sabato 26 ottobre 2013

Il Rancore? Figlio di Ingiustizia e Dolore


Recentemente mi è capitato di ascoltare e di leggere che i cittadini italiani sono diventati rancorosi. Brutto sentimento il rancore. Rima con livore. Ci si presenta agli occhi un'Italia rabbuiata e ghignante. Mi fa davvero grande tristezza questa immagine. Eppure, se dovessi rappresentare me stessa, oggi, mi dipingerei livida di rancore. Da dove nasce questo brutto sentimento che fa ribrezzo a quell'altra me stessa, incline al sorriso e alla pietà, che oggi scopre l'altra immagine di sé con le labbra increspate da una piega amara e gli occhi lampeggianti di ira a stento repressa?

Non credo che le elucubrazioni degli psicosociologi riuscirebbero a dare una risposta soddisfacente a questa angosciosa domanda. A meno che non tentino la strada che scende nel profondo del sé, dove è nascosta la complessità dell'umano, giù in fondo, nei meandri più torbidi della coscienza.

Si capiscono gli aspetti tragici della Storia solo allorquando la si rivive in qualche modo,  anche attraverso  un racconto che risvegli l'immaginazione e il sentimento empatico della tragedia dei vinti e del sacrificio di coloro che si è soliti chiamare eroi. È noto, tuttavia, che nel corso delle crisi epocali, tanto più dolorosa va in scena la tragedia della moltitudine dei deboli. Ma ai miseri è sempre mancata la voce e la visibilità nei libri di storia. Non se ne saprebbe nulla, se non ci avessero pensato i poeti ad immortalarli. La pagina analitica delle congiunture economiche e politiche non scuote le coscienze come quella di Giovanni Verga, quando narra delle plebi meridionali, o di Carlo Levi, quando dipinge la desolazione del mondo lucano, dei Sassi di Matera, quel locus horridus oggi tanto ammirato, forse proprio per quello stupendo orrore di verità che esso evoca.

Anche per dare una spiegazione degli animi invasi dal rancore ci sarebbe bisogno di narratori possenti, come quelli prima nominati, o come i grandi Russi, in grado di risvegliare Pietà, il “sentimento ormai stracco ed ammortito nei cuori”. Dovrebbero rinascere i racconti epici di poeti sapienti nello scavare nella loro immaginazione, e di scolpirvi la decadenza italiana, dopo averla contemplata, questa decadenza, dentro ai luoghi ordinari della “civitas”. Non serve a niente, infatti, imprecare contro le Istituzioni  o gridare nel frastuono della massa contro i Politici corrotti.

Entrate in un luogo della Sanità pubblica, quanti sfaccendati bighellonano rubando lo stipendio? Entrate nelle scuole o in un qualunque ufficio della pubblica amministrazione, vi imbatterete in parecchi imboscati, che magari hanno anche il coraggio di lamentarsi. Provate a chiamare il vostro medico di base per una visita, si farà descrivere frettolosamente i sintomi e vi prescriverà il farmaco. Se poi vi decidete a recarvi nel suo studio, è cosa rara che vi visiti. Nella migliore delle ipotesi vi spedirà via con un elenco di analisi da fare. Nessun ascolto o contatto umano, come ha insegnato lo stesso padre Ippocrate. E se poi vi dovesse capitare di acquistare un immobile, o di rivolgervi ad un imprenditore qualsiasi, o di ricorrere ad un qualsivoglia specialista, ditemi - in quanti riuscirete ad evitare l'imbarazzo di doverla chiedere la fattura, se non avrete preferito far finta di niente e se avrete potuto evitare un vile ricatto, impudentemente dichiarato o miseramente suggerito? - .

Roberto Saviano è diventato ricco e famoso raccontando di camorra, e oggi è addirittura considerato come un eroe. Ma c'è qualcuno che ha il coraggio di raccontare la proterva, strisciante, egoistica, irresponsabile quotidianità piccolo borghese?
E il piagnisteo piccolo borghese fa rabbrividire. La sventura e il dolore possono abbattersi su ogni uomo. Ma, quanto maggiore è il loro peso nella casa dei poveri! L'operaia precaria a raccogliere pomodori, i giovani sfruttati e malpagati, le badanti, gli emigrati e gli immigrati, gli esuli, hanno lo stesso sostegno, gli stessi conforti in una sventura della vita? 

Se nasceranno narratori di questa tragica epopea, questi considererò i miei eroi. Loro sapranno raccontare il rancore degli uomini onesti, derisi come ingenui anche dagli uomini dabbene, esperti navigatori del fango. Mi fa ormai orrore la coltivazione dell'orticello piccolo borghese, provo un disprezzo profondo per i caritatevoli che tacitano la coscienza ma che, al momento opportuno, scelgono di appoggiare quei demagoghi che li sgraveranno delle tasse sulle loro proprietà, piccole o grandi che siano. 

“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”, perché dove sono necessari gli eroi, proprio lì imperano l'ingiustizia e la sofferenza!
 Sicché, eccola la risposta alla domanda iniziale: in quel Paese in cui regnino ingiustizia e dolore, lì attecchiscono il rancore, e la discordia.
La strada della santità è difficoltosa e percorsa da radi passi, come quella dell'eroismo.

