domenica 6 febbraio 2011

Ritorno alla femminilità


In questi giorni si grida che la donna è offesa dal potere e si chiamano le donne a manifestare in difesa della loro dignità.
Un moto di interiore rivolta mi scuote. È un sentimento dell' “essere donna” che non cede alle proteste degli slogan: fiammate di indotta indignazione non scalfiscono la protervia del potere e non ne commuovono la miseria.
Ci sono sentimenti dell' “essere” intolleranti di aggettivi ed argomenti. Come il sentirsi donna.

Il silenzio della compostezza e lo sguardo della verecondia sono essenza della femminilità.
La femminilità è ineffabile. Un tocco divino incurante dei canoni e delle stagioni.
Un mistero seducente.
La femminilità non si ostenta e non si difende. È raccolta e intangibile. È una grazia. Si manifesta e semina sgomento. La femminilità è anche maschile. È una fragilità forte che abbatte la tracotanza, “che abbassa orgoglio a cui dona salute”. La femminilità ignora la dignità perché non necessita d'altra virtù.

Come donna aborrisco la difesa della donna. È una condiscendenza che non tollero e che mi opprime quanto la turpitudine degli scellerati. La fragilità di Lucia vinse la violenza dell'Innominato.

Come cittadina coltivo l'indignazione per ogni atto di tracotanza compiuto ai danni di chiunque, e chiedo giustizia alle leggi della Polis.

Il potere la sa lunga. Blandisce la donna e ne fa una sua aiutante, solletica diabolicamente “l'emancipazione femminile” e la converte in “brama di potere”.
Commisero le donne “del” e “di” potere!
E mi intristiscono le amanti del glamour televisivo che si spendono in arringhe difensive della femminile dignità con spietatezza sfrontata verso altre donne.
Forse è questo il momento di ri-conoscersi in rivivificanti percorsi di autocoscienza femminile, per essere nel mondo animatrici di un vento nuovo, di una brezza rigeneratrice.

domenica 30 gennaio 2011

Pensieri erranti intorno alla Filologia


Avete mai sentito parlare di John Chadwick e di Michael Ventris? Sono due signori britannici che esercitarono il “mestiere” del filologo. Ventris in realtà era un architetto prestato alla Filologia con una gran passione per le civiltà protostoriche dell'Egeo nell'Età del Bronzo. Mi riferisco alle Civiltà Palaziali, note col nome di Civiltà Minoica o Cretese e Civiltà Micenea. La Civiltà Minoica fiorì a Creta nel secondo millennio avanti Cristo. Si chiama Civiltà Palaziale perché il centro politico, amministrativo e religioso era un palazzo dalla struttura complessa e razionale a un tempo. Gli esemplari dei Palazzi minoici si possono oggi visitare, a Creta, nei resti di Cnosso, Festo, Mallia e Haghia Triada. Quello di Cnosso è noto come Palazzo di Minosse ed anche come “Labirinto”. Il Labirinto di Cnosso evoca il mito dell'architetto Dedalo, del Minotauro e di Teseo e Arianna. Eppure il termine "Labirinto" ha come etimo il vocabolo greco "λάβρυς" (“labrys”) ovvero la bipenne, simbolo sacro ripetutamente disegnato sulle pareti del palazzo di Cnosso. Del resto, il termine "λαβύρινθος" (“labyrinthos”) si ritrova anche nelle tavolette in lineare B nella forma “da-pu-ri-to”. Come salta agli occhi dalla parola “da-pu-ri-to” traslitterata nel nostro alfabeto, la Lineare B è una scrittura sillabica che proprio John Chadwick e Michael Ventris decifrarono negli anni cinquanta del secolo scorso, scoprendo che essa celava un dialetto greco preomerico, ovvero la lingua degli Achei Micenei, e, quindi, dei mitici Atridi, dei quali, un secolo prima all'incirca, nelle rovine della peloponnesiaca Micene, Einrich Schliemann aveva scoperto le tombe e le auree maschere funebri.

La scrittura lineare B gli indeuropei Achei l'avevano appresa dai contatti con il mediterraneo popolo minoico. Infatti, negli archivi dei Palazzi minoici sono state rinvenute miriadi di tavolette d'argilla tracciate da una scrittura chiamata Lineare A, tuttora non decifrata, che cela una lingua sconosciuta.
Chadwick e Ventris riuscirono a decifrare la Lineare B ipotizzando che in essa si celasse un dialetto greco. Avevano ragione! E così, grazie a loro, la lingua omerica è stata illuminata storicamente sul piano lessicale e morfologico, rivelandosi come una straordinaria voce continua, eco mirabile che ha valicato i secoli bui del medioevo ellenico, come un ponte sonoro tra gli uomini di Agamennone e i cittadini delle Pòleis nascenti sulle coste dell'Asia Minore.

