martedì 28 dicembre 2010

Aspettiamo l'Epifania... sferruzzando...trame di memorie e speranze


Ma siamo proprio sicuri che il mondo della scuola sia scontento della riforma Gelmini e dei tagli tremontiani?
Appena un anno fa mi trovai a scioperare ripetutamente contro il riordino (disordino?) dei curricoli liceali. In una manifestazione decembrina a Roma, insieme a qualche centinaio di “disperati” come me, sfilai in un malinconico corteo fino a Piazza del Popolo. La piazza era inondata dal sole. Io mi ci aggiravo in solitudine, ed anche un tantino soprappensiero, perché tutto quel cammino non aveva giovato alle mie gambe malconce. I megafoni amplificavano l'oratoria del comizio dai soliti toni accorati. Le parole risuonavano fasulle. Mi guardavo intorno: visi distratti; sparuti capannelli di chiacchiere. Mi doleva la gamba sinistra. Decisi di tornarmene alla stazione. Non avevo voglia di sprofondare nella metro. Mi inoltrai in via del Babbuino. Accanto a me una signora bionda camminava a passo svelto. Le chiesi la strada più breve per Termini. “Facciamo la strada insieme!”, mi disse sorridendo. Le tenni dietro cercando di non zoppicare. La sofferenza fu ripagata dallo scambio di umanità tra due donne libere e presenti a se stesse, con la passione comune per l'insegnamento. Ci lasciammo a piazza Esedra con la reciproca promessa di rimanere “interconnesse”. La signora si chiama Giovanna e ora è una delle mie amiche di facebook. Con quella manifestazione si è chiusa un'epoca per la scuola e, secondo me, anche per i modi di esprimere il dissenso. Da allora ho preso atto che si deve ripartire da un altrove.
Molti docenti, forse troppi, ma anche tanti intellettuali, professionisti laureati, non hanno coniugato avanzamento sociale, grazie al titolo di studio, con profonda cultura umana e civile. È per questo, credo, che la maggior parte è rimasta inerte davanti ai colpi inferti alla scuola dalla Riforma Gelmini - Tremonti, in particolare alle discipline umanistiche. Lì per lì mi ci sono arrabbiata. Mi sono aggirata infuriata tra i colleghi. Ho votato, nei collegi dei docenti, contro i progetti presentati, perché, a mio avviso, sono elaborati in funzione della distribuzione dei fondi e non per l'educazione e la formazione dei giovani studenti. Il risultato? Una grande solitudine! Ma mi ripaga il fatto che nella rete ho trovato tantissimi compagni di pensiero in cammino. E mi appaga la consapevolezza di essere una donna che non ha mai trascurato l'attività manuale.
Mi sembra meraviglioso "curare" a un tempo la mente e la mano e il cuore.
In questi giorni faccio la calza. Che stupore! Due ferri, un filo e l'agilità di due mani! Ma non basta! È attiva la mente immaginativa scaldata dalla gioia del cuore, mentre il filo prodigiosamente diviene trama e prende forma. E intanto volano i fili del pensiero guidati dal cuore. Ripercorrono trame perdute. Infilano maglie della memoria al ritmo del ticchettio dei ferri che dipanano e tessono il gomitolo.
In questo tempo della memoria è ancora la maestra Ada che guida la trama. Lei, la narratrice di storie, per prima mi insegnò a tessere il filo e a ricamare la trama. Le mattinate del sabato, infatti, le aule diventavano laboratori. Tutte le maestre si prodigavano nell'insegnare alle scolare e agli scolari l'arte meravigliosa della mano. Sapevano certo che il lavoro manuale si accompagna a quello intellettuale, per la pura gioia dell'essere umano e per il bene comune. Inconsapevolmente allora appresi che la dignità dell'uomo è nella sua unità e nel rispetto per tutto quanto lo fa uomo.
-“Faccio la calza, dunque sono”-
mi viene di correggere. Perché, mentre ammaglio il filo colorato, si svolgono i fili del pensiero e si dipanano le storie. È il tempo di ricomporre quel mortificante dualismo. È questo il momento di capire che l'educazione dell'uomo deve essere integrata e complessa. Non si tratta di ricomporre soltanto la dicotomia fra cultura umanistica e cultura scientifica, (e contro questa sacrosanta ricomposizione è stata varata la Riforma Gelmini dei curricoli scolastici), ma di eliminare la differenza di valore che attribuiamo al lavoro, e, ancor prima di rimeditare sull'idea stessa di cultura e di sapere.
Per evitare il declino e la regressione alla barbarie, la nostra società deve chiedere, per tutti, più conoscenza in ogni ambito disciplinare, più attività culturale in ogni campo dell'arte umana. Dico “attività” perché tanto l'esercizio quanto la fruizione dell'arte contribuiscono “attivamente” alla crescita di individui buoni, potenzialmente buoni cittadini che non disgiungeranno l'interesse personale da quello della comunità. La fruizione e l'esercizio delle “arti belle” sono indispensabili all'educazione umana. L'ispirazione è un dono divino, l'entusiasmo stesso della vita. Posso avere ville, soldi, forzieri pieni di preziosi, potere e titoli laureati, ma se non ho l'entusiasmo, vita ben misera è la mia!
Credo che gli educatori debbano sentire potentemente l'entusiasmo, ed essere testimoni della cultura integrata della mente e della mano. L'estensione dell'accesso alla scuola avvenuta soprattutto negli anni sessanta è un valore di cui dobbiamo andar fieri. Grazie a quelle riforme tanti figli del proletariato hanno compiuto il passaggio di classe. Indietro non si può e non si deve tornare. Oggi ci tocca fare dei passi in avanti. Ognuno di noi deve impegnarsi in un progetto in cui la cultura assuma il massimo valore, l'unico condivisibile: la crescita integrata di corpo mente e cuore, affinché si realizzi l'obiettivo della giustizia ed del ben-essere di tutti gli uomini.
Perciò è indispensabile volere ad ogni costo una scuola pubblica di altissimo livello. Non possiamo avallare un progetto politico che favorisca scuole private d'élite per la classe dei dominatori dai colletti bianchi e immiserisca quelle pubbliche destinandole ad una massa di lavoratori forzati.
Non assecondiamo il progetto della scuola azienda in cui i “clienti” vengono addestrati secondo la domanda del mercato! Studiamo, immaginiamo e lavoriamo per una scuola che educhi uomini colti e liberi, elevati di mente e di cuore, che siano padroni di sé e che non disprezzino nessun lavoro, per non disprezzare mai né se stessi, né i propri simili!
Uomini siffatti coltiveranno nel cuore il seme della giustizia e della pace e ameranno sempre la libertà.

