domenica 30 maggio 2010

Οἶδα - λόγος - μύω - μύθος...e il senso dello studio del Greco e del Latino

Οἶδα (oida) è un verbo greco. È il perfetto di un ricostruito presente *εἲδω (*eido). La radice indoeuropea di οἶδα è *wid che ha dato origine al campo lessicale del latino “video”, dal quale deriva quello del nostro “vedere”.
Quando al ginnasio studiai il verbo politematico ὁράω (orào)=vedo imparai che la forma οἶδα del perfetto vuol dire sia io “ho visto” che “io so”. Mentre scrivo vado riflettendo su quello che, a mio avviso, è il senso dello studio delle lingue del mondo classico. Come mi ha fatto notare una mia carissima amica, il Greco e il Latino non mi interessano per sfoggiare citazioni strabilianti per chi ascolta; anzi, allorché l'erudito di turno infiora il suo discorso di citazioni latine mi sembra di vedermi comparire d'innanzi il povero Renzo che mi sussurra
ma che vuole che ne faccia del suo Latinorum ?

No, non è per questo che ho studiato il Latino e il Greco io!
Del resto ho frequentato il liceo quando la scuola gentiliana difatti era ormai in crisi, nel tempo in cui la solida biblioteca, dove si era certi di apprendere il sapere universale, stava già andando in pezzi, cedendo il posto ad un insegnamento - apprendimento di frammenti più o meno luccicanti e preziosi.
Eppure il segno di quelle lingue è nel mio modo di essere, e di cercare. Οἶδα “io vedo e so”. E proprio qui è il nodo. Nel senso della radice *wid che, tra l'altro, dà anche origine alla parola “idea“ e a tutti i suoi derivati. Io “vedo e so” . È negli occhi il principio del sapere.
Perciò ho avuto come un sussulto quando ho letto della scoperta della funzione rilevante che assumono i neuroni specchio nei processi della conoscenza. Gli occhi come specchio. Specularità del mondo negli occhi ed empatia. È un modo di conoscere immediato. Il mondo circostante entra negli occhi e io lo riconosco in me. Poi comincia il tragico del destino umano: “esprimersi”, “emettere" questa conoscenza fulminea dello sguardo. C'è nella lingua greca un altro vocabolo, (più famoso questo nel suo duplice significato): λόγος (lògos) = “pensiero” e “parola”. Il destino tragico è in questo passaggio dalla luce fulminea di οἶδα “io vedo e so” al processo del λόγος = “pensiero” e “parola”, in latino ratio ed oratio, secondo la traduzione di Cicerone (De Oratore, I, 50). La ratio implica un ordine cosciente quasi un distillare della mente che deve tra-durre nell'oratio quanto è stato visto e conosciuto simultaneamente. Ora, secondo il senso che ha per me la conoscenza delle lingue classiche, mi affiora alla mente un altro vocabolo che significa “vedere”, μύω = “vedo con gli occhi chiusi”, dal quale deriva anche la parola “mistero” con tutto il suo campo lessicale. Da tempo mi chiedo se possa ricollegarsi a μύω anche μύθος (mythos) = mito, vocabolo di etimologia oscura. Μύθος è di significato affine a λόγος, ma il “pensiero” è quello “immaginativo – fantastico” e la parola è “favolosa”. Come se οἶδα “io vedo e so”, secondo il procedimento della specularità del mondo negli occhi, si traducesse in un immediato μύω = “vedo con gli occhi chiusi”, (io nel pensier mi fingo), e si facesse ποίησις (pòiesis) di μύθος (mythos).
Ecco, è questo il vedere nel sogno, il vedere del poeta , che secondo il mito è cieco nella luce del mondo delle apparenze, forse perché i suoi occhi sono stati accecati dalla luce della verità una volta che l'ha contemplata. Ma gli occhi che guardano nella notte sono occhi che hanno posseduto per un attimo il senso dell'universo.
Al poeta allora tocca vedere e conoscere nel buio il mistero che solo il mito sa raccontare.
Possa la mia flebile parola sussurrare un barlume di questo senso!

domenica 23 maggio 2010

Il volo è l'ala

Chi dirà del gabbiano ferito in volo
che atterra tramortito e stupido
agita le ali sul lido brulicante
di sorridente indifferenza?

O della farfalla prigioniera dell'entomologo,
con l'ala recisa tra i vetrini del microscopio?

Il volo è un volo se più non atterra.
Distacco eterno che più non progetta.

Il volo non sa le ali.
Il volo è l'ala stessa,
che altro non sa...
... se non il volo.

mercoledì 12 maggio 2010

Sant'Angelo in Formis

Il professore di storia dell'arte del liceo in cui ho studiato era un uomo buono. Amava la sua materia e si addolorava di avere così poco tempo per insegnarcela.

Un'ora settimanale appena!
ripeteva ogni volta che entrava in classe. In verità, a quel tempo, io e i miei miei compagni ce la ridevamo, perché il professore finiva col perdere, sempre, almeno un quarto di quell'unica ora, per lamentarsi della insensibilità degli Italiani verso l'arte.
Come vorrei dirgli che seppe rendere prezioso quel tempo per lui tanto esiguo!
Ora rivedo quel volto chiaro, l'alta fronte che sembrava non finire mai a causa della calvizie della parte anteriore del capo, al centro del quale spuntava, invece, folta ed ispida, una candida chioma a mo' di pennello. Per questo, quasi non ci si rammentava più del suo vero nome, lo si nominava il “professor Pennellone”. E, del resto, questo nomignolo, che lui fingeva di ignorare, al professore di Storia dell'arte stava proprio “a pennello”.
Alto e dinoccolato, indossava sempre lo stesso abito grigio, lindo quanto liso. Conosceva a menadito tutti i miti classici e quelli biblici, e gli piaceva raccontarceli, mentre ci insegnava a “saper vedere” le opere d'arte raffigurate sul nostro manuale, quello di Carlo Argan.
In una parte della mia memoria si è così conservata una galleria di immagini. Alcune, nel tempo, sono andata a cercarle nell'originale.
Ho viaggiato fino alla dorata Micene per attraversare la Porta dei Leoni! Mi sembrava di sentire ancora il rotolio dei carri e lo scalpitio dei cavalli dell'esercito di Agamennone in marcia verso Troia.
In una torrida estate ateniese ho scandito la sequenza dell'ordine dorico, abbacinata dalla luce splendente sul marmo pario del Partenone.
A Firenze, in un dolce settembre della mia giovinezza, nella cappella Brancacci della chiesa del Carmine, il "professor Pennellone" pareva raccontarmi la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre di Masaccio.

Caro professore! ti sono ancora riconoscente!

Ti devo anche il ricordo di una basilica benedettina, una chiesina, in realtà, un po' bizantina e un po' romanica, Sant'Angelo in Formis, nell'omonimo borgo, su un lieve pendio, non lontano da Capua.
Negli anni, più volte mi ci sono recata. Ma, fatalmente, ogni volta ho trovato l'ingresso sbarrato per motivi diversi. Finché, quando ci sono andata l'anno scorso, in una domenica d'agosto, finalmente, il cancello d'accesso all'abbazia era aperto. L'ho varcato, trattenendo il respiro.

Risuonano i miei passi sul basolato antico mentre attraverso una viuzza incassata tra antiche costruzioni tufacee raccordate da un arco.
Alzo la testa. Con gli occhi inseguo la verticale del sobrio e solido parallelepipedo dell'indipendente campanile che si leva alla mia destra ad annunciare la chiesa, che intravedo di sfuggita. Mi volto a sinistra. Il cuore comincia a sorridere. Davanti alla chiesa una piazzetta rettangolare, lastricata di pietruzze irregolari e bordata su due lati di cipressi svettanti nell'azzurro cinerino del cielo, mi accoglie in una dimensione sospesa. Volto le spalle alla chiesa senza guardarla e, lentamente, mi avvio in fondo alla minuscola piazza sopraelevata che termina in un muricciolo. Davanti a me si stende la piana di Capua. All'orizzonte gli occhi si immergono in una distesa celeste circonfusa, laddove, forse, è il mare che si fonde col cielo. Ecco, ora mi volto. Gli occhi scorrono la doppia fuga dei cipressi verso la chiesa e la inquadrano sullo sfondo, poi si riposano sul pronao ombroso e, rintracciando le ogive musicali dell'intercolumnio, si levano insù, sereni, fino al triangolo del timpano, che fa somigliare la basilica ad una capanna. Salgo i gradini davanti al pronao. Passo sotto il più elevato arco centrale ed entro nel tempio.
Il silenzio pacato della luce si tinge di azzurro e di rosa nella ieratica e ingenua immagine del Cristo Pantocratore affrescata nell'abside.
Il tempo del sacro si racconta continuo, dalle colonne e dal pavimento di epoca romana fino alle narrazioni bibliche bizantineggianti dipinte lungo le pareti in colori ridenti qua e là sbiaditi o cancellati dal tempo della storia. Non mi interesso dei particolari artistici.

Mi ritrovo assorta in una grandiosa semplicità.
I confini angusti del tempio e del tempo si dilatano nell'ombra luminosa.

Esco.
Riattraverso il pronao.
In fondo alla piazzetta incorniciata dai cipressi
si arrossa il celeste occidente.
Oltre la piana di Capua, tra un po',
il sole abbraccerà il mare.


sabato 1 maggio 2010

Elegia di una strega

Donna chi sei?
Una prigioniera degli angeli.
Donna perché piangi?
È la pioggia d'aprile.
Donna che c'è nel tuo cuore?
L'abisso dell'universo.
È il mio reame
la notte più buia
dove non hanno accesso biondi angeli
che minacciano purezza.
Scarmigliate streghe ne hanno il dominio
nere come la notte in cui volano
libere
e non paventano il rogo.
Finalmente Biancaneve non temo
né la bella addormentata Rosaspina.
Non busseranno alla mia casetta
Hansel e Gretel sciocchi!
Solo i ciechi e gli storpi
hanno accesso alla mia notte.
Nel buio eterno del silenzio
la voce delle streghe li consola.
Sublime melodia
che i cori angelici ignorano.