È bene a questo punto sapere che le tavolette in scrittura lineare contengono solamente elenchi di cose e persone e costituiscono, pertanto, una documentazione amministrativa dei Palazzi. Ribadisco che, grazie ai due filologi sopra nominati, noi siamo in grado di leggere soltanto i testi redatti in Lineare B, ossia quelli attribuibili agli scribi degli agguerriti palazzi micenei. L'alfabeto della scrittura Lineare B è sillabico. Un alfabeto sillabico è quello i cui segni non rimandano ad un suono semplice, ma ad un suono sillabico. Ciò comporta che, necessariamente, le scritture Lineari siano costituite da molti segni, una ottantina circa nel caso della Lineare B. Comprendiamo, quindi, quanto sia stata importante l'invenzione dell'agevole alfabeto di ventiquattro lettere che, intorno al nono secolo avanti Cristo, i Greci d'Asia mutuarono dai Fenici, perfezionandolo con l'aggiunta delle vocali. A questo alfabeto, appreso successivamente dai Romani grazie alla mediazione etrusca, risalgono tutte le scritture europee.

Mentre scrivo battendo sui tasti del computer mi stupisco di questo racconto che tenta di attraversare una traccia essenziale della millenaria storia della scrittura. Mi stupisco soprattutto del lavoro paziente dei filologi che dedicano la vita alla ricerca e allo studio dei testi. I filologi fanno risuonare la voce del passato. La decifrazione della Lineare B ci permette di dar vita a parole antichissime che, con lievi mutazioni fonetiche, sono attestate nei poemi omerici. Per esempio, nelle tavolette micenee di Cnosso e dei siti dei Palazzi del Peloponneso compare il termine “wa-na-ka” (è questa la traslitterazione della parola scritta in Lineare B attestata nelle tavolette). Wa-na-ka designa il personaggio al vertice della gerarchia direzionale della società micenea. È il re per eccellenza, superiore a colui che nei poemi di Omero è chiamato con il termine greco corrispondente “ἂναξ” (“anax”) [ricordiamo che Agamennone con una espressione formulare è detto “ἂναξ ἀνδρῶν” (“anax andròn”), “signore degli uomini], e allo stesso “βασιλεύς” (“basilèus”), il termine con il quale Omero designa il “re”.

Le mie annotazioni non possono essere esaustive sull'argomento della Filologia Micenea. In proposito i lettori, se lo vorranno, potranno documentarsi a partire dal fondamentale articolo intitolato "Evidence for Greek Dialect in the Mycenaean Archives" di John Chadwick e Michael Ventris.
Piuttosto, dopo aver svegliato la memoria del lavoro filologico dedicato alla scoperta di antiche civiltà, mi soffermo a considerare come la scrittura serbi i suoni nel tempo. La traccia convenzionale dei segni cela suoni e sensi. La Filologia è la scienza dei testi, è l'arte di interpretare con rigore, umiltà e amorevole cura i testi del passato per restituire il suono autentico delle parole. Il filologo si mette per i sentieri della storia a partire da quei segni che decifra e interpreta. Pertanto, mi sembra che la Filologia muova le onde sonore impresse nel tempo. La Flologia è una scienza del “sacro”. E, a tal proposito, ricordo il valore sacrale delle prime scritture e l'eccezionale importanza degli scribi nel mondo antico. E sacra mi pare la parola stessa: "Filologia", ovvero "amore della parola", equivalente ad amore dell'umanità. I pensieri erranti sfociano nella speranza che si torni in tanti a dedicarci a questa Scienza, diffondendone il desiderio tra le giovani generazioni.
Siano le sacre parole di una poetessa l'epigrafe conclusiva del mio testo!

Una Parola fatta Carne è di rado
E tremando condivisa
Né forse allora riportata
Ma non avrò dunque sbagliato
Ciascun di noi ha assaporato
Con estasi segreta
Proprio quel dibattuto cibo
Secondo nostra specifica forza -

Una Parola che respira chiaramente
Non ha potere di morire
Coesiva quanto lo Spirito
Può spirare se Egli -
"Fatto Carne e vissuto tra di noi"
Fosse condiscendenza
Come questo consenso del Linguaggio
Quest'amata Filologia
(Emily Dickinson,Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, p. 1666)