Continuo a sferruzzare soddisfatta.
La memoria svolge altri fili. Altri volti di un tempo lontano fanno capolino. Ancora, da quelle aule felici dell'infanzia, mi sorride il maestro Barbagli, seduto al pianoforte, mentre ci dirige nel canto, dopo averci insegnato “Adeste, fideles, laeti triumphantes...”.
Piroetta aggraziata la maestra Ambra Gragnoli, che ci guidava nei saggi di ginnastica artistica e nell'azione scenica.
E intanto, eccola lì la mia maestra di “trame”!
Ada Cappelli mi sta leggendo una storia e... a un tratto, abbassato il libro, mi strizza l'occhio, compiaciuta del mio lavoro a maglia.

domenica 26 dicembre 2010

Il bucaneve e i neuroni specchio

Avete mai giocato a “se fosse un fiore?”
Si pensa per metafora, raccogliendo in un figlio dei prati e dei giardini, dai più semplici ai più sofisticati, le qualità di un essere umano. Ci giocavo insieme ai compagni della giovinezza. Me, mi rappresentavano nella violetta. Il bello è che la mammola è il mio fiore preferito. Da bambina inventai un dialogo tra questo fiore e un ruscello sugli argini del quale era spuntato.
Occhieggia timida la mammola molto prima del tripudio di primavera.
È piccina e ride col suo cuoricino di sole tra il verde scuro delle foglie a cuore.
In un marzo lontano, tirai per la mano il mio grande e teneramente austero papà, perché mi accompagnasse giù per la scarpata fino alle umide sponde dell'Ombrone, in cerca di violette.
Negli amati scenari delle mie fiabe avevo appreso che lungo i corsi d'acqua spuntano in abbondanza le violette.
Non me lo disse mai, ma di certo papà fu ripagato dal mio esultante battimani, quando scorsi la prima mammola. Quel giorno me ne tornai a casa presa dall'incanto del mazzolino che avevo composto.

La mia infanzia è un prato fiorito. I ricordi di quel tempo sono forme delicate di colori profumati. Si raccolgono nelle storie della maestra. Ada Cappelli confidava nei racconti gentili, anche quando ci invitava ad eseguire il dettato o a compitare per l'ortografia. Esercizi mai disgiunti dal potente immaginare. È per questo, forse, che quei tempi sono “idilli”, paesaggi dell'anima, sfumati ma tanto potenti nel sorreggere le speranze ancora oggi, in questo tempo che confina col gelido e muto inverno.

Mi ricordo proprio ora della storia del “bucaneve” . Sebbene non lo abbia mai visto nella realtà, ne vagheggio, sorridente, il calice candido che sbocciò sulla candida coltre affinché Maria lo riempisse dell'acqua del disgelo per dissetare Gesù.

