sabato 24 luglio 2010

La stanza di Suor Elisa e la sconosciuta poetessa sorella di Shakespeare

Il profumo della primavera inondava la grande sala laboratorio. Il pavimento di marmo porpora tirato a lucido come uno specchio rifletteva il mobilio solido, sobrio e austero addossato alle linde pareti chiare. Sui ripiani delle credenze e delle consolle vetri trasparenti traboccavano di rose inebrianti, recise di fresco dai rosai del giardino, curato nel suo naturale rigoglio, che si intravedeva aldilà della grande sala, dalla porta che si apriva sul cortile interno della casa convento.
Come cascate spumeggianti da giovani grembi si riversavano sulla lucida porpora marmorea bianchi lini, sui quali dita trepidanti di pensieri celati diradavano la trama in impalpabili trine o disegnavano tralci fioriti, sotto lo sguardo vigile ed esperto delle suore pazienti, ma inesorabili, nel correggere anche il più impercettibile errore dell'ago che la giovane mano, distratta da un'emozione del cuore, aveva guidato con cura negligente.
Brune, bionde, o castane, le teste chine sui lini si sollevavano ogni tanto con un improvviso guizzo birichino. Vividi occhi ridenti di complicità s'incrociavano furtivamente.
Dalle ampie ed alte finestre insieme alla brezza fiorita entrava il vociare pacato dei passanti.
Suor Elisa, le mani celate nelle pieghe della tonaca, aleggiava ironica e saggia nella sala.
Ora so che lei, cuore sapiente, leggeva i pensieri irrequieti che si agitavano oltre le chiome composte delle giovani ricamatrici.
Ora so che anche lei era una donna!
Una volta mi prestò un romanzo tirato giù da uno scaffale della biblioteca per signorine che si trovava nel suo studio. Il titolo non me lo ricordo. Ma nitido è tuttora davanti a me nella sua copertina di tela avorio decorata da una cornice dorata. Le pagine cucite, scorrendo, trattenevano la storia d' un casto amore!
Era la tacita empatia di suor Elisa!
I turbamenti di una adolescente sognante, che lei di certo percepiva, potevano a suo avviso placarsi di attese convenzionali ed attraenti, come si conveniva a secolari generazioni di educande.
Oggi in quella grande stanza in intima penombra io entro con la “potenza” della mente che, mirabilmente, anche ora diffonde tutt'intorno promettenti profumi di primavera!
È questa facoltà della mente a rinnovare eternamente la stagione dell'incandescenza della materia! La stagione in cui l'energia che siamo esige più che mai di liberarsi, di appagarsi, di trovare la felicità! Il tempo in cui non si sono fatti i conti con la realtà e la vita si offre “indelibata, intera”!
Suor Elisa li aveva fatti questi conti, e, forse, lei, come Virginia Woolf, sapeva che una donna per liberare la poesia del suo essere necessita di “cinquecento sterline di rendita” e di “una stanza tutta per sé”. E, tutto sommato, suor Elisa quella stanza se l'era a modo suo procurata e la metteva a disposizione delle giovani donne che varcavano per qualche tempo la soglia della suo convento, un po' collegio e un po' scuola di ricamo.