martedì 28 dicembre 2010

Aspettiamo l'Epifania... sferruzzando...trame di memorie e speranze


Ma siamo proprio sicuri che il mondo della scuola sia scontento della riforma Gelmini e dei tagli tremontiani?
Appena un anno fa mi trovai a scioperare ripetutamente contro il riordino (disordino?) dei curricoli liceali. In una manifestazione decembrina a Roma, insieme a qualche centinaio di “disperati” come me, sfilai in un malinconico corteo fino a Piazza del Popolo. La piazza era inondata dal sole. Io mi ci aggiravo in solitudine, ed anche un tantino soprappensiero, perché tutto quel cammino non aveva giovato alle mie gambe malconce. I megafoni amplificavano l'oratoria del comizio dai soliti toni accorati. Le parole risuonavano fasulle. Mi guardavo intorno: visi distratti; sparuti capannelli di chiacchiere. Mi doleva la gamba sinistra. Decisi di tornarmene alla stazione. Non avevo voglia di sprofondare nella metro. Mi inoltrai in via del Babbuino. Accanto a me una signora bionda camminava a passo svelto. Le chiesi la strada più breve per Termini. “Facciamo la strada insieme!”, mi disse sorridendo. Le tenni dietro cercando di non zoppicare. La sofferenza fu ripagata dallo scambio di umanità tra due donne libere e presenti a se stesse, con la passione comune per l'insegnamento. Ci lasciammo a piazza Esedra con la reciproca promessa di rimanere “interconnesse”. La signora si chiama Giovanna e ora è una delle mie amiche di facebook. Con quella manifestazione si è chiusa un'epoca per la scuola e, secondo me, anche per i modi di esprimere il dissenso. Da allora ho preso atto che si deve ripartire da un altrove.
Molti docenti, forse troppi, ma anche tanti intellettuali, professionisti laureati, non hanno coniugato avanzamento sociale, grazie al titolo di studio, con profonda cultura umana e civile. È per questo, credo, che la maggior parte è rimasta inerte davanti ai colpi inferti alla scuola dalla Riforma Gelmini - Tremonti, in particolare alle discipline umanistiche. Lì per lì mi ci sono arrabbiata. Mi sono aggirata infuriata tra i colleghi. Ho votato, nei collegi dei docenti, contro i progetti presentati, perché, a mio avviso, sono elaborati in funzione della distribuzione dei fondi e non per l'educazione e la formazione dei giovani studenti. Il risultato? Una grande solitudine! Ma mi ripaga il fatto che nella rete ho trovato tantissimi compagni di pensiero in cammino. E mi appaga la consapevolezza di essere una donna che non ha mai trascurato l'attività manuale.
Mi sembra meraviglioso "curare" a un tempo la mente e la mano e il cuore.
In questi giorni faccio la calza. Che stupore! Due ferri, un filo e l'agilità di due mani! Ma non basta! È attiva la mente immaginativa scaldata dalla gioia del cuore, mentre il filo prodigiosamente diviene trama e prende forma. E intanto volano i fili del pensiero guidati dal cuore. Ripercorrono trame perdute. Infilano maglie della memoria al ritmo del ticchettio dei ferri che dipanano e tessono il gomitolo.
In questo tempo della memoria è ancora la maestra Ada che guida la trama. Lei, la narratrice di storie, per prima mi insegnò a tessere il filo e a ricamare la trama. Le mattinate del sabato, infatti, le aule diventavano laboratori. Tutte le maestre si prodigavano nell'insegnare alle scolare e agli scolari l'arte meravigliosa della mano. Sapevano certo che il lavoro manuale si accompagna a quello intellettuale, per la pura gioia dell'essere umano e per il bene comune. Inconsapevolmente allora appresi che la dignità dell'uomo è nella sua unità e nel rispetto per tutto quanto lo fa uomo.
-“Faccio la calza, dunque sono”-
mi viene di correggere. Perché, mentre ammaglio il filo colorato, si svolgono i fili del pensiero e si dipanano le storie. È il tempo di ricomporre quel mortificante dualismo. È questo il momento di capire che l'educazione dell'uomo deve essere integrata e complessa. Non si tratta di ricomporre soltanto la dicotomia fra cultura umanistica e cultura scientifica, (e contro questa sacrosanta ricomposizione è stata varata la Riforma Gelmini dei curricoli scolastici), ma di eliminare la differenza di valore che attribuiamo al lavoro, e, ancor prima di rimeditare sull'idea stessa di cultura e di sapere.
Per evitare il declino e la regressione alla barbarie, la nostra società deve chiedere, per tutti, più conoscenza in ogni ambito disciplinare, più attività culturale in ogni campo dell'arte umana. Dico “attività” perché tanto l'esercizio quanto la fruizione dell'arte contribuiscono “attivamente” alla crescita di individui buoni, potenzialmente buoni cittadini che non disgiungeranno l'interesse personale da quello della comunità. La fruizione e l'esercizio delle “arti belle” sono indispensabili all'educazione umana. L'ispirazione è un dono divino, l'entusiasmo stesso della vita. Posso avere ville, soldi, forzieri pieni di preziosi, potere e titoli laureati, ma se non ho l'entusiasmo, vita ben misera è la mia!
Credo che gli educatori debbano sentire potentemente l'entusiasmo, ed essere testimoni della cultura integrata della mente e della mano. L'estensione dell'accesso alla scuola avvenuta soprattutto negli anni sessanta è un valore di cui dobbiamo andar fieri. Grazie a quelle riforme tanti figli del proletariato hanno compiuto il passaggio di classe. Indietro non si può e non si deve tornare. Oggi ci tocca fare dei passi in avanti. Ognuno di noi deve impegnarsi in un progetto in cui la cultura assuma il massimo valore, l'unico condivisibile: la crescita integrata di corpo mente e cuore, affinché si realizzi l'obiettivo della giustizia ed del ben-essere di tutti gli uomini.
Perciò è indispensabile volere ad ogni costo una scuola pubblica di altissimo livello. Non possiamo avallare un progetto politico che favorisca scuole private d'élite per la classe dei dominatori dai colletti bianchi e immiserisca quelle pubbliche destinandole ad una massa di lavoratori forzati.
Non assecondiamo il progetto della scuola azienda in cui i “clienti” vengono addestrati secondo la domanda del mercato! Studiamo, immaginiamo e lavoriamo per una scuola che educhi uomini colti e liberi, elevati di mente e di cuore, che siano padroni di sé e che non disprezzino nessun lavoro, per non disprezzare mai né se stessi, né i propri simili!
Uomini siffatti coltiveranno nel cuore il seme della giustizia e della pace e ameranno sempre la libertà.

