martedì 3 maggio 2016

Quell'attimo infinito che cerca ancora le parole per dirsi

Ci sono momenti in cui le emozioni, vere  e proprie scosse elettriche che liberano energia, diventano un flusso di pensieri  caotici che cercano ardentemente una forma adeguata per manifestarsi. E talvolta le emozioni sono tanto forti che si accavallano e, come le onde del mare, si infrangono in rivoli infiniti e fragorosi e si ritraggono in risucchi inarrestabili. Sopravviene  allora quasi un’afasia. Il  groppo dei pensieri  vorrebbe la magia di un linguaggio nuovo, epifanico.

Ci soccorre in questi momenti l’esercizio della scrittura che, fungendo da dispositivo di osservazione e di controllo, abbassa la pressione della passione, incanalandola nelle parole da ordinare in tracciati sulla pagina bianca.

Un’ emozione forte è quella che precede la delusione, perché,  prima di cedere allo scacco, la mente e il cuore si accendono nella sofferenza di  una possibilità mancata proprio nello sforzo di interrompere la sequela di montature artificiali che vanificano ogni tentativo di autenticità.

A scuola, stamattina, c’è stato un incontro con un fisico, Bruno Galluccio, il quale, ad un certo punto della sua vita, si è votato alla poesia, traducendo in ”correlativi oggettivi” alla Eliot e alla Montale, come lui stesso ha affermato, la sua esperienza scientifica.

Alle nove e trenta sono andata in aula magna con gli studenti della quinta classe e con la collega di matematica e fisica, per incontrare il poeta scienziato.
In seguito alla scelta della collega di proporre agli studenti la lettura della raccolta di Galluccio, raccolta intitolata “La misura dello zero", mi ero infatti “accodata” e, quindi, arrischiata nell’ impresa di interpretazione. A dire il vero,  avuto il libro tra le mani,  mi ero sgomentata per la rarefazione astrusa con cui le eterne domande sul senso e sul destino dell’esistenza erano lì formulate. Ma ormai mi ci ero buttata in quel guazzabuglio e, quindi, dovevo nuotarci.
Era urgente tuttavia  fornire  un filo di Arianna ai malcapitati studenti, affinché si districassero in quel labirinto. E così io e la collega  ci siamo messe a studiare e, insieme ai ragazzi, abbiamo cavato alcuni ragni dal buco,  tentando  qualche trama ermeneutica. Ci sosteneva il sapere che Il bello,  non sussiste nella  meta ma  nelle peripezie del viaggio. E il nostro viaggio è stato, tutto sommato, “fertile di avventure”.
Giunti alla meta bisognava, comunque, apprendere ad  ingoiare  il  rospo. Itaca era povera, molto.

In un tal genere di  “ Incontri con l’ autore”, dicitura questa oggi abusata fino all'insensatezza, non c’è alcun interesse per l’umanità. Si ammucchia nell'aula magna il maggior numero possibile di spettatori,  lì convocati solo per giustificare e celebrare un evento pubblicitario per l’autore e per l’azienda scuola, proprio come si fa in tante trasmissioni televisive, passerelle di “divi” più o meno valenti.  

Si stava così, stamani, nell'aula magna gremita e vociante,  in  attesa che l’incontro iniziasse.Tuttavia, ci speravo ancora in un dialogo vero. Macché! L’autore era sparito per l’intervista, non so a quale giornale locale, il quale, naturalmente,  lustrerà ben bene l’evento con la solita retorica celebrativa,  magari inneggiante alle nuove sorti  progressive di scienza e poesia, finalmente riunite.
Intanto io cominciavo a scalpitare;  mi innervosiva che si inneggiasse alle singole eccellenze, all'alunno geniale in grado di comporre recensioni ridondanti ed astruse non meno delle poesie che ha recensito. Infastidita dalla ritualità che sempre cerco di evitare, guardavo  la collega e  gli alunni che erano stati indotti  in questa impresa  e che ora si dovevano sorbire verbose presentazioni, mentre il tempo, in barba ad ogni teoria scientifica, fuggiva via e, di conseguenza, inesorabilmente la nostra esperienza  non poteva  essere narrata , sebbene fosse stato detto più volte che eravamo  stati i primi e gli unici a lavorare veramente come gruppo classe.  Mi addolorava, letteralmente, di essere caduta nella trappola della vacuità. Sull'orlo di una crisi di nervi, appena si è presentata  l’opportunità, ho incitato uno studente ad intervenire con una domanda emersa dalla nostra lettura. Subito dopo l’ho seguito con gli altri, trascinando la collega malcapitata, che se ne stava in serafica attesa che l’evento seguisse il suo corso naturale verso l’esaurimento nel vuoto assordante.

Ecco, volevo interrompere la catena prevista e prevedibile di questo genere di incontri. Volevo trovare “ l’anello che non tiene” ”la maglia rotta nella rete”, quel “varco” che permettesse  di salvarsi dalla “ruspa” spietata della Storia. Volevo anche dire al Galluccio che la poesia se ne impipa  delle tecniche a freddo, compreso il suddetto “correlativo oggettivo”, perché la poesia non rinchiude, ma libera, inventando altri modi e altri mondi.

 Ho raccolto, quindi, tutte le mie forze nel canto leopardiano “Alla primavera o delle favole antiche”, dicendo come sia chiaro lì che il canto ingenuo della nostra unità con la natura è perso per sempre. Da tempo L’alloro non ha la vita di Dafne né il mandorlo quella di Filli. E a Filomela, ormai, non resta che cantare il dolore dell’arido “vero”.  Cerco di dare un’intonazione serena e colloquiale alla mia voce. Ma, alla fine, con disagio, mi accorgo che è stonata.

 Sono questi i tempi in cui l’usignolo deve fuggire al bosco, riparare nell'ombra di fruscianti silenzi. Nei consessi degli uomini ormai si ciancia solo di competizioni e di premi, letterari e non letterari.
Ma  ecco che adesso l’emozione appassionata rischia di tramutarsi in malinconia e in nostalgia, rasentando  l’elegia per il Paradiso perduto. È la ben nota altalena del cuore che palpita in ogni singola cellula della materia. Su e giù. Tra volo e abbattimento. In un impeto vitale che non sa rinunciare agli ameni inganni, alle speranze indimenticabili. E la speranza è affidata alla poesia ispirata dalla libertà, quella poesia  che non tollera recensioni erudite e proclamazioni paludate, ma chiede ascolto attento e disinteressato, e non può abitare le vetrine  allestite per platee rumorose  ed annoiate.
La Poesia non ha pretesti  né pretese,  tanto meno quelle di spiegarci qualcosa, meno che mai la matematica o la fisica. La poesia tenta abissi insondabili, dai quali è irrimediabilmente attratta, ma non si vanta di averli compresi.

 La poesia  è lo sguardo di un attimo infinito che cerca ancora le parole per dirsi.


                                                 

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