Da poco ho finito “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf.
Dalle pagine del libro la mente ha evocato, fin quasi a materializzarla, la stanza di suor Elisa. Se questo è accaduto vuol dire che quella è stata l'unica “stanza tutta per me” della mia vita, sebbene non la abitassi da sola, e non per scrivere racconti, ma per educarmi al ricamo. In fondo, tuttavia, l'esperienza non mi pare molto diversa da quella delle scrittrici inglesi ricordate da Virginia nel suo libro. Anche loro non avevano “una stanza tutta per sé”. Scrivevano furtivamente “nella stanza di soggiorno comune”. (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad. a cura di Maria Antonietta Saracino, Einaudi, Torino 1995, p. 137).
Non è strana la coincidenza tra ricamo e scrittura nella vita delle donne.
Nel “soggiorno comune”, molto probabilmente, Jane Austen mentre ricamava osservava con attenzione la realtà circostante e ne coglieva quell'essenza ulteriore che, posato il lavoro ad ago, ricamava in pagine immortali con la sua scrittura nitida e sorridente.
Ripenso ora con ammirazione anche a Jo, la protagonista di “Piccole Donne” di Louisa May Alcott. Jo, forse come era possibile per Louisa stessa, ha per sé una soffitta in cui, accoccolata davanti allo scrigno dei ricordi e delle speranze, può sfogare “ la mente incandescente”. Jo è davvero fortunata! Le è addirittura permesso di mettere in scena nel salotto di casa i drammi da lei composti, e le riesce persino di guadagnare denaro con i suoi racconti.
Il romanzo della Alcott dimostra che già nell'ottocento in America la donna godeva di un angolino tutto per sé dove poteva liberare “la mente incandescente”, sebbene la sua famiglia non navigasse nell'oro.
Nell'Italia degli anni sessanta per la maggior parte delle donne la soffitta di Jo era un sogno impossibile. Anche se avevano il privilegio di andare a scuola, non era certo lì che potevano permettersi di sfogare la mente. Erano tempi in cui si imponevano trattazioni noiosissime a tema senza nessuna cura per la riflessione sulla scrittura come esperienza “ideativa” di un testo personale, di ricerca della forma del sé nell'interpretazione del mondo interno ed esterno, rinvenibile, magari, anche in quello inventato, ma non per questo meno vero, della poesia. E forse, per lo più, è così che vanno ancora le cose a scuola.
Una stanza tutta per sé” è un metaracconto in cui Virginia con “mente incandescente” esplora la scrittura femminile. Il suo sguardo indagatore scorre le righe dei libri tirati giù dalla sua biblioteca alla ricerca di una parola luminosa che illumini il rapporto tra donne e romanzo nella scrittura di autrici a lei care, ed anche a me. In controluce ella riporta i giudizi severi dell'altro sesso, ma non se ne lascia toccare. E neppure indulge ad una partigiana e sciocca esaltazione della donna. Né si rifugia nella giustificazione della parola negata. Inventa, invece, una sorella di Shakespeare “altrettanto desiderosa di avventura, altrettanto ricca di fantasia, altrettanto impaziente di vedere il mondo quanto lo era lui”. (Una stanza tutta per sé, p. 97).
E di questa poetessa, sorella di Shakespeare, Virginia immagina una tragica fine. Scappata di casa per sfuggire alla nozze desiderate per lei dai genitori con il figlio di un ricco mercante di lane, sedotta da un attore impresario, “- chi mai potrà misurare il fervore e la violenza di un cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna? - si uccise, in una notte d'inverno, ed è sepolta nei pressi di un incrocio, là dove oggi si fermano gli autobus vicino ad Elephant and Castle. (Una stanza tutta per sé, p. 99).