Continuo a sferruzzare soddisfatta.
La memoria svolge altri fili. Altri volti di un tempo lontano fanno capolino. Ancora, da quelle aule felici dell'infanzia, mi sorride il maestro Barbagli, seduto al pianoforte, mentre ci dirige nel canto, dopo averci insegnato “Adeste, fideles, laeti triumphantes...”.
Piroetta aggraziata la maestra Ambra Gragnoli, che ci guidava nei saggi di ginnastica artistica e nell'azione scenica.
E intanto, eccola lì la mia maestra di “trame”!
Ada Cappelli mi sta leggendo una storia e... a un tratto, abbassato il libro, mi strizza l'occhio, compiaciuta del mio lavoro a maglia.

domenica 26 dicembre 2010

Il bucaneve e i neuroni specchio

Avete mai giocato a “se fosse un fiore?”
Si pensa per metafora, raccogliendo in un figlio dei prati e dei giardini, dai più semplici ai più sofisticati, le qualità di un essere umano. Ci giocavo insieme ai compagni della giovinezza. Me, mi rappresentavano nella violetta. Il bello è che la mammola è il mio fiore preferito. Da bambina inventai un dialogo tra questo fiore e un ruscello sugli argini del quale era spuntato.
Occhieggia timida la mammola molto prima del tripudio di primavera.
È piccina e ride col suo cuoricino di sole tra il verde scuro delle foglie a cuore.
In un marzo lontano, tirai per la mano il mio grande e teneramente austero papà, perché mi accompagnasse giù per la scarpata fino alle umide sponde dell'Ombrone, in cerca di violette.
Negli amati scenari delle mie fiabe avevo appreso che lungo i corsi d'acqua spuntano in abbondanza le violette.
Non me lo disse mai, ma di certo papà fu ripagato dal mio esultante battimani, quando scorsi la prima mammola. Quel giorno me ne tornai a casa presa dall'incanto del mazzolino che avevo composto.

La mia infanzia è un prato fiorito. I ricordi di quel tempo sono forme delicate di colori profumati. Si raccolgono nelle storie della maestra. Ada Cappelli confidava nei racconti gentili, anche quando ci invitava ad eseguire il dettato o a compitare per l'ortografia. Esercizi mai disgiunti dal potente immaginare. È per questo, forse, che quei tempi sono “idilli”, paesaggi dell'anima, sfumati ma tanto potenti nel sorreggere le speranze ancora oggi, in questo tempo che confina col gelido e muto inverno.

Mi ricordo proprio ora della storia del “bucaneve” . Sebbene non lo abbia mai visto nella realtà, ne vagheggio, sorridente, il calice candido che sbocciò sulla candida coltre affinché Maria lo riempisse dell'acqua del disgelo per dissetare Gesù.

In seguito alle ricerche sul cervello del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, sono stati individuati dei neuroni speciali, i “neuroni specchio”, responsabili della nostra capacità di empatia (Rizzolatti-Sinigallia, So quel che fai, Raffaello Cortina). È stato osservato, grazie alla tecnica del Brain imaging, che questi neuroni si attivano non solo quando viviamo un'emozione o compiamo un'azione, ma anche quando vediamo un altro “emozionarsi”, “sentire” o “fare” qualcosa. Nella “natura” animata sono iscritte, pertanto, la predisposizione a vedere e sentire l'altro e la inclinazione a “conoscere” mentre siamo in relazione con gli altri. Ma la natura va coltivata, dentro e fuori di noi. Ciascuno di noi è responsabile dell'altro, quindi. E con “l'altro” non si intende unicamente un essere umano. La sensibilità, come un fiore, chiede cura per sbocciare e ingentilirsi per ingentilire. Ovunque si posi, il nostro sguardo suscita una reazione influenzata dalla nostra disposizione. È inutile attribuire tutta ad altri la responsabilità della volgarità che ci circonda. “So quel che fai”, sembra che ci dicano tutte le “cose” intorno a noi. E ce lo dicono soprattutto i giovani. La maestra Ada Cappelli, in quel tempo ormai lontano, non poteva sapere dei “neuroni specchio”, ma, naturalmente, sapeva che “portare i bambini in giardino” era il modo migliore per educarli alla gentilezza. Era un giardino di storie, come quella del bucaneve, che annuncia il disgelo e il fiorire delle violette. Quando ripenso a quel tempo, mi sembra incantato in una magica armonia. Sobrietà, fermezza e gentilezza adornavano il fare e il dire di quei consapevoli educatori. E i giovani vivevano quella sapienza! Ecco, è questo l'auspicio: che possiamo divenire consapevoli che la natura, dentro e fuori di noi, richiede “cura”, ovvero “cultura”!
Che spuntino sulle lande gelate i bucaneve ad annunciare il disgelo!

