giovedì 26 maggio 2016

Critica, filologia, ermeneutica


Nel tempo della comunicazione complessa e dell’esplosione del mercato editoriale si impone la riflessione sulla tipologia degli strumenti di cui bisogna dotarsi per accostarsi  con libero pensiero ai testi scritti. La palestra della lettura interpretativa dovrebbe avere, a mio avviso, nella scuola la sua sede privilegiata. E del resto fin dagli anni settanta, quando si è diffuso lo Strutturalismo, la centralità del testo  si è imposta prepotentemente, anche se le tecniche di analisi hanno finito col soverchiarlo generando, talvolta, il suo annichilimento. Tuttavia, questa fase storica ha avuto il merito di aver mandato in secondo piano quell'approccio mediato eccessivamente dalla critica letteraria, altrettanto soverchiante perché orientava o, se si vuole, disorientava il lettore. Si ricordino, in proposito, le stroncature di Benedetto Croce alla Divina Commedia, in particolare al Paradiso. Secondo il filosofo, infatti, l’opera dantesca non sarebbe sempre poesia perché, a suo giudizio, la “intuizione lirica”sarebbe inficiata dal pensiero razionale. Di parere opposto fu Giovanni Getto che, parlando della Commedia, coniò l’espressione “poesia dell’intelligenza”.
Ci si chiede qui, dunque, quale sia il modo migliore per accostarsi ad un testo, nello specifico a quello letterario, soprattutto da parte dei giovani studenti. Va da sé che la lettura di prima mano è importantissima. E naturalmente ci si aspetta che qualcuno ribatta che una lettura complessa non possa essere gustata senza una mediazione che faccia da guida. In merito, sarebbe auspicabile che il maestro, almeno adeguatamente sapiente ed esperto, fungesse da guida, a partire da una lettura ad alta voce in grado di restituire vita alla parola silente, rendendo presente l’altro, l’autore, con il quale così si incomincia ad interloquire, ponendogli le domande che egli ci sollecita. Tale  "presunzione", nel senso positivo di “prendere prima”, dovrebbe poggiare su una scienza artistica da riportare in auge e da insegnare il più diffusamente possibile. Quest’arte è la filologia, cioè la scienza del testo.
 La filologia, infatti, è sorta proprio con l’intento di salvare il testo scritto dalle corruzioni di trascrizioni errate e di glosse o interpretazioni fuorvianti, laddove il copista o il glossatore pensavano di migliorare o, addirittura, di correggere l’autografo. È rilevante il fatto che nella tradizione manoscritta quanto più il copista era colto, tanto più il rischio per la corruzione del testo era alto. Il compito del filologo, quindi, è quello di lavorare ad edizioni critiche per quanto possibile vicinissime al testo originale. 
Dunque, i testi proposti alla lettura dovrebbero essere accompagnati da note scarne ed essenziali circa i livelli morfosintattici e lessicali, senza essere sovraccaricati da commenti verbosi o, peggio ancora, da pezzi di critica letteraria ideologizzati e ideologizzanti. Tutt'al più, in un secondo momento, l’attenzione oggettiva, cioè filologica, al testo potrebbe stimolare la conoscenza di letture moltiplicate secondo ottiche diverse del testo stesso. Pertanto, sembra auspicabile che nell'ambito dell’educazione linguistico - letteraria si riconsideri la validità formativa multidisciplinare di un approccio filologico al testo. Questa metodologia agevolerebbe la cultura dell’ascolto e dell’attenzione all'altro ed anche la presa di coscienza della complessità della comunicazione verbale, propria ed altrui.
In un secondo momento sarebbe importante iniziarsi all'arte dell’ermeneutica, cioè dell’interpretazione del testo, sondandolo nella profondità polisemica. Questo esercizio  sollecita ed educa l’emotività oltre all'intelletto, affinando la sensibilità e l’ empatia.
Filologia ed ermeneutica sono complementari ed essenziali per l’educazione all’humanitas. Le due arti sono, infatti, scevre da quella autoreferenzialità compiaciuta di tanta critica letteraria che sfocia nell'inciucio, benevolo o malevolo che sia.  E per di più capita che, talvolta, le critiche si affastellino l’una sull’altra, fino a sopprimere del tutto l’opera oggetto della critica. In proposito ricordo il racconto  di un critico, del quale ho dimenticato il nome, che, non avendo mai letto l’opera di Zola, stancatosi di rispondere genericamente alle domande dei presenti alle sue conferenze, si decise un bel giorno ad affrontare la lettura del ciclo dei Rougon Macquart. Dopo aver vissuto l’esperienza, quel critico conobbe veramente Zola e, finalmente, fu felice di raccontarlo agli altri.

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