Ora mi chiedo se il battito del cuore è sessuato, se lo è l'accendersi della mente nell'attimo in cui coglie il balenio di una qualche verità.
Anche Virginia si chiese “se nella mente esistano due sessi che corrispondono ai due sessi del corpo, e se anche questi devono unirsi per giungere alla completa soddisfazione e felicità”. (Una stanza tutta per sé, p.201). Ed è ancora lei che tenta per me una risposta commentando un pensiero di Coleridge: “Forse Coleridge intendeva proprio questo quando diceva che la mente grande è androgina. Ed è quando ha luogo questa fusione che la mente è del tutto fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà. Forse una mente che sia interamente maschile non è in grado di creare, proprio come una mente che sia interamente femminile, pensavo... Egli intendeva dire, forse, che la mente androgina è risonante e porosa; che trasmette emozione senza difficoltà; che per natura è creativa incandescente e indivisa”. (Una stanza tutta per sé, p.201).
Incandescenza e completezza! La creatività è propria di una mente indivisa!
Quasi di certo da questa idea fu ispirato il romanzo della Woolf “Orlando”, emblematica epopea di una metafisica creatura androgina che trasvola i secoli.
È dell'essere assoluto tale completezza. Agli uomini e alle donne reali tocca lo stato incompleto e l'inseguimento della felicità, raggiunta solo, forse, nello stato di grazia di una mente incandescente, in cui, pur nella sua specificità maschile o femminile, avviene quella “fusione” che le concede di diventare “fertile” e di “fare uso di tutte le sue facoltà”.
Uno stato di grazia tale è gioia pura, occhio chiaro e sorridente nel “fare i conti con la realtà”, alieno da quel rancore di cui parla Virginia e dal quale poche opere femminili sono esenti.
E forse il nodo doloroso che le donne devono ancora sciogliere è questo: fare i conti con la realtà senza rancore, e senza cadere nella trappola della competizione, di una gara da vincere per conquistare un premio.
È necessario evitare le “seduzioni” della carriera che esigono il tradimento dei sogni, altrimenti le indispensabili “cinquecento sterline” che le donne hanno conquistato non saranno sufficienti per edificare una “stanza tutta per sé”, che è in definitiva uno spazio libero tutto interiore dal quale si può attingere l'energia per l'attenzione alla realtà e per il superamento dei suoi limiti angusti. Se si vuole proiettarsi verso questa liberazione autentica, bisogna giungere a contemplare “ciò che rimane una volta gettata aldilà della siepe la buccia vuota del giorno”. (Una stanza tutta per sé, p. 225).
Ritorno nella stanza di suor Elisa. La suora, fatalmente, porta il medesimo nome della appassionata fanciulla che circa un millennio fa, dal convento dove era rinchiusa, scrisse lettere brucianti all'amato Abelardo. Dov'è ora la suora, cuore sapiente? Dove sono tutte le compagne di quelle ore fertili di attenzione nel ricamare trine e tralci fioriti? Quell'esercizio di paziente precisione le preparò a fare i conti con la realtà e a far rinascere in loro la sconosciuta poetessa sorella di Shakespeare? Credo di sì. E ora mi sembra di averle accanto.
Sono le donne che incontro ogni giorno
alle quali, concludendo il suo libro, Virginia si rivolge dicendo:
“Ora è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera perché stanno mettendo a letto i bambini... Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l'avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell'oscurità, vale certamente la pena”. (Una stanza tutta per sé, p. 231 e 233).