“Per fare tutto ci vuole un fiore!”

mercoledì 8 dicembre 2010

Il tempo ritorna, ma niente è mai come prima!

Il tempo della natura ritorna. È una spirale in cui si svolge la “fabula" umana. Dalla nascita alla morte di un singolo, dall'inizio alla fine di un'epoca, dal fiorire al decadere di una civiltà. Il filo della spirale è fitto di intrecci di innumerevoli fili della Storia e delle storie.

Sarà presto ancora una volta Natale e la nascita di un Fanciullo coinciderà col chiudersi di un ciclo annuo. Quasi a segnare la continuità del filo, l'inizio nella fine. Continuità e contiguità. Ma non uguaglianza. Continuità, contiguità e metamorfosi all'unisono. Metamorfosi nel nascere ancora.
Natale nell'inverno. Quando il freddo gela la terra, che si è spogliata della sua veste di fiori e foglie, è Natale. È un germoglio che sorride mentre la terra si raccoglie nel silenzio sotto la neve. È un fiorellino in boccio che sfida il gelo dei cuori.

È Natale nelle città tumultuose, Grotte luminescenti e rumorose. Sulle vie asfaltate o lastricate di antichi basoli passa l'umanità! Tra lo svaporare umido dei fanali il riverbero dei colori assorbe gli odori della folla che sciama ansiosa.
Sarebbe un desiderio oleografico desiderare Natale in una grotta suggestiva, in mezzo ai pastori di una Arcadia perduta.
Natale è qui, tra “le case aggiunte a case”, per “le strade che sboccano nelle strade” dei paesoni e delle metropoli. Nel frastuono c'è il silenzio e la compassione!
Non si può fuggire in un altrove artificiale. L' altrove è nella metamorfosi segnata dalla nascita, tra l'anno che si conclue e quello che incomincia.

Stamattina ho mangiato la marmellata preparata per me da un'amica conosciuta quest'anno grazie alla comunicazione nella Rete. Una marmellata speciale che lei ha chiamato “Testata d'angolo”. È una vera composta di frutti vari, quelli sciupati che, nella nostra dissennata opulenza, scartiamo e destiniamo all'immondezzaio. È una marmellata deliziosa. Ne mangerò ogni giorno fino a Natale. È anche una marmellata simbolo dei frutti raccolti in quest'anno che volge al termine. Tra i più buoni c'è l'amica che mi ha donato la marmellata.

Opportuno ritorna il tempo degli auguri con gli auspici della metamorfosi.
Perciò trascrivo di seguito una nota che scrissi all'inizio dello scorso anno. Sono parole che sperano frutti amicali, di cui ho gustato lietamente nel corso di quest'anno.

Sì il tempo ritorna, ma niente è mai come prima! È sempre meglio di prima, se lo desideriamo di cuore!

I racconti salveranno il mondo

Quando ero adolescente scrivevo il diario. Mi piaceva raccogliermi nel silenzio per rievocare le vicende del giorno trascorso, ripercorrendo gli stati d'animo che avevo attraversato. Inconsapevolmente coltivavo l'abitudine all'introspezione e all'attenzione per la realtà nella quale ero immersa. Mi soffermavo sui volti che avevo scrutato, ascoltato, ai quali avevo concesso o negato il sorriso, catturata dalle emozioni degli incontri. Le pagine si infittivano di parole che davano corpo al vissuto e alle attese. Mi piaceva cercare le parole più adatte. In quella ricerca mi tendevo nello sforzo di capire me stessa e il mondo circostante.
Il ricordo di quella mia abitudine adolescenziale è stato destato da un'intervista radiofonica a Duccio Demetrio, che da molto tempo si occupa di scrittura biografica ed autobiografica (cfr. Duccio Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina 1996).
Docente presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, Duccio Demetrio, nel 1998, insieme a Saverio Tutino, l'inventore dell'Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, ha anche fondato La Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari, non lontano dalla mistico “crudo sasso” della Verna.
Durante l'intervista che ho ascoltato lo studioso, avvalendosi delle meditazioni che hanno prodotto la sua ultima opera (Duccio Demetrio, Ascetismo metropolitano, Ponte alla grazie 2009), rispondeva a domande sulla possibilità di una “Ascesi Metropolitana”, ossia di un esercizio di attenzione alla realtà, nelle moderne città paragonabili a un “deserto sovraffollato”.
L'argomento mi è sembrato carico di buoni auspici per il futuro. Ho pensato così di scrivere le suggestioni che me ne sono venute.