In seguito alle ricerche sul cervello del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, sono stati individuati dei neuroni speciali, i “neuroni specchio”, responsabili della nostra capacità di empatia (Rizzolatti-Sinigallia, So quel che fai, Raffaello Cortina). È stato osservato, grazie alla tecnica del Brain imaging, che questi neuroni si attivano non solo quando viviamo un'emozione o compiamo un'azione, ma anche quando vediamo un altro “emozionarsi”, “sentire” o “fare” qualcosa. Nella “natura” animata sono iscritte, pertanto, la predisposizione a vedere e sentire l'altro e la inclinazione a “conoscere” mentre siamo in relazione con gli altri. Ma la natura va coltivata, dentro e fuori di noi. Ciascuno di noi è responsabile dell'altro, quindi. E con “l'altro” non si intende unicamente un essere umano. La sensibilità, come un fiore, chiede cura per sbocciare e ingentilirsi per ingentilire. Ovunque si posi, il nostro sguardo suscita una reazione influenzata dalla nostra disposizione. È inutile attribuire tutta ad altri la responsabilità della volgarità che ci circonda. “So quel che fai”, sembra che ci dicano tutte le “cose” intorno a noi. E ce lo dicono soprattutto i giovani. La maestra Ada Cappelli, in quel tempo ormai lontano, non poteva sapere dei “neuroni specchio”, ma, naturalmente, sapeva che “portare i bambini in giardino” era il modo migliore per educarli alla gentilezza. Era un giardino di storie, come quella del bucaneve, che annuncia il disgelo e il fiorire delle violette. Quando ripenso a quel tempo, mi sembra incantato in una magica armonia. Sobrietà, fermezza e gentilezza adornavano il fare e il dire di quei consapevoli educatori. E i giovani vivevano quella sapienza! Ecco, è questo l'auspicio: che possiamo divenire consapevoli che la natura, dentro e fuori di noi, richiede “cura”, ovvero “cultura”!
Che spuntino sulle lande gelate i bucaneve ad annunciare il disgelo!

“Per fare tutto ci vuole un fiore!”

mercoledì 8 dicembre 2010

Il tempo ritorna, ma niente è mai come prima!

Il tempo della natura ritorna. È una spirale in cui si svolge la “fabula" umana. Dalla nascita alla morte di un singolo, dall'inizio alla fine di un'epoca, dal fiorire al decadere di una civiltà. Il filo della spirale è fitto di intrecci di innumerevoli fili della Storia e delle storie.

Sarà presto ancora una volta Natale e la nascita di un Fanciullo coinciderà col chiudersi di un ciclo annuo. Quasi a segnare la continuità del filo, l'inizio nella fine. Continuità e contiguità. Ma non uguaglianza. Continuità, contiguità e metamorfosi all'unisono. Metamorfosi nel nascere ancora.
Natale nell'inverno. Quando il freddo gela la terra, che si è spogliata della sua veste di fiori e foglie, è Natale. È un germoglio che sorride mentre la terra si raccoglie nel silenzio sotto la neve. È un fiorellino in boccio che sfida il gelo dei cuori.

È Natale nelle città tumultuose, Grotte luminescenti e rumorose. Sulle vie asfaltate o lastricate di antichi basoli passa l'umanità! Tra lo svaporare umido dei fanali il riverbero dei colori assorbe gli odori della folla che sciama ansiosa.
Sarebbe un desiderio oleografico desiderare Natale in una grotta suggestiva, in mezzo ai pastori di una Arcadia perduta.
Natale è qui, tra “le case aggiunte a case”, per “le strade che sboccano nelle strade” dei paesoni e delle metropoli. Nel frastuono c'è il silenzio e la compassione!
Non si può fuggire in un altrove artificiale. L' altrove è nella metamorfosi segnata dalla nascita, tra l'anno che si conclue e quello che incomincia.

Stamattina ho mangiato la marmellata preparata per me da un'amica conosciuta quest'anno grazie alla comunicazione nella Rete. Una marmellata speciale che lei ha chiamato “Testata d'angolo”. È una vera composta di frutti vari, quelli sciupati che, nella nostra dissennata opulenza, scartiamo e destiniamo all'immondezzaio. È una marmellata deliziosa. Ne mangerò ogni giorno fino a Natale. È anche una marmellata simbolo dei frutti raccolti in quest'anno che volge al termine. Tra i più buoni c'è l'amica che mi ha donato la marmellata.

Opportuno ritorna il tempo degli auguri con gli auspici della metamorfosi.
Perciò trascrivo di seguito una nota che scrissi all'inizio dello scorso anno. Sono parole che sperano frutti amicali, di cui ho gustato lietamente nel corso di quest'anno.

Sì il tempo ritorna, ma niente è mai come prima! È sempre meglio di prima, se lo desideriamo di cuore!

I racconti salveranno il mondo

Quando ero adolescente scrivevo il diario. Mi piaceva raccogliermi nel silenzio per rievocare le vicende del giorno trascorso, ripercorrendo gli stati d'animo che avevo attraversato. Inconsapevolmente coltivavo l'abitudine all'introspezione e all'attenzione per la realtà nella quale ero immersa. Mi soffermavo sui volti che avevo scrutato, ascoltato, ai quali avevo concesso o negato il sorriso, catturata dalle emozioni degli incontri. Le pagine si infittivano di parole che davano corpo al vissuto e alle attese. Mi piaceva cercare le parole più adatte. In quella ricerca mi tendevo nello sforzo di capire me stessa e il mondo circostante.
Il ricordo di quella mia abitudine adolescenziale è stato destato da un'intervista radiofonica a Duccio Demetrio, che da molto tempo si occupa di scrittura biografica ed autobiografica (cfr. Duccio Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina 1996).
Docente presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, Duccio Demetrio, nel 1998, insieme a Saverio Tutino, l'inventore dell'Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, ha anche fondato La Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari, non lontano dalla mistico “crudo sasso” della Verna.
Durante l'intervista che ho ascoltato lo studioso, avvalendosi delle meditazioni che hanno prodotto la sua ultima opera (Duccio Demetrio, Ascetismo metropolitano, Ponte alla grazie 2009), rispondeva a domande sulla possibilità di una “Ascesi Metropolitana”, ossia di un esercizio di attenzione alla realtà, nelle moderne città paragonabili a un “deserto sovraffollato”.
L'argomento mi è sembrato carico di buoni auspici per il futuro. Ho pensato così di scrivere le suggestioni che me ne sono venute.

È incominciato il nuovo anno. È un anno di confine tra un decennio ed un altro. Potrebbe recare in sé i fermenti di un'era nuova, nella quale gli uomini cessino di essere quelli “della fionda e della pietra”, quelli del tempo in cui “il fratello disse all'altro fratello: "andiamo".

Forse un indizio di questo TEMPO NUOVO è leggibile nel desiderio di comunicare di cui la “rete” è testimonianza. La stessa circolazione delle informazioni e l'infinita possibilità dei contatti sottrarranno a qualsiasi potere la libertà e affideranno il destino umano alle scelte consapevoli degli individui.
Finalmente il progresso della ragione potrebbe non essere separato dall'ingentilirsi del cuore. Nascerà una nuova stirpe. Ogni attività dell'ingegno umano si asterrà, pia, da qualsiasi azione violenta sulla natura e si dedicherà a rendere vivibile la vita dei fratelli.

Allora non più “alle fronde dei salici, per voto”, saranno “appese” le “cetre” dei poeti.
NUOVI INNUMEREVOLI CANTASTORIE allieteranno le nostre città, modulando i racconti di una nuova civiltà. Nuovi rapsodi “cuciranno” le storie in un poema epico senza fine e confini.

OGNI UOMO sarà artefice di questo “nuovo tempo”, se diventerà un GENTILE CANTASTORIE, esplorando il suo cuore con l'apprendere a conoscere o a riconoscere se stesso e a RACCONTARE, innanzitutto a se stesso, la sua storia. Di questo BISOGNO DI NARRAZIONE è necessario divenire consapevoli.

Ma la parola che esprime una storia incarnata nasce dal silenzio di un' “ASCESI”.
“Ascèsi” deriva dal verbo greco “askéō” “io esercito”. L' “ascesi” è corporeo esercizio di quell'attenzione che aspira a comprendere l'altro, lo sconosciuto, lo straniero che ognuno reca in se stesso.
Il desiderio di raccontarsi coincide con il bisogno di conoscersi nel raccoglimento di un'osservazione attenta e pietosa, amorevole ma veritiera.
Coloro che sanno raccontarsi sono in grado di comporre un microcosmo in una storia, rivivendo, nella loro arte, l'infinita gamma dei sentimenti umani. Diventando narratori di se stessi si diventa anche narratori delle vite degli altri, perché la narrazione autentica sgorga dalla COMPASSIONE.

Il silenzio in “ascesi” è esercizio di “compassione”. La “compassione” è un sentimento elevato. È il tratto essenziale dell'essere umano. In fondo ad ogni arte degli uomini esiste la “compassione”, ossia quella capacità di essere in sintonia con la complessità dell'io che riconosce in sé la complessità del mondo, e lo comprende.
La “compassione” tende la mano all'altro, e non esclude nessuno.

La “compassione” fu il soffio ispiratore di uno straordinario esploratore del cuore umano, F. Dostoevskij. E da lui raccolgo e trasmetto l'invito conclusivo. Faccio mie le parole pronunciate dal mite Alesa, il più giovane dei fratelli Karamàzov, nell'epilogo del romanzo :
“ecco, andiamo tenendoci per mano...”.