sabato 30 aprile 2011

Le bistecche

La cortina della nebbia era calata sul paese antico. Nel silenzio di intima quiete di una lunga sera d'inverno, sul lastrico del vecchio corso Soccini, risuonava lo scalpiccio dei rari passanti imbacuccati e si udivano le amichevoli voci di saluto che si scambiavano. La luce dei lampioni si dilatava come per incanto nel fumo della nebbia. Ogni tanto si sentiva qualche chiave girare nella toppa e un uscio che sbatteva. Le finestre si illuminavano ad una ad una. Maria e la sua mamma erano sole in casa. La mamma era appena tornata dalla macelleria. Aveva comprato quattro bistecche per il pranzo del giorno di festa seguente, e ora le riponeva sul davanzale esterno della finestra della cucina per conservarle al freddo della notte. L'appartamento si trovava in cima ad una ripida scala, al primo piano di un antico edificio, che sorgeva di fianco alla porta medioevale del borgo antico del paese. Il pianerottolo si allungava in un andito buio, in fondo al quale la scala continuava a salire fino al secondo ed ultimo piano dove, in un altro minuscolo appartamento, abitavano Ada e Tullio, venditori ambulanti che giravano per i mercatini dei paesi circostanti con una giardinetta verde scuro stipata di rotoli colorati di tessuti modesti, del cui commercio la coppia viveva. L'appartamento di Maria si apriva alla fine della prima rampa di scale, a sinistra. Da un minuscolo ingresso si accedeva alla cucina e alle due camere, la sala da pranzo e l'unica stanza da letto. Maria era una bimba bruna di cinque anni, dagli occhi vivaci e pensosi ad un tempo. Quella sera giocava con la sua bambola e, come al solito, girovagava inconsapevole coi sentimenti nella confusione dei suoi pensieri infantili. La mamma di Maria era una donna mansueta e saggia. Di statura non alta e dalle forme dolcemente tonde, aveva il volto sempre rischiarato da un franco sorriso, un segno certo del suo appagamento nel dedicarsi all'amorevole cura di quella figlioletta dei cui riccioli bruni era fiera. La signora Giovanna era una donna semplice, ma con il cuore palpitante di sogni da realizzare nella sua bambina.
In quel tranquillo silenzio invernale, madre e figlia se ne stavano intente alle loro occupazioni, in cucina, ognuna per conto suo. L'una si trastullava vezzeggiando la bambola, l'altra sedeva pensosa a rammendare.