È incominciato il nuovo anno. È un anno di confine tra un decennio ed un altro. Potrebbe recare in sé i fermenti di un'era nuova, nella quale gli uomini cessino di essere quelli “della fionda e della pietra”, quelli del tempo in cui “il fratello disse all'altro fratello: "andiamo".

Forse un indizio di questo TEMPO NUOVO è leggibile nel desiderio di comunicare di cui la “rete” è testimonianza. La stessa circolazione delle informazioni e l'infinita possibilità dei contatti sottrarranno a qualsiasi potere la libertà e affideranno il destino umano alle scelte consapevoli degli individui.
Finalmente il progresso della ragione potrebbe non essere separato dall'ingentilirsi del cuore. Nascerà una nuova stirpe. Ogni attività dell'ingegno umano si asterrà, pia, da qualsiasi azione violenta sulla natura e si dedicherà a rendere vivibile la vita dei fratelli.

Allora non più “alle fronde dei salici, per voto”, saranno “appese” le “cetre” dei poeti.
NUOVI INNUMEREVOLI CANTASTORIE allieteranno le nostre città, modulando i racconti di una nuova civiltà. Nuovi rapsodi “cuciranno” le storie in un poema epico senza fine e confini.

OGNI UOMO sarà artefice di questo “nuovo tempo”, se diventerà un GENTILE CANTASTORIE, esplorando il suo cuore con l'apprendere a conoscere o a riconoscere se stesso e a RACCONTARE, innanzitutto a se stesso, la sua storia. Di questo BISOGNO DI NARRAZIONE è necessario divenire consapevoli.

Ma la parola che esprime una storia incarnata nasce dal silenzio di un' “ASCESI”.
“Ascèsi” deriva dal verbo greco “askéō” “io esercito”. L' “ascesi” è corporeo esercizio di quell'attenzione che aspira a comprendere l'altro, lo sconosciuto, lo straniero che ognuno reca in se stesso.
Il desiderio di raccontarsi coincide con il bisogno di conoscersi nel raccoglimento di un'osservazione attenta e pietosa, amorevole ma veritiera.
Coloro che sanno raccontarsi sono in grado di comporre un microcosmo in una storia, rivivendo, nella loro arte, l'infinita gamma dei sentimenti umani. Diventando narratori di se stessi si diventa anche narratori delle vite degli altri, perché la narrazione autentica sgorga dalla COMPASSIONE.

Il silenzio in “ascesi” è esercizio di “compassione”. La “compassione” è un sentimento elevato. È il tratto essenziale dell'essere umano. In fondo ad ogni arte degli uomini esiste la “compassione”, ossia quella capacità di essere in sintonia con la complessità dell'io che riconosce in sé la complessità del mondo, e lo comprende.
La “compassione” tende la mano all'altro, e non esclude nessuno.

La “compassione” fu il soffio ispiratore di uno straordinario esploratore del cuore umano, F. Dostoevskij. E da lui raccolgo e trasmetto l'invito conclusivo. Faccio mie le parole pronunciate dal mite Alesa, il più giovane dei fratelli Karamàzov, nell'epilogo del romanzo :
“ecco, andiamo tenendoci per mano...”.

martedì 2 novembre 2010

“Mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui”


“Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro”.

Con questa immagine Machiavelli, scrivendo all'amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513, conclude il racconto di una sua giornata in esilio nel podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, una località tra Firenze e San Casciano in Val di Pesa. Quando ero una studentessa del liceo fui colpita dalla potenza espressiva di questo passo, che Mario Selleri, il maestro che, in quei fertili anni, mi guidò sui sentieri della poesia, lesse e commentò con voce vibrante ed occhi lucidi. Nel passo, Niccolò si eleva e si trasforma. Incede nella sua biblioteca al ritmo solenne di una sintassi che asseconda l'impeto del cuore. È statuario e sacro mentre indossa “panni reali e curiali”. Si staglia austero e umanissimo in quel bisogno d'amore che gli “antiqui uomini” gli offrono insieme al cibo della parola, la quale nutre l'uomo di memoria vivente e ne fa una “mediazione vivente”. Chissà se ancora oggi siamo capaci di un simile slancio! No, non uno slancio verso l'alto nell'illusione di un'improbabile estasi. Ma un lungo sentiero che scivola al centro di se stessi, laddove rivive la parola della memoria della pura umanità. Lì è stratificata la voce dell'uomo che risuona di eterna verità. È l'ἀλήθεια non svelata, celata, ma visibile nell'attimo di una riscoperta. È il momento del dialogo che nell'intimo si stabilisce tra l' uomo e la memoria vivente nella parola scritta, mediante un testo vivente.

Nel passo che ho trascritto leggiamo la metafora del libro vivente che reca incise le lettere di fuoco di millenarie ricerche. È la memoria che si fa cibo nutriente dell'uomo affamato di verità.