giovedì 15 luglio 2010

Shehrazade e l' Esame di Stato

Shehrazade è la principessa persiana che salva tutte le donne del suo paese dall'odio spietato del re Shahriyar. Costui, infatti, ferito dal tradimento della prima sposa, è diventato preda di un insaziabile desiderio di vendetta. Accecato dall'odio verso le donne, ogni giorno si sceglie una moglie che uccide spietatamente il mattino seguente alla prima notte di nozze. Perciò la gentile e saggia Shehrazade decide di offrirsi al re, confidando nella possibilità di sciogliere dall'odio il suo cuore e di salvare così dalla morte tutte le fanciulle di Persia. Divenuta sposa di Shahriyar, sul far della notte, la principessa avvince il re coi fili di una sapiente narrazione. All'alba la storia non è terminata. Allora lo sposo regale decide di rinviare la morte di Shehrazade per conoscere l'epilogo di quell'intreccio che l'ha catturato. Accade così che l'incantevole narratrice inanella di notte in notte una sequela infinita di racconti, grazie ai quali la sua morte viene rinviata per “mille e una notte”, finché il re, guarito da quelle labbra salvifiche, cede per sempre all'amore per Shehrazde e per la vita.
La vicenda che ho in sintesi narrato è la cornice dell'opera fiabesca più famosa al mondo, Le Mille e Una Notte. Dalla sua struttura e dal suo significato (l'incanto salvifico del racconto) sono stati ispirati molti narratori, finanche, probabilmente, il nostro Giovanni Boccaccio nella composizione del suo Decamerone.
Mi sembra che il senso universale dell'emblematico labirinto di storie delle Mille e Una Notte stia nella rappresentazione della vita umana protesa alla conoscenza attraverso l'ascolto della parola di un'amante narratrice. L'etimologia del termine “narrare”, del resto, ci illumina sulla funzione conoscitiva dell'arte del racconto. Il vocabolo deriva, infatti dal latino “gnarus” = “conoscitore, esperto”, aggettivo a sua volta generato dal verbo “gnosco / nosco” = conoscere. Analogamente se consideriamo il termine “storia”, ne rinveniamo il senso nell'etimo greco ἱστορία (historìa) da ἵστωρ (histōr) = “che conosce”, ricollegabile a οἶδα (oida) = “io so per averlo visto”.
Shehrazade è quindi dotata di una parola sapiente che “istoria” la vita con l'incanto della narrazione”. È colei che commuove trasportando il re nel bel mezzo della vita, inducendolo a conoscersi negli intrecci di innumerevoli racconti. Colui che ascolta compie un'esperienza del mondo e apprende a conoscere se stesso. La parola sapiente di Shehrazade nomina gli “oggetti” della vita e li anima con l'incanto di un'evocazione dalla notte della coscienza confusa e inconsapevole di un “inesperto bambino” che si dibatte negli istinti e nelle passioni cieche e ferine della bestia primordiale.
L'arte della narrazione è pertanto la prima “scuola” di conoscenza. Shehrazade è una simbolica maestra di conoscenza.
Povera Shehrazade se capitasse d'improvviso nel bel mezzo di un Esame di Stato! Le toccherebbe ascoltare l'inanellarsi di vuote parole in cui annasperebbe invano alla ricerca di un senso! Si chiederebbe chi abbia mai ridotto i suoi vivi racconti negli insulsi frammenti delle cosiddette “mappe concettuali”! Ascolterebbe inorridita ed incredula elucubrate proposte di tabellate “griglie di valutazione”, partorite da dotti e magniloquenti sostenitori di novelle “magnifiche sorti e progressive”! Non potrebbe in alcun modo lasciarsi prendere dall'ascolto di qualche bella “istoria” dipinta nei volti giovanili innanzi a lei, ma sarebbe costretta ai calcoli dei numeri incasellati in una tabella sulla quale diverse paia di occhi appuntati controllano al di sopra e al di sotto di quale totale siano o non siano attribuibili i punti del “bonus”! Sembrerebbe alla povera Shehrazade di trovarsi in un bazar a contrattare per cianfrusaglie scompagnate e logore raccattate ed ammucchiate alla rinfusa da un mercante rozzo ed incurante ed ignorante della varietà e del pregio della materia.
Delle storie degli uomini stupiti dall'universo e delle loro domande che inseguono la verità non importa più a nessuno in quel rito inutile che è l'Esame di Stato, ovvio epilogo di una scuola immiserita e svilita non solo dalle “riforme” informi di legislatori ignoranti ed asserviti al potere di un'iniqua economia gestita da venditori di fumo, da imbonitori di masse pronte a lasciarsi abbindolare come scimmie ammaestrate in un circo di infimo ordine!
Tutta la scuola è salita sul carrozzone di questo circo triste! E lo spettacolo si svolge sotto un tendone rappezzato malamente e diretto il più delle volte da maldestri domatori, da giocolieri e prestigiatori di illusoria apparenza! Gli artisti del circo sono ridotti a “risorse umane” pronte a svendere la libertà della loro sapiente creatività ai calcoli dei budget, delle griglie, delle rendicontazioni per i monitoraggi, degli standard da far apparire per appiccicarsi qualche “bollino di qualità” riconosciuta sulla base di una incomprensibile statistica di astratti dati numerici!
E allora, riprendendo la domanda conclusiva dell'amico Pino nel suo ultimo post, “ Auto in corsa senza conducenti!”, leggibile su in-crocivie.com, mi chiedo: “come mai” nella scuola “ci tocca essere “guidati” da un personale così inadeguato di fronte alle sfide e anche alle promesse possibili del nostro tempo?”
So formulare soltanto un auspicio. Che si diffonda di nuovo, quanto prima, la sapiente parola di Shehrazade ispirata dal sacrificio e dall'etica “leggera” dell'amore!

martedì 6 luglio 2010

Scappa Cenerentola! Sfuggi alla madrina!