È auspicabile che si agisca in tanti per la giustizia sociale, in ogni luogo della comunità civile. È urgente che ogni cittadino si assuma le responsabilità del proprio ruolo, in ogni istante. Non si può più rimandare, o sorvolare. E coloro che hanno compiti di presiedere autorevolmente, in qualsiasi ambito della società, se non hanno competenza e cuore di sostenere un fardello pesante, siano responsabili almeno nel lasciare il posto a qualcuno più capace! Di questo un Papa è stato esempio, appena qualche mese fa.  

sabato 19 ottobre 2013

Maestri e Materie



Si chiamava Eugenia, da “eughenès”, vocabolo greco che significa “di buona stirpe”. E in verità, Eugenia era una nobile signora, nubile. Non si volle sposare, forse perché, essendo un chimico, aveva troppo da fare per capire la legge che “sposa” l'idrogeno all'ossigeno “senza farli scoppiare”. Eugenia era alta e slanciata; incedeva con lenta sprezzatura, posando lo sguardo glaciale e penetrante sulla realtà circostante. Sorrideva, ma più spesso beffardamente, dall'alto della sua sapienza magica, mentre penetrava i recessi della materia con la forza acuminata e magnetica dei suoi occhi azzurri. Ma quegli stessi occhi sfavillavano d'amore quando, scomponendo la materia nei suoi elementi essenziali, intuivano gli atomi fino alle particelle subatomiche, fino al volteggiare invisibile degli elettroni nei loro orbitali. Lei stessa, in quei momenti, diventava un fascio di invisibile ma potente energia, beata della sua “materia”. - Quanto è pregnante e colmo di affetti questo vocabolo, che ha l'etimologia nel latino “mater” (madre), e che oggi è perlopiù sostituito dall'astratto e asettico “disciplina”! - La chimica, per Eugenia, era la scienza di esplorare la realtà prima: a questa scienza lei voleva sedurre i suoi studenti, per iniziarli alla conoscenza dei misteri della “natura delle cose”. 

C'è una terzina della Divina Commedia che racconta visibilmente l'ardore della conoscenza. In tre versi viviamo l'esperienza del pellegrino Dante quando, guidato da Virgilio, arriva sul ciglio della valle infernale brulicante delle fiamme dei fraudolenti, tra i quali incontrerà Ulisse: 

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù senz’esser urto. (Inferno, XXVI, vv. 43-45 )        
Il poeta si è levato su un ponte a guardare in fondo al burrone in maniera tale che, se non si fosse afferrato alla sporgenza di una roccia, sarebbe finito di sotto senza esservi spinto da nessuno. 

Così viene rappresentata l'emozione della curiosità di osservare quelle fiamme e di scoprirne il misterioso “furto”. C'è una sorprendente corrispondenza tra le fiamme disseminate nella valle infernale e il fuoco del desiderio che muove il pellegrino a sporgersi verso l’oggetto da conoscere, nonostante il pericolo di precipitare nel vuoto. Con questo stesso ardore Eugenia desiderava guidare gli studenti a capire la chimica. Aveva lei, inoltre, una inaspettata passione per certe parole della filosofia. Ogni tanto, infatti, sorridendo, chiedeva agli scolari se conoscessero il significato di “trascendente” e di “trascendentale”, forse perché sentiva che con la sua “materia” si poteva esplorare la materia dell'universo, fino ad intuire nei “semina rerum” (semi delle cose) il principio trascendente dell'antimateria. 

Se provo ad immaginarmi Eugenia nella scuola di oggi, la scorgo beffarda più che mai nei suoi occhi azzurri. Poserebbe quello sguardo sprezzante sui test e le griglie di valutazione. Passerebbe con distacco disgustato oltre tutte le pratiche e le ingerenze invasive di "esperti" di vario genere, i quali, oggi, mortificano la scuola e, a poco a poco, la distruggono. Riderebbe amaramente, Eugenia, di quei politici ignoranti e dei sindacati che hanno svenduto la scuola al mercato. 

Non posso fare a meno di pensare a Eugenia in questo tempo di crisi! 

Non la crisi mi angustia, ma l'assenza di discernimento che avverto intorno a me. Mi sembra paradossale il fatto che, mentre domina ovunque la parola chiave “progetto”, si proceda invece alla cieca, riducendo ogni cosa all'elencazione di cifre insignificanti collegate a sigle oscure. Ogni questione umana è ridotta ad un numero. Conti aridi che non tengono conto della umanità! Elenchi di sfaceli! Rivendicazioni numeriche! E slogan obsoleti e insensati! La “civitas” è disgregata, la solidarietà tirata di qua e di là come simbolo da sbandierare. La corruzione è messa in vetrina per audience. Persino le tragedie umane diventano un'occasione truculenta di teatro per i buoni e per i cattivi. 

Forse è tempo di tornare a “madre terra” e a considerare che è lei che “ci alimenta e ci sostiene coi suoi frutti, i fiori e l'erba”. È tempo di ricostruire un consesso umano di narrazioni naturali di esperienze; è tempo di baratto di cose buone in uno scambio libero dall'ossessione del profitto. 

Ed è tempo, finalmente, di tornare a considerare gli insegnanti come Maestri, come Virgilio e Beatrice, amanti - mediatori della conoscenza.