La cucina era una stanza quadrata dipinta di celeste. Alla parete opposta a quella nella quale si apriva la porta di legno laccato di bianco era addossata la credenza giallo chiaro, con gli sportelli dell'alzata recanti al centro una specie di ventola fissa, che forse serviva ad arieggiare. Nell'angolo della stessa parete era installato l'acquaio di pietra granitica. Accanto a questo, a destra, due staffe di ferro reggevano una lastra di marmo di Carrara su cui erano poggiati i fornelli. Il vano sottostante era chiuso tutt'intorno da una allegra tendina a quadretti gialli e blu. Sulla parete contigua una finestra rettangolare dalle persiane marroni si affacciava sulla via principale del paese, stretta e fiancheggiata da antiche case di pietra. Guardando a sinistra, si intravedeva la torre merlata del palazzo comunale, la cui facciata era decorata da stemmi marmorei e da una lapide che ricordava che lì si era fermato Arrigo VII di Lussemburgo. Al centro della stanza era posto il tavolo rettangolare di legno laccato come la credenza. Intorno al tavolo , ornato al centro da un vaso di vetro sfaccettato, erano disposte quattro sedie la cui seduta nascondeva contenitori nei quali trovava posto ogni sorta di cianfrusaglie.
Nell'intima quiete dell'inverno, in quella stanza rischiarata dalla luce dorata di una lampadina schermata da un piatto di opaline gialla, si percepiva il sereno appagamento di una comunione di sentimenti. D'un tratto il trillo del campanello fece sollevare lo sguardo della signora Giovanna e di sua figlia. Negli occhi di entrambe si leggeva la sorpresa per una visita inaspettata. Ma, forse, si trattava della consueta capatina frettolosa della signora Fiorenza dell'appartamento accanto, o dell'affettuosa coppia del piano di sopra, Ada e Tullio, che Maria chiamava affettuosamente zio e zia. Zia Ada e Zio Tullio, al ritorno dai mercatini dei dintorni, di sera, erano soliti irrompere gioiosi e non senza un dono gentile per quella bimba che, siccome non avevano figlioli, vezzeggiavano come la loro “piccinina”. La mamma posò sul tavolo il rammendo che aveva tra le mani e andò ad aprire. Maria udì lo scatto del lucchetto nella serratura e il cigolio della porta che si schiudeva nel silenzio ininterrotto. Non risuonarono parole di saluto, né altro. Con il cuore in attesa la bambina si alzò e si avviò nell'ingresso. Sua madre stava immobile e tacita, appoggiata alla porta spalancata. Maria avanzò accanto a lei fino alla soglia. Illuminata dalla luce giallognola della lampada che pendeva dal soffitto grigio del pianerottolo, nel vano della porta, una donna avvolta in uno sdrucito scialle nero tendeva la mano destra alla mamma e con la sinistra stringeva quella di una bimba smunta e triste. Nel silenzio due donne si guardavano negli occhi accanto alle loro creature. “Chi sono, mamma?” - mormorò ansiosa Maria - “povere mendicanti...forse zingare" - rispose la signora Giovanna con voce incerta e turbata, carezzandole i riccioli bruni.
Maria non comprendeva la parola “zingare”. Ma, mentre le venivano in mente alcune fiabe che la mamma era solita raccontarle, intese il senso di “povere” e di “mendicanti”. Di poveri mendichi ne aveva incontrati tanti in quelle storie! E ogni volta che aveva immaginato quelle scene, era stata colta da un penoso turbamento e dal desiderio di aiutare quelle creature immaginarie. Maria sentì che ora era entrata in uno di quei racconti, e che a lei era toccata la parte della principessa capricciosa, mentre le pareva che la sua modesta casa si trasformasse in uno degli sfarzosi castelli delle favole. Sentì un brivido attraversarla e il cuore palpitare. D'un tratto il tremito si sciolse nelle lacrime d'un pianto irrefrenabile. Sua madre smise allora di fissare le sconosciute e, dopo aver chiuso frettolosamente la porta in viso alla donna, prese a consolare la figliola.
“Hanno fame, mamma?”chiese Maria tra le lacrime che le carezze materne non sapevano asciugare.
La signora Giovanna china sulla figlia che si stringeva al petto non rispose. Poi, all'improvviso, sollevò il capo, scostò dolcemente la sua piccola e, senza dire una sola parola, si affrettò alla finestra, la spalancò, afferrò l'involto con le bistecche e corse giù per le scale dietro alla sconosciuta che lentamente si allontanava tenendo la sua bimba per mano. Maria la seguì e si fermò sul pianerottolo da dove, in fondo alle scale, oltre la soglia dell'ultimo gradino, si intravedeva la strada. Mentre sua madre consegnava all'altra madre l'involto, Maria sentì su di sé lo sguardo silenzioso dell'altra bambina. I loro occhi si parlarono. Poi, tenuta per mano dalla madre, la bimba si voltò, scomparendo nella nebbia. La signora Giovanna cinse la sua piccola con un braccio e, stringendosela al fianco, risalì pensosa le scale e rientrò in casa. Ora Maria non piangeva più. Lentamente, la sensazione di acuto dolore si attenuò e cedette ad un vago malessere.
Era l'avvertimento di un sentimento indefinibile che la segnò per sempre.
Il mondo dei giochi infantili aveva incontrato per la prima volta quello dell'ingiustizia dei grandi.

giovedì 21 aprile 2011

Ombre della Lanterna Magica

Mi è piaciuto Habemus Papam di Nanni Moretti. È una metafora delle prigioni in cui le vite umane si lasciano rinchiudere. La rappresentazione è tuttavia segnata da una regia intrisa di “pietas”, perciò si esce dalla sala come sollevati e pervasi da un sentimento di pietosa accoglienza verso se stessi e verso gli altri.