Più che mai, oggi, sentiamo il bisogno di “pascerci” delle parole “delli antiqui uomini” che risvegliano la nostra umanità!

In dialogo coi “grandi cercatori” forse anche noi potremo dire: “sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte”.






martedì 5 ottobre 2010

Il bacio dell'uomo libero

Ci sono nella letteratura pagine brucianti di verità. In esse ogni parola è materia prima, fuoco ardente che rapisce e illumina i nodi essenziali della storia umana. Una di queste pagine è “La leggenda del Grande Inquisitore”, costruzione drammatica di un dialogo tra due fratelli, Ivàn, tormentato cercatore, ardente della sua logica di ghiaccio, e Alëša, mite viandante dal cuore puro, che, sospendendo ogni giudizio sull'umanità, procede sereno e lieve per le strade della vita. “La leggenda del Grande Inquisitore” è un racconto drammatico incastonato come una gemma nel romanzo I Fratelli Karamazov, sintesi poetica dell'immenso Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Ho usato l'aggettivo “drammatico” perché il racconto è costruito da Ivàn sulla scena del dialogo con Alëša. La storia è quindi metanarrativa e contiene drammaticamente il pensiero dell'autore in un denso e complesso intreccio di piani del racconto. Tempi e spazi dell'immaginazione e della realtà si intersecano, in un gioco di specchi che moltiplicano i punti di vista, disorientando il lettore costretto a salire sul palcoscenico del dramma. Dostoevskij affida ad Ivàn le domande sul destino della vita umana e sull'ordine del mondo. Ivan prova orrore per il disordine e il male. Intelligente, colto, brillante, egli è oppresso dalla vergogna del padre, Fëdor Pàvlovič, vizioso impenitente, e dei fratelli Dmìtrij e Smerdjàkov, istintivo e violento il primo, sordido frutto di un vile stupro il secondo. Dal profondo del cuore il disgusto e l'astio opprimono Ivàn. Da questo disgusto nasce in lui l'idea che con il potere di una superiore ragione si possa stabilire un ordine in nome del quale ad un uomo “tutto è lecito”. Perciò Ivàn si vota interamente alla ragione e giunge a formulare ambiziosi teoremi, la cui logica ferrea si rivela in definitiva come una gabbia intollerabile per la coscienza.
Come può ergersi nella grandezza l'uomo? Come può eliminare il male e il dolore dal mondo? Sfidando Dio. Arrogandosi il potere determinante la vita stessa degli esseri umani. C'è in Ivàn questo desiderio di far tornare a tutti i costi i conti della vita. Egli immagina l' “onnipotenza” dei grandi uomini ai quali “tutto è lecito” e la incarna in un fantastico Grande Inquisitore. È così che Ivàn dà corpo alla sua idea e inventa una storia che racconta ad Alëša.
Ecco in breve la trama.
Nel sedicesimo secolo, a Siviglia, nel corso di un autodafé in cui “ bruciavano gli eretici” per volere del cardinale “grande inquisitore”, il Re Celeste “nella sua immensa misericordia torna nuovamente tra gli uomini in quella sua forma umana in cui quindici secoli prima era vissuto tra gli uomini per trentatré anni”. La folla che assiste ai roghi spietati voluti dall'inquisizione Lo riconosce immediatamente e riprende a sperare. L'amore si risveglia nei cuori stracchi e spenti. La forza dell'amore agisce anche manifestamente nel ritorno alla vita di una bimba giacente in un bara sommersa di fiori. Il Grande Inquisitore scorge Cristo e subito è colto e impietrito dal terrore. Lui è tornato. La presenza di Cristo può rinnovare negli animi degli uomini il desiderio di quella libertà in nome della quale Egli offrì la sua vita. Il vecchio cardinale sente che il suo potere è in pericolo. Immediatamente ordina l'arresto di Cristo. Lo visita in carcere. Gli rivolge domande incalzanti. Perché è tornato? Perché vuole turbare la pace faticosamente stabilita dagli uomini grandi e potenti sugli uomini bambini che hanno paura di essere liberi? Gli uomini hanno terrore della libertà. Liberi, si aggirano sulla terra oppressi dalla fame, dal mistero della morte, dalla fatica della coscienza che li pone davanti alle scelte più angustianti nel consesso dei simili. Il potere del Grande inquisitore ha fondato la pace accogliendo in sé la forza onnipotente “dello spirito penetrante” che nel deserto pose a Cristo le tre domande che racchiudono tutta la storia dell'umanità. È la storia drammatica dei bisogni materiali, della paura del dolore e della morte, della necessità di prostrarsi innanzi ad una autorità suprema. Accogliendo quelle tre domande, ovvero mutando le pietre in pane, buttandosi giù dal tempio, accettando il potere nel prostrarsi al potere, Cristo sarebbe stato davvero seguito docilmente dagli uomini. Ma Lui era venuto a sovvertire l'ordine, a sconfiggere ogni paura, a testimoniare la libertà della coscienza rispetto ad ogni potere. Perciò Il Grande Inquisitore inveisce contro il prigioniero silenzioso, e lo accusa con parole tremende: “Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l'hai ulteriormente accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e persino la morte è più cara all'uomo della libera scelta tra il bene e il male? Non esiste nulla di più seducente per l'uomo della libertà di coscienza, ma nulla è altrettanto straziante”. Ed ora Cristo è tornato a turbare l' ordine faticosamente stabilito, quell'ordine che garantisce per sempre la separazione del bene dal male. Che importa se a quest'ordine gli uomini sacrificano la libertà? La schiavitù è garanzia della felicità!
È da brivido il grandeggiare dell'inquisitore che si erge a vittima onnipotente per garantire la felicità degli uomini schiavi. La lettura ci fa vibrare per l'altezza tragica del discorso del vecchio inquisitore, esangue nel volto, estenuato dal fuoco del suo pensiero e della sua orazione. E il lettore è scosso dal dramma universale inscenato dalla fantasia febbricitante di Ivàn.
Si rivede, il lettore, ora in quell'oscuro “potere” che smania di onnipotenza, ora nella fragilità degli uomini “deboli che sono solo dei poveri bambini”. Ma vibra di orrore e pietà per se stesso, il lettore, ascoltando le parole rivolte a Gesù dal Grande Inquisitore: “Oh noi consentiremo loro anche il peccato, certo, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso con il nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo, e che, quanto al castigo per tali peccati, lo assumeremo noi sulle nostre spalle. Così faremo ed essi ci adoreranno come benefattori che si sono fatti carico dei loro peccati dinanzi a Dio. … Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi guarderanno alla nostra decisione con una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dover decidere liberamente e in prima persona... Essi moriranno in pace, in pace si spegneranno nel Tuo nome e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto e per la loro stessa felicità li culleremo nell'illusione di una ricompensa celeste ed eterna”.