La semplicità della fiaba fa sorridere. Può sembrare banale e allo stesso tempo impossibile. Roba da bambini che facilmente sono ingannati dalle storie fantastiche.
Nella fiaba il bene e il male, il brutto e il bello hanno forme semplici grazie all'esagerazione. I personaggi sono funzionali allo schema dei valori. L'eroe compie un viaggio di formazione con esito positivo.
Tante fiabe famose raccontano le vicende di un'eroina. Tra le più note c'è quella di Cenerentola. Nel disegno dell'intreccio e nei ruoli dei personaggi di questa fiaba emergono i buoni e i cattivi sentimenti, le qualità belle e quelle brutte.
Cenerentola è umile, obbediente, paziente, solerte, generosa, amica dei semplici e, soprattutto, fiduciosa.
Le sorellastre sono superbe, arroganti, insofferenti, sfaccendate, invidiose, determinate e sicure del successo.
Certo, nella fiaba manca il cosiddetto tuttotondo, la verosimiglianza psicologica. Ma se ricomponiamo in noi le funzioni semplici di protagonisti e antagonisti il tuttotondo si forma. Senza contare il fatto che nelle funzioni ci sono esperienze universali generate dal gioco della vita e dai ruoli che in questo gioco ci tocca giocare.
Quello di Cenerentola è senz'altro uno dei ruoli più ricorrenti nell'universo spaziotemporale al femminile. Per scelta o per destino.
Non sempre però la storia di Cenerentola è a lieto fine. O almeno così pare. Senza dire poi del disprezzo che patisce Cenerentola! L'espressione “è una cenerentola!” equivale alla mortificazione di tutte quelle “virtù” che il personaggio / funzione vorrebbe, invece, trasmettere. Forse la funzione di Cenerentola è la più mortificante tra tutte quelle dei personaggi fiabeschi.
Non so se gli studiosi della fiaba hanno mai pensato che a Cenerentola viene del tutto negata una metamorfosi autentica, specialmente nella versione narrata da C. Perrault.
Quando le sorellastre vanno al ballo dato dal principe lasciano a casa Cenerentola triste e sola. Alla festa lei non potrà partecipare!
Mi piacerebbe proprio che la fiaba finisse qui!
E invece no. Cenerentola ha una madrina che trasforma una zucca in carrozza, i topi in cavalli e cocchiere, le lucertole in lacchè. E, per finire, la madrina fatata con un tocco della sua magica bacchetta muta i cenci di Cenerentola in uno splendido abito da ballo e le sue logore ciabatte in luccicanti scarpine di vetro. Cenerentola, allora, con l'aiuto della madrina sembra cambiarsi in una leggiadra e seducente fanciulla. Sulla carrozza vola al castello in festa. Compare nella sala da ballo facendo tutti trasecolare. Il principe danza solo con lei. La rincorre allo scoccare della mezzanotte per tre notti di seguito. Nella terza fatidica notte egli riesce a tenersi un pegno materiale di quella magica quanto fuggevole bellezza: una delle scarpine di vetro persa da Cenerentola in fuga.
Quella scarpina simboleggia la fragilità dell'incantesimo. È l'inconsistenza stessa di una metamorfosi indotta. L'epilogo della fiaba è universalmente noto. Il principe sposa Cenerentola.
Ora che ci penso, questa è proprio una brutta storia!
Preferirei che Cenerentola si liberasse della madrina e scappasse di casa. In caso contrario sarebbe meglio che continuasse ad essere per tutta la vita la cenciosa Cenerentola.
Solo se Cenerentola, invece della magia della madrina, trovasse la magia del sé, il compimento della fiaba sarebbe felice. Quel tocco magico della bacchetta fatata avverrebbe nell'attraversamento della vita, nel vivere sul proprio corpo tutte le prove del viaggio, nel sorridere delle prove e dello stesso ruolo di Cenerentola!