Mi sembra che il film ci metta davanti a due strade: l'una conduce alla prigione dei ruoli, professionali o istituzionali, nella quale si cerca scampo all'angoscia nelle droghe (siano esse tranquillanti, dolci succulenti o stordenti giochi solitari), e nelle risposte rassicuranti del linguaggio - “formula magica”, semplificante e risolutivo, della psicanalisi, come lo stesso Moretti, nella parte del dottore, suggerisce con la sua voce, quasi fuori campo. L'altra strada, aperta all'avventura della vita, si snoda imprevedibile nel teatro del mondo.

La trama del film è poeticamente intertestuale. Il mio vissuto ne ha colto due citazioni.
La prima è implicita nella “peripezia” della trama: la fuga per le strade di Roma del papa, sul cui sguardo mite e inquieto insiste la macchina da presa, mi ha ricordato quella della principessa ansiosa di vita (Audrey Hepburn) in “Vacanze romane”. Ma la “favola” diretta da William Wyler si conclude malinconicamente, perché la protagonista, dopo un tuffo inebriante nel brulichio della vita, torna alla responsabilità del suo ruolo, rinunciando all'amore. I passi di Gregory Peck, che rimbombano solitari sul pavimento di marmo, scandiscono l'addio e la distanza incolmabile tra il Palazzo e la vita.
La seconda, esplicita ed emblematica, consiste nella stessa “peripezia” della vita – teatro, e rievoca “Il Gabbiano”, il dramma metateatrale in cui Anton Čechov rappresentò le sconfitte causate agli uomini dalle “passioni tristi”. Ma le due citazioni nel film di Moretti sono rovesciate nel senso e nell'epilogo. Infatti, il protagonista non torna nella dorata prigione, si libera dell'angoscia e si avventura sorridente nei “giochi” della vita.

Infine, vorrei soffermarmi su quella sequenza allusiva, lievemente misteriosa, che mostra “l'ombra” di un “Papa che non c'è” scivolare al di là di una tenda ondeggiante alla finestra. Migliaia di occhi sono appuntati a quell' “ombra” illusoria. Per me è questo il momento poetico del film: l'evocazione ambiguamente affascinante del gioco d'ombre della “lanterna magica”, e del “vano” oltre le maschere dei ruoli e della personalità .

domenica 17 aprile 2011

E buio sia!

La situazione politica, sociale ed economica dell'Italia è stata ormai illustrata analiticamente dalla penna di intellettuali, filosofi, politologi, economisti ed esperti del diritto. Ancora stamattina, nel corso della trasmissione Uomini e profeti condotta da Gabriella Caramore sul terzo canale della radio, ho ascoltato parole limpide ed accorate della pensatrice Roberta de Monticelli che, ricordando “la leggenda del Grande inquisitore di Dostoevskij e richiamando severi giudizi di Leopardi, metteva l'accento sull'attuale stato di inerzia degli Italiani che sembrano rassegnati a rinunciare alla libertà, alla stregua di bambini persi nei loro infantili trastulli. Mi sembra quindi inutile ripetere un approccio analitico all'attuale quadro politico e sociale italiano. Voglio piuttosto accostarmici con immediato sentire ed esprimere la preoccupazione e l'indignazione che provo. Ogni giorno sono disgustata e offesa dall'arroganza cieca e spudorata della classe politica che ci governa. Sono avvilita dallo spregio del diritto, dalla ostentazione della ricchezza che compra tutto e si esalta con sfacciata indifferenza sotto gli occhi dei poveri, che si tratti di cittadini italiani o di profughi disperati, costretti da ineludibili necessità a lasciare la patria. E tutto questo accade nello sbando generale del popolo, nello scollamento totale della politica dell'opposizione, incapace di creare un canale di comunicazione con i cittadini, efficacemente alternativo a quello tradizionale. Assistiamo così al viaggiare nella “rete” di infinite proteste civili. Ma queste sembrano restare prigioniere, e si esauriscono in uno sfogo consolatorio, talvolta frustrante. Del resto, le pur coraggiose iniziative del “popolo viola”, nate appunto nella “rete”, si sono impaludate in manifestazioni ormai stantie, esaurite nell'emotività, e, tutto sommato, riproducenti modelli di feste collettive liberatorie ma poco incisive, attraversate dalle divisioni e dalle inevitabili incrinature del “movimentismo” e, infine, facilmente oscurabili. Ecco, quello che mi spaventa è quest'oscuramento che ci piomba addosso, insieme al silenzio. L'Italia è al buio e zittita.

