo aver sperimentato il percorso che porta alla liberazione da quanto e da quanti nella nostra esperienza del mondo ci soffocavano. Bisogna, infatti ritirarsi in se stessi, per aprirsi, quanto più gradevolmente possibile, al mondo.


Ora ripenso al momento in cui mi sono accoccolata in me stessa. Trovo diversi nessi tra il libro e il mio racconto. “Io tu e le rose” è una metafora narrativa della vita in ricerca…tra rose e… pure spine. Ciononostante la narrazione mitiga le angustie e gode del roseto.


La vita, si sa, sporge su un abisso che sgomenta. Da questo abisso risuonano le domande sul senso della vita che conosciamo e di quella che ignoriamo, sull'andirivieni delle stagioni e sul farsi e disfarsi della materia in metamorfosi eterna. Accade talvolta che a queste domande preferiamo restare sordi, a causa dell’angoscia che ci attanaglia. Ma può anche succedere che esse ci invitino a vivere in ricerca lungo la via che ora scende nell'interiorità e ora, da lì, riemerge per aprirsi al mondo.


Nel libro comprato a ferragosto si ribadisce, tra l’altro e non senza attingere al pensiero classico, che la vita è un’arte e che “le arti sono ponti sugli abissi”. Quest’arte si spinge fino all'ascesi nel senso del greco “àskesis”, ossia “esercizio”.  La vita intera è un “esercizio” artistico che mira al perfezionamento, fino all’”eccellenza”.


A ciascuno la sua “àskesis"!


Tuttavia, secondo l’autore del mio libro, uno degli esercizi di “arte come ponte sull'abisso" è proprio l’arte del raccontarsi, esplorando la memoria. Come faceva qualche adolescente al tempo di “Io tu e le rose”.


E in fine, eccovi il mio libro di Ferragosto!


Nessun commento: