venerdì 17 ottobre 2014

Io e Il giovane favoloso

Forse perché l'ho amato fin da bambina il poeta della primavera, quando fui colpita dal notturno della sua sera del dì di festa e da quel "canto che s'udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco”; forse perché ho serbato la malinconia dell'adolescenza e le illusioni che la illuminarono; forse perché gli somiglio nella fragilità ossea che mi torturò fin dall'adolescenza, e mi piegò; forse perché sono dominata dalla luna come lui (entrambi siamo nati sotto il segno zodiacale del cancro), e come lui sento la parola scandire la natura dal profondo dell'anima; forse perché il mio giovane favoloso inventa toni chiari anche quando è il dolore ad ispirarlo; forse perché le sue illusioni non amano le tenebre, ma la luce; per tutto questo, forse, e per tanto altro taciuto, non sono stata coinvolta dal film di Mario Martone sulla vita e sulla poetica di Giacomo Leopardi.

Ho atteso l'uscita del film fin da quando, nell'autunno dell'anno scorso, ne fu annunciato l'inizio delle riprese e, magari, attratta dall'argomento, ho caricato di troppe aspettative quest'opera. In alcune recensioni si parla di uno stile cinematografico visionario, rispondente all'immaginazione leopardiana. 
Io, invece, l'ho trovato cupo, quasi barocco, e, pertanto, estraneo al mio poeta che, stigmatizzando le tortuosità e il patetismo dei romantici italiani, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, difese la classica semplicità, ovvero la celeste naturalezza degli antichi. Lo studio del cuore umano gravato da psicologismo irritava Leopardi, come lo irritava quella esaltazione della spontaneità della forma che finiva con l'assurgere ad una artificiale oscurità. Eppure il sentimento della natura, che si effuse in idilli dell'anima (e si ricordi che l'idillio fu una forma poetica del raffinato Ellenismo) è un tratto importante del Romanticismo leopardiano. Ma si tratta di un romanticismo metastorico, insito nello spirito dell'uomo. 
Questa semplicità profonda, quasi un miracolo della sintesi intuitiva di un genio indiscutibile, che Calvino additò come uno dei geni della leggerezza, si rinviene a stento nel film. Le scene indugiano negli interni. Ma anche negli esterni girati a Recanati incombono, perlopiù, i muri che recingono il giardino del palazzo del conte Monaldo, dalle cui finestre appare, schiacciata, quasi compressa al suolo dalle riprese, la semplice e serena intimità della piazzetta oggi denominata “del sabato del villaggio”.
 Qualche volta la macchina da presa punta sulla luna, ma non sa cogliere lo scintillio del firmamento, il cui aspetto tante “fole” suscitò al poeta (e perciò, forse, Anna Maria Ortese inventò l'espressione Il giovane favoloso), quando la notte sostava sui “veroni del paterno ostello" e ascoltava “il canto della rana rimota alla campagna”, mentre si levava “il vento recando il suon dell'ora, dalla torre del borgo”. Infondo, mi è sembrato che la lettura, senz'altro corretta, della vita e del pensiero di Leopardi da parte di Martone non sia riuscita a penetrare nell'anima del poeta né a coglierne l'ispirazione, ma sia stata esterna e troppo analitica. 
Anche lo studiatissimo realismo, con cui il protagonista imita i difetti corporei e l'andatura del giovane sfortunato più che favoloso, è privo di naturalezza, e scivola, talvolta, in una affettazione grottesca. Grottesca, e priva del fiabesco e della forza ironica che la caratterizzano, è anche la rappresentazione della Natura in dialogo con l'Islandese.
Quindi, per la mia sensibilità, sebbene accurato e colto, il film manca di una sintassi poetica, di un respiro unificante. È comunque da ammirare la tensione eroica sia del regista che del protagonista. Credo, infatti, che sia un' impresa quasi impossibile tradurre il linguaggio del “pensiero poetante” in quello cinematografico”. Meglio gli si adatterebbe una sinfonia. La musica, solo la musica, col suo fluire molteplice e inarrestabile, riuscirebbe a contenere, senza infrangerla, la semplice grandezza del messaggio leopardiano.

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