Sulla scuola pubblica, garanzia di espressione di coscienze libere e critiche, che si esercitano nella creazione di conoscenza attraverso lo studio del patrimonio culturale umano, in orizzonti sempre più ampi e interconnessi, dopo la scure della "riforma", si abbattono ora sinistre ripetute minacce.


Temo il buio e il silenzio. Ogni volta che il Primo Ministro della Repubblica italiana, o qualsiasi altro componente di questo Governo, è costretto a giustificare provvedimenti legislativi contestati da altre parti politiche e civili , ripete immancabilmente che l'operato del Governo è sostenuto dalla volontà del popolo italiano. Se è così, voglio dire a chiare lettere che io non faccio parte di questo popolo. No, non parlano nel mio nome questi ministri. Tuttavia è bene ricordare che parlano solo nel nome di una parte di Italiani, circa la metà dei votanti di tre anni fa, e, forse, oggi anche molto meno della metà. Ma, comunque sia, è sopportabile che quell'altra metà di cittadini italiani, che non concordano con la politica governativa, sia vilipesa quotidianamente e condannata al buio e al silenzio? Nelle mie disperate elucubrazioni tento possibili squarci di luce, vie liberatorie di voci di protesta.

Ecco la mia idea. Urliamo al buio il nostro dissenso.

Muoviamoci nella rete per concordare una data e un' ora in cui abbassare il contatore dell'elettricità almeno per quindici minuti.

Pensate: milioni e milioni di italiani al buio! Chi potrà oscurarli?

Quell'oscurità brillerà più di qualsiasi giornata di sole! Sarà più eloquente di qualsiasi orazione! Una resistenza al buio! La sconfitta dei sondaggi! Nessuna contesa numerica!


Mi viene ora in mente uno straordinario vecchio film di Terence Young, Gli occhi della notte, in cui Audrey Hepburn, nelle vesti di una impavida cieca, si difende da tre delinquenti facendo il buio nella sua casa. È stupefacente vedere come un limite, in questo caso la cecità, si trasformi in possibilità di salvezza! Ebbene, come cittadini possiamo fare lo stesso. Quindi, se non vogliamo vivere in una città di ciechi che hanno smarrito ogni senso di umana virtù, come accade ai personaggi del terrificante racconto “Cecità” di Saramago, spalanchiamo gli occhi in questo tempo buio.

E buio sia in un tempo concordato!

Chi potrà oscurare il buio?

mercoledì 13 aprile 2011

Madri di Speranza

Quando penso a mia madre è come se la vita che alimentò nel suo grembo si rinnovasse in me. Non solo mia madre mi diede alle “divine spiagge della luce”, ma mi ispirò, pur nel breve cammino della sua vita, l'energia della fiducia. Non conosceva la disperazione mia madre. Le difficoltà quotidiane erano come una sfida da accettare sorridenti. Il mio sorriso è il suo: un'impronta della speranza nella mia anima. A pensarci bene, il dialogo con mia madre non si è mai interrotto. L'alba che la vide chiudere gli occhi, molti, molti anni fa, mi accompagna con la luce della fiducia nel giorno che verrà. Inconsapevolmente, nelle scelte minute del quotidiano, come in quelle più importanti della mia vita, dialogo con mia madre. Da queso intimo colloquio mi sento come guidata a contemplare, sempre, la luce.
Non potrò mai dimenticare quanto le piaceva ascoltarmi recitare la poesia A mia Madre di Edmondo De Amicis:

Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni:
mia madre ha sessant'anni,
e più la guardo e più mi sembra bella.