Come non sentire un moto di ribellione a tanta iattanza? Come non rabbrividire nel gelo di una ragione tiranna che disegna un mondo senza disubbidienza, popolato di bambini irresponsabili e schiavi soddisfatti di miseri trastulli? Come non sentire il segno della sacra responsabilità di ciascuno di noi nella libertà sacra che ci fa uomini?
E poi, d'un tratto, il nostro orrore si tramuta in compassione. IL grande inquisitore ha paura del suo silenzioso prigioniero. Teme che gli uomini possano svegliarsi dal loro infantile letargo. E conclude perentoriamente il suo discorso dicendo : “Domani ti farò bruciare: Dixi”.
Ma a questo punto mutano i nostri sentimenti. Anche noi, come Alëša,. avvertiamo che il discorso di
Ivàn non è una condanna, ma “un elogio di Cristo” e, aggiungo io, della nostra libertà.

E come non essere toccati dal duplice epilogo di questa emblematica sacra rappresentazione! Alle domande incalzanti del vecchio Inquisitore Cristo non risponde parola, ma gli si accosta e “lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui”.
Ho esordito accennando che Il Grande Inquisitore è un racconto in divenire sulla scena di un dialogo. Un racconto nel racconto costruito come un gioco di specchi. Specularmente, infatti, anche Alëša bacia Ivàn.
Il duplice bacio è un suggello d'amore a placare il tormento delle domande smaniose di un cuore senza pace.

Quando ripenso a quest'opera mi invade un senso di gratitudine e la voglia di diffonderne la lettura come un dono inesauribile per l'umanità. Quanti commenti ne sono stati fatti! Critici e filosofi ne hanno dato miriadi di interpretazioni. Io non volevo aggiungere commenti, né mi azzardo a dimostrazioni attualizzanti. Avrei voluto far balenare un assaggio della mia commozione. Scrivere lo scuotimento che la scena provoca. Voleva questo il grande Fëdor Michajlovič: strattonarci fino in fondo all'anima pietrificata dal ghiaccio di Ivàn. Misero Ivàn! Nella folle smania di onnipotenza, reprime la sua fragilità bambina e seppellisce nel ghiaccio del ragionamento la compassione e l'amore. Asserendo che “tutto è lecito”, e meditando freddamente il parricidio, egli manipolerà la coscienza del misero Smerdjàkov e farà di lui un assassino e un suicida.

Ma, specularmente al Cristo innanzi al Grande Inquisitore, davanti a Ivàn c'è Alëša. Come il vecchio cardinale, anche Ivàn sente ardere nel cuore il bacio ricevuto. La smania di onnipotenza per un po' si incrina. Il ghiaccio del cuore sembra disfarsi. La Leggenda termina col Grande Inquisitore che, come tramortito, lascia andare il suo Prigioniero “per le oscure vie della città”. Finito il drammatico racconto, anche Ivan si separa da Alëša prendendo una strada opposta a quella di lui. Ma nel salutare Alëša, Ivàn, con voce implorante, dichiara il suo bisogno di amore: “A me basta che tu sia qui, in qualche luogo, per non perdere la mia voglia di vivere”.