Non ha un accenno, un guardo, un riso, un atto
che non mi tocchi dolcemente il core;
ah, se fossi pittore,
farei tutta la vita il suo ritratto!

Vorrei ritrarla quando china il viso
perch'io le baci la sua treccia bianca,
o quando, inferma e stanca,
nasconde il suo dolor sotto un sorriso

Pur, se fosse il mio priego in ciel accolto,
non chiederei del gran pittor d'Urbino
il pennello divino
per coronar di gloria il suo bel volto;

vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei,
veder me vecchio, e lei
dal sacrificio mio ringiovanita.

E mi ascoltava con gli occhi lucenti di gioia, fiera della mia grazia un po' leziosa, più che commossa dal senso dei versi. Del resto, lei era ancora giovane, così lontana dalla canizie e dal fatidico traguardo dei sessanta!

Il tempo passa e la storia continua. Così si è svolto il filo della mia storia intrecciandosi ai fili di tanti destini.

Oggi sono una mamma ancora in cammino, eppure mi sento così poco madre!

Mi ricordo di un romanzo di una drammaturga libanese, Abla Farhoud. Narra di una donna, analfabeta e sottomessa, che, rimasta giovanissima orfana di madre, emigrata dal Libano in Canada col marito e cinque figli, ormai anziana, libera la voce e affida la sua storia alla penna della figliola scrittrice. Il titolo del libro è emblematico, “La felicità scivola tra le dita”. Contemplate questa immagine: mani delicate che sfiorano i sogni nel fluire della vita. È il tocco gentile della protagonista che, con lieve sentire, si avventura per i sentieri della memoria e lungo il suo vissuto relazionale. Anche i percorsi più dolorosi sembrano alleggeriti dalla narrazione liricamente malinconica. Mi si è stampata nella mente un'affermazione in particolare: “forse la donna privata della madre in tenera età non sarà mai pienamente madre”. Mi ci sono sentita in questo pensiero. Esprime una condizione che vivo. O sarà solo un'illusione delle parole...”madre”...”figlia”? C'è qualcosa di più che non so spiegare. Un senso di generosità verso la vita stessa, la generosità dell'essere donna, figlia e madre allo stesso tempo. È una forza tutta femminile, una forza lieve, impalpabile come le sete predilette, la forza della grazia che è il suggello della donna. Una grazia assoluta e impenetrabile che trattiene la donna sempre sul “limitare di gioventù”, nonostante il trascorrere degli anni, che nulla possono sottrarre a questa grazia e che semmai le conferiscono una assorta sorridente malinconia. Chi può dimenticare la “vecchierella” leopardiana che siede sulla scala a filare “Incontro là dove si perde il giorno; / E novellando vien del suo buon tempo, / Quando ai dì della festa ella si ornava, / Ed ancor sana e snella / Solea danzar la sera intra di quei / Ch’ebbe compagni dell’età più bella.”? È una immagine della “bellezza” che completa quella della “donzelletta” che avanza a passo di danza volgendo le spalle al “calar del sole”.
Madre e figlia e nonna è Dounia, la protagonista del romanzo “ la felicità scivola tra le dita”. E mi sorprende la compresenza degli stati della vita in questa donna che mantiene la freschezza sentimentale e la speranza, pur essendo presente nel quotidiano coi gesti più familiari alle donne, le carezze amorevoli ai nipoti, la discreta partecipazione alla vita della figlia, emancipata e indipendente scrittrice di successo.
E questa figlia diventa la narratrice di Dounia, la madre analfabeta. La figlia accoglie in sé la storia della madre, ne incarna le parole e dà voce alla speranza.
Chissà! Forse non è importante tanto sentirsi madri, quanto raccontare storie ispiratrici di speranza.
“La felicità scivola tra le dita”, ma la gioia della speranza è uno stato aperto al